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The Handmaiden (Mademoiselle): un conflitto antico fra raggiri e imbrogli

Erika Cattaneo
26 maggio 2021

The Handmaiden (2016, or. 아가씨 – it. Mademoiselle) è l’ultimo lungometraggio del regista sudcoreano Park Chan-Wook il quale conserva, in questo film, quel peculiare mélange di brutalità e lirismo, gusto per il grottesco e melanconia che informava già la sua nota trilogia della vendetta (Sympathy for Mr. Vengeance, 2002 – Old boy, 2003 – Lady Vendetta, 2005). Questi tratti, parte della cifra autoriale di Park, sono qui inscritti in una pellicola che, su una trama fatta di inganni e contro-inganni, innesta tanto elementi che la accostano al melodramma, quanto altri mutuati dal cinema dell’orrore. 

Scritto dallo stesso Park a quattro mani con Chung Seo-kyung, a partire da un soggetto non originale (*), The Handmaiden si dà allo spettatore come un racconto tripartito, in cui quanto rimane fuori campo nella prima parte, perché omesso o taciuto, trova chiarimento ed esplicitazione nella seconda, scompigliando totalmente gli equilibri preesistenti. Un’orchestrazione attraversata da grande forza tensiva, che dà corpo ad una trama di raggiri, doppi giochi e voltafaccia che risolve le proprie tensioni in quello che non fatica a sembrare un vero, inatteso happy ending. 

Scansione narrativa.

[DISCLAIMER: a seguire sono riportati importanti spoiler sulla trama di The Handmaiden]

La prima sezione di The Handmaiden si presenta a focalizzazione interna, organizzando il proprio discorso – sul piano narrativo tanto quanto audiovisivo, mediante l’uso dei voice overintorno al punto di vista di Nam Sook-he (Kim Tae-ri). Truffatrice di rara abilità, la giovane viene coinvolta in un raggiro da un falsario coreano che, nei panni del conte giapponese Fujiwara (Ha Jung-woo), aspira a coronare definitivamente i propri sogni di ascesa sociale impadronendosi della fortuna di una giovane giapponese dalla bellezza di porcellana, Hideko (Kim Min-hee). Affinché costui riesca a sposarla, espropriarne il patrimonio e poi rinchiuderla in manicomio, Nam Sook-he dovrà introdursi in qualità di domestica nella vita della giovane e spingerla fra le braccia del conte. 

Se la prima sezione del film si interrompe su un autentico capovolgimento drammatico – la seconda di The Handmaiden, con uno speculare uso della sua voce over, si organizza invece attorno alla soggettività di Hideko. Qui Park riavvolge il tempo del racconto e arretra sino all’infanzia di quest’ultima, dispiegando davanti ai nostri occhi l’apprendistato cui l’ha costretta l’inquietante zio.

Da questa integrazione narrativa, lo spettatore apprende dell’esistenza di un’altra Hideko, la cui sagoma è stata appunto ritagliata attorno ad un duro ideale culturale di matrice tradizionale – quello della donna fredda e composta, prona ad esaudire senza esitazioni le pulsioni sessuali più grette e ad assecondare prontamente i desideri altrui. Dal momento dell’arrivo di Nam Sook-he, poi, lo svelamento a cascata di dinamiche relazionali inaspettate e di pregresse decisioni dei personaggi – oggetto di ellissi nella prima parte – portano ad un nuovo, sostanziale scambio di ruoli tra truffatori e truffati

Park non concede tregua allo spettatore, sino all’approdo alla terza e ultima parte: quel che sembra orchestrato ad arte viene presto smentito, riscritto, rimodulato fino a restare invischiati nella stessa ragnatela di inganni e tranelli che i personaggi intessono gli uni ai danni degli altri.

Il dittico costituito dalle prime due parti trova una propria consistenza solo nella lettura combinata dei due segmenti – peraltro chiarendo una sorta di complementarietà nei vissuti soggettivi delle due ragazze, che The Handmaiden, nel suo finale, non fa che riaffermare. Portata in campo la realtà diegetica attraverso un gioco di svelamenti progressivi – e disarmanti per lo spettatore – la terza parte può evitare infingimenti e reticenze calcolate. Nello scioglimento drammaturgico del film di Park, quando i destini di Hideko e Nam Sook trovano il proprio punto di equilibrio, la narrazione si fa piana e procede quietamente verso la sua definitiva conclusione.

Conflitti secolari: una metafora drammatizzata.

Se un tema sembra spiccare dalle tortuosità drammaturgiche, che Park canta con stile mosso e polimorfo, è quello dello scontro fra Natura e Cultura.

Oggetto di riflessione che movimenta il dibattito di arti e lettere da secoli – il predominio fra dati naturali e costrutti culturali, sempre in fase di ridefinizione e negoziazione, sembra infatti essere lo sfondo tematico su cui si distende la sceneggiatura di Park e Chung. In quest’ultima, alle due polarità di tale conflitto, vengono assegnati corpi e volti afferenti ai due generi: nella drammaturgia del film, le dinamiche che intrecciano le sorti di personaggi maschili e femminili rimandano metaforicamente ad altro. 

Specie in un contesto nazionale come quello asiatico degli anni Trenta, dove la segregazione di genere non fa alcuno scalpore, la dialettica maschile-femminile si àncora a quella, rispettivamente, fra Cultura e Natura, ben prestandosi a letture allegoriche particolarmente stimolanti.

La Cultura materializzata e le sue incarnazioni finzionali.

Fra i pochi ambienti in cui il The Handmaiden si articola, il maniero in cui Hideko vive con lo zio sembra costituirsi come materializzazione architettonica di quelle stesse costrizioni sociali che vengono crudelmente coltivate al suo interno.

Quelli della gigantesca villa Kōzuki sono, infatti, spazi che Park mette in scena in tutta la loro claustrofobica iper-razionalità. La macchina da presa snoda i propri movimenti in ambienti dal mobilio sontuoso che finisce per levare ossigeno alle figure umane che qui si muovono, in quadri ulteriormente segmentati dalle linee geometriche delle carte da parati e dalle strutture portanti delle stanze.

A comprimere ulteriormente lo spazio a disposizione, concorre la rimodulazione di quest’ultimo attraverso l’apertura e la chiusura dei fusuma – le porte scorrevoli tipiche della tradizione giapponese: allo scorrere dei pannelli in carta di riso, lo spazio domestico si richiude ulteriormente su se stesso, schiacciando e opprimendo i personaggi. La macchina da presa di Park attraversa così un profilmico espressivamente votato a restituire la claustrofobia della magione in carrellate fluide, spesso rapide – in movimenti lineari che fanno splendidamente il paio con lo stato di sostanziale prigionia degli abitanti della casa.

Lo spazio della villa si trova in perfetta assonanza con colui che ne ha le redini, il lascivo zio di Hideko, vero mastro burattinaio degli abusi terribili che si consumano fra le stanze ordinate del maniero. Kōzuki è, nell’economia complessiva del film, rappresentante degli aspetti tossici e malsani della Cultura. A partire dalla sua occupazione, ovviamente: collezionista di libri erotici rari, ossia esperto conoscitore degli oggetti in cui la Cultura si fa materia e lascia una traccia, debitamente preservati.

La compravendita offerta da Kōzuki si fa poi ancora più appetibile, nella misura in cui non solo organizza raffinatissime letture dei propri pezzi per gli interessati, ma offre loro anche la possibilità di esperirne la materia letteraria sulla pelle di Hideko. Su di lei – e su di lei sola – sono rovesciati i costi dell’operazione con cui la sua carne e la sua anima sono state plasmate, al prezzo di un crudele apprendistato, per corrispondere ad un ideale femminile lontano dalla realtà umana. Un involucro incantevole da colmare con tutte le menzognere narrazioni che la Cultura dà del femminile, prima di gettarlo in pasto a lupi entusiasti.

L’azione quotidiana dello zio è così votata alla diffusione capillare e alla concretizzazione perversa delle distorsioni peggiori del sistema socioculturale in cui si muove. Gli sbocchi della sua azione, a loro volta, dimostrano come, opacizzando il naturale dietro dettami culturali fallaci, non si possa che dare forma ad un universo che si alimenta di soprusi e violenza, che dimentica ogni forma di empatico ed emozionato relazionarsi per far posto a depravazioni posticce.

Le controspinte della Natura: verso il trionfo

In questo corpo monolitico di convenzioni, ruoli imposti e relative aspettative, irrompe la figura di Nam Sook-he, cellula infetta che causa la deflagrazione totale di un organismo che già dava segni di malattia (**). L’umile truffatrice analfabeta, proveniente dal fondo di quel sistema che la Cultura traccia e poi difende strenuamente, si insinua infatti nel mondo di Hideko, fatto di norme senza tempo e senza spiegazioni, fino a sovvertirne gli stessi presupposti. 

A partire dalle parolacce che la giovane ereditiera apprende ascoltando di nascosto la propria domestica: l’appropriazione di tale modalità di espressione, sinora sottoposta a tabù dal rigore educativo dello zio, si costituisce come prima vera crepa nell’habitus di bambola di porcellana in cui Hideko è intrappolata. 

Di qui, attraverso una serie di momenti che assemblano un’attrazione reciproca destinata ad esplodere in passione, si approda – inevitabilmente, naturalmente al primo amplesso fra le due. Significativamente, in questa scena, nell’esplorazione del proprio desiderio, Hideko e Nam Sook-he si fanno guidare dalle possibile brame che il conte Fujiwara potrebbe manifestare durante la prima notte di nozze con Hideko. Quasi che non fosse la loro propria soggettività desiderante a dettare il ritmo e la natura delle carezze con cui esplorano i propri corpi – quanto, piuttosto, tutto ciò che, nella sfera dell’erotismo altrui, sanno essere chiamate a soddisfare. 

A tal proposito, in un ideale percorso di scoperta e conquista della propria sessualità e dei propri desideri, un punto di rottura ci sembra costituito dalla lettura del passo relativo alle Minling, le “Campane del Piacere”. Seduta di fronte al proprio leggio, mentre il consueto pubblico di altolocati licenziosi si umetta le labbra compiaciuto per ciò che ode, Hideko sembra riuscire per la prima volta a proiettare se stessa e il proprio desiderio in un’attività cui finora, in nome del piacere altrui, ha freddamente prestato carne e voce. Nel buio che a causa di un blackout inonda la sala, generando una parentesi rispetto alla teatralizzazione assoluta che guida le letture, la ragazza declama ad occhi chiusi, le labbra mosse da un leggero tremore. Al ritorno della luce, che infrange l’incanto, un primo piano ci mostra la ragazza visibilmente sorpresa e straniata, come accentuato dall’uso del grandangolo, quasi fosse stata raggiunta da sguardi esterni in un momento di profonda intimità.

La Natura irrompe così nel luogo principe della Cultura, in una prima fondamentale dichiarazione di supremazia.

Fig. 1. The Handmaiden- Primo piano strettissimo su Hideko catturata dalla lettura del succitato passo.

Fig. 2. The Handmaiden- Primo piano grandangolare di Hideko, al ritorno alla realtà della platea in ascolto.

Dopotutto, è esattamente materializzando quanto letto in quelle pagine che Hideko celebra con Nam Sook-he la definitiva emancipazione dal giogo imposto dallo zio e dal conte Fujiwara. Nella cabina di un traghetto diretto a Shangai, dando corpo alle righe declamate da Hideko, le due giovani sanciscono una volta per tutte l’affrancarsi dei propri sentimenti da qualunque diktat esterno e della propria passione da qualunque disturbo.

Nulla di quello che la Cultura di appartenenza potrebbe pretendere da loro trova più spazio; Natura trionfa, sbaraglia ogni aspettativa e ogni vincolo e lascia le giovani a far fiorire il proprio sentimento. Fra questi due momenti, tuttavia, una tappa obbligata: una dichiarazione di guerra dal sapore rivoluzionario, in cui si condensa alla perfezione la determinazione assoluta che informa le intenzioni delle due ragazze nel momento in cui realizzano che la prigionia si è fatta intollerabile. La biblioteca dello zio – luogo che custodisce meticolosamente gli strumenti con cui Hideko viene soggiogata e sottomessa alle logiche del sistema socioculturale di appartenenza – deve essere rasa al suolo. Roccaforte ed emblema di tale sistema oppressivo di dominio, essa deve sprofondare nella distruzione, cosicché il piano delle due ragazze possa avere fortuna.

Fig. 3. The Handmaiden- Fotogramma dalla scena della devastazione della biblioteca.

Le pagine strappate, quelle imbrattate di inchiostro, i costosi volumi gettati nell’acqua o scaraventati via si affastellano in questa scena, producendo un caos visivo che stride con le ordinate geometrie della biblioteca. La forza predittiva di questa scena, prima dell’epilogo della terza e ultima parte del film, non dà adito a equivoci: non importa con quanta violenza si cerchi di sopprimere lo spontaneo palpitare di due cuori che si cercano sotto cumuli di norme e imposizioni dettate culturalmente: nulla può davvero mettere a tacere il richiamo di due soggettività che si cercano, fuori dalle maglie asfittiche della Cultura.

EC


NOTE:

* Il punto di partenza per la coppia di sceneggiatori è infatti il romanzo Ladra (or. Fingