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Halloween (1978): fra immedesimazioni perverse e ideologia interiorizzata

Erika Cattaneo
3 marzo 2021

Indiscusso cult movie da cui è sbocciata una folta messe di sequel, prequel, remake, crossover che compongono un franchise di lungo corso quantitativamente prolifico e commercialmente fortunato, Halloween (it. Halloween – La notte delle streghe – 1978) è, secondo la genealogia convenzionale, la pellicola inaugurale del cosiddetto slasher film: sottogenere dell’horror i cui personaggi, da Jason Voorhees (Friday 13th) a Freddy Krueger (Nightmare on Elm St), hanno travalicato i confini delle rispettive saghe per ricavarsi il proprio spazio in una vasta rete intertestuale che intreccia ormai la cultura “pop” in senso lato. 

Il lungometraggio di John Carpenter avvia infatti lo schema narrativo che si costituirà, insieme ad una specifica costellazione di tematiche e marche stilistiche, come vero e proprio codice del genere nei decenni successivi.

Pur con qualche scarto e qualche variazione messi in opera dai film a venire, nello slasher, uno spietato psyco killer sconvolge di norma la pacata esistenza di una cittadina di provincia con una serie di omicidi efferati, spesso a danno di giovani dai costumi sessuali e morali ampiamente liberalizzati. Nulla pare arrestare la brutalità dell’assassino sino al suo incontro-scontro con la canonica final girl, autentica mosca bianca per le abitudini ben più morigerate rispetto al proprio gruppo e dotata di un acume precluso alle amiche che cercano di farla uscire dal suo guscio di timidezza e seriosità. È lei a interrompere, almeno temporaneamente, la catena di delitti dello psycho killer, spesso riuscendo a ferirlo e a intaccarne la scorza di invulnerabilità e impunità. 

Nel lungometraggio di Carpenter, è la tranquilla comunità cittadina di Haddonfield, universo autoreferenziale e autosufficiente, a farsi teatro di una scia di feroci omicidi perpetrati da Michael Meyers (Nick Castle), squilibrato maniaco omicida tornato nella propria città natale dopo l’evasione dal manicomio criminale in cui era da tempo rinchiuso. Questi lascerà dietro di sé una lunga scia di morti, apparentemente guidato – come quindici anni prima con la sorella – dalla volontà di punire la dissolutezza giovanile di cui si propone come censore. Fra le vittime designate di Michael, barricato in un raggelante silenzio assoluto per tutto il film, ci saranno anche Lynda (P. J. Soles) e Annie (Nancy Kyes), due spensierate liceali la cui caratterizzazione è appiattita dalla sceneggiatura su una dimensione ludico-ricreativa che sembra assorbirle completamente.

Di tutt’altro segno, invece, la personalità di Laurie – interpretata da Jamie Lee Curtis, “scream queen” per eccellenza di quelle decadi, qui al proprio esordio sullo schermo: di Laurie il film ci rimanda l’immagine di una ragazza dotata di una certa pragmatica accortezza, razionale, matura e responsabile, oltre che impacciata quando è chiamata a conformarsi ai comportamenti delle sue amiche – si tratti di fumare cannabis o di invitare qualcuno al consueto prom. Quando, nella notte di Halloween, dovrà confrontarsi con la furia di Michael, Laurie sarà la sola a sopravvivere: grazie a qualità sconosciute alle due amiche, riuscirà persino a ferire lo psyco killer e a metterlo in fuga, aprendo la strada al primo dei numerosi sequel di Halloween stesso.

Halloween come slasher film: le letture contestatarie e i fini smarcamenti di Carpenter

La vulgata critica di matrice femminista ha da tempo messo in luce come l’intero sottogenere slasher si appropri di una morale spiccatamente sessuofobica e intrisa di misoginia. Nei film afferenti al genere, in effetti, se la messa in scena insiste sulla sessualizzazione dei corpi femminili, reiterando scene di nudo talvolta aperte gratuite che rispondono soltanto alla volontà di esibire la nudità come attrazione in sé e per sé – sul piano narrativo difficilmente questi corpi e la libertà con cui si avvicinano al sesso non vengono poi puniti con ferocia da uomini sadici e violenti che ne ripristinano la sottomissione. 

Sarebbe difficile negare che, nella drammaturgia messa a punto da Carpenter, non sia presente una morale simile. Dopotutto, Michael partecipa esattamente di un orizzonte valoriale oppressivo e fallocrate, autentica bussola che lo orienta dalla scelta delle vittime sino al loro annientamento. Lo psyco killer carpenteriano, infatti, si premura di non perdersi neppure un secondo di esposizione della pelle delle proprie vittime, osservate di soppiatto mentre consumano rapporti sessuali o si trovano in abiti di fortuna, inevitabilmente succinti. In seconda battuta, tuttavia, egli non manca altresì di castigarne le condotte libertarie, di annullare cioè la spinta con cui queste ultime rischiano di minare la stabilità del sistema patriarcale di cui Michael è insieme prodotto e strenuo difensore. 

Secondo un’equazione che è proprio il film di Carpenter a fissare per il genere tutto, la stessa inclinazione delle giovani protagoniste ad allontanarsi dalle aspettative di genere – vivendo liberamente la sfera della sessualità, o trasgredendo ai diktat della babysitter modello, materna e morigerata – sembrano direttamente correlate alle probabilità di finire schiacciate dalla furia omicida di Myers. L’implicita lezione, che si ricava guardando alle dinamiche a monte dei vari omicidi, sembra essere sussumibile in un unico comandamento: più si esula dal perimetro culturale tracciato dalla società e si negozia autonomamente il proprio ruolo di donna, meno si possiedono le credenziali indispensabili a contrastare la volontà omicida dello psyco killer del caso.

Non a caso, a interrompere la catena di morti che sconvolgono Haddonfield è solo Laurie, “girl scout” riflessivamente pragmatica, timida, studiosa e non incline ad omologarsi ai passatempi e alle abitudini delle proprie coetanee, che anzi paiono metterla in sincera difficoltà. Così, correlando la corruzione morale e comportamentale delle vittime al destino che si abbatte su di loro, il film introietta nel suo stesso tessuto narrativo una morale schiettamente patriarcale che si arroga potere di vita o di morte sulle donne a seconda dell’autodeterminazione con cui si definiscono nel mondo. Se tutto questo è pacificamente in funzione nel lungometraggio di Carpenter, tuttavia, in Halloween le specificità formali adottate per la messa in quadro e in scena dello psyco killer riescono sottilmente a problematizzare, attraverso un gioco di scomode immedesimazioni spettatoriali, alcuni degli assunti ideologici che la critica femminista ha avuto modo di denunciare come fondamentali puntelli valoriali dello slasher movie.

Sguardi oscenamente sovrapposti

Per plasmare la figura di Michael Meyers, Carpenter utilizza delle precise risorse stilistiche sin dalla scena di apertura, capace di riverberare attraverso l’intero film la densa tensione di cui è impregnata. 

L’incipit di Halloween è costituito da una lunga soggettiva di Michael, nella notte di Halloween del 1963: ancora bambino, dà sfogo e corpo per la prima volta alla propria latente natura omicida. Anticipando quello che quindici anni dopo sarà a tutti gli effetti il suo modus operandi, Michael si aggira intorno a casa propria, occhieggiando attraverso le finestre del piano terra. Sua sorella – baby sitter deputata – amoreggia sul divano con un coetaneo per poi salire nella propria stanza, sempre osservata da Michael. Senza che mai al nostro sguardo sia permesso di disallinearsi da quello di Michael, quest’ultimo avanza quindi fra le stanze, agguanta un lungo coltellaccio dalla cucina, attende che il ragazzo sia lontano e, giunto al piano di sopra, accoltella a morte la sorella con una maschera da clown ben calcata in viso.

Fig. 1. Soggettiva del piccolo Michael, prossimo a commettere il suo primo omicidio.

Innescata la macchina narrativa con l’evasione di Michael, Carpenter si limita a far fruttare magistralmente la carica tensiva insita in questa prima perturbante sovrapposizione dello sguardo spettatoriale alla visione dell’omicida. Lo stesso ritorno di Michael alla cittadina natia, fra le incantevoli villette che si affastellano sulle vie di Haddonfield, è segnato dalla trasformazione dei campi lunghi su Laurie, Annie e Lynda in soggettive del killer, appostato nell’ombra in attesa del momento migliore per aggredire le giovani. Chiarita la componente voyeuristica che prelude alla violenza fattiva di Michael, durante quel primo omicidio fruito in prima persona dallo spettatore, l’imbroglio immedesimativo si regge insomma da sé, mentre il pathos viene accumulato di conseguenza. 

Così, tenendo la macchina da presa ad una congrua distanza dai propri personaggi e indugiando sulle vie animate per il tradizionale “dolcetto o scherzetto” tipico di Halloween e sulle case che si affacciano sulla strada, Carpenter dissemina il cuore della propria narrazione di false soggettive colmate dallo spettatore, irretito nell’inganno da quella prima e forzata immedesimazione (fig. 2).

Fig. 2. Annie rientra in casa, in una falsa soggettiva che condivide significativamente quasi lo stesso punto macchina con Fig. 3.

E anche quando Michael è effettivamente lì, intento a scrutare le proprie inconsapevoli vittime da qualche angolo riparato, la macchina da presa tende ad includerlo nel quadro un momento dopo, per poi collocarsi un passo dietro le sue spalle – come a suggerire un tacito schierarci con lui (fig. 3). Lasciandoci ancora una volta troppo vicini, solidalmente, ad una soggettività malata in cui abbiamo già dimostrato di riuscire a scivolare.

Fig. 3. Michael studia i movimenti di Annie, la sua prima vittima.

In tale torbido cortocircuito in cui lo sguardo dello spettatore si trova suo malgrado fuso e confuso con quello di Michael, ogni volta che la forma filmica chiarisce il reale posizionamento degli sguardi implicati, un disagio corrosivo si fa strada nello spettatore: anche noi, forse, inconsapevolmente, indulgiamo in simili atti scopofilici, latamente abusivi?

Una maschera per tutti – una maschera di tutti

Davanti a simili quesiti e ingombranti autoaccuse per la coscienza dello spettatore, l’iconografia del personaggio di Michael Meyers sembra costituirsi come ulteriore elemento con cui Carpenter, sotterraneamente, insinua insospettate e disturbanti analogie tra chi sta davanti allo schermo e chi appare sullo stesso.

Quando viene mostrato frontalmente, Michael esibisce come maschera una grottesca replica in silicone dei tratti fisionomici del maschio caucasico, che sottende l’assenza di umanità nell’immobilità dei propri connotati di plastica. Combinato alla tuta intera da operaio sottoqualificato che Michael reperisce muovendo verso Haddonfield, tale attributo iconografico riconduce il boogeyman carpenteriano alla sua natura di “uomo qualunque”, prodotto mediano delle strutture e delle sovrastrutture in cui è cresciuto – indistinguibile e impersonale fra i tanti. 

Che si tratti di un’anonima medietà che non sconvolge quanto dovrebbe, lo conferma la totale agevolezza con cui le tre ragazze si limitano a vedere nello psyco killer un maniaco dei tanti che incontrano abitualmente, intenti a tallonarle in auto o a scrutarle lascivi dall’altro lato della strada. In nessuna occasione a Michael viene attribuito dalle ragazze un surplus di mostruosità; ai loro occhi, non è che uno come tanti, un tale che le scruta di lontano.

Sarà solo l’abbandono di questa tensione voyeuristica – innocua nel complesso – in favore di forme di violenza più distruttive e palesi a smarcare Michael dalle diffuse, più misurate modalità con cui in un sistema patriarcale sono solite manifestarsi squilibri di forza e prevaricazioni. Lo psyco killer di Carpenter è allora sì un prodotto impazzito che radicalizza la postura ideologica del proprio ambiente socio-culturale, portandola alle sue estreme conseguenze; tuttavia egli rimane parimenti un prodotto credibile e riconoscibile di quell’ambiente.

Accanto alla decodifica ingannevole delle numerose soggettive (senza soggetto) di cui si è detto, le sembianze che Carpenter sceglie per il proprio boogeyman, anodine e generiche, giocano un ruolo non secondario in quei continui scivolamenti ideologico-morali fra soggettività spettatoriale e del personaggio. E se già ci siamo sorpresi a sostituirci al suo sguardo, in bilico fra lascivia e ferocia, o quantomeno a condividerne il punto di stazionamento – con il suo amorfo volto di plastica, Michael Meyers resta perciò un passo troppo vicino a fattezze comunque antropomorfe per permettere allo spettatore di avvertirlo in una posizione di assoluta terzietà. Il fruitore viene catturato dalle risorse espressive che Carpenter mobilita per sospingerlo sempre più vicino al nucleo etico-valoriale di Michael, all’estremizzazione di un’impostazione ideologica e culturale spinta sino al disumano.

L’esito è una pellicola tagliente per il discorso ideologico che le è sotteso, capace di riempire di significato una messa in scena tecnicamente rivedibile. Halloween è un invito a bassa voce, crudele e ironico, a confrontarsi tra le psicopatie patriarcali del personaggio e quelle inconsapevoli dello spettatore, avvitate sulla personalità monolitica del boogeyman.

EC


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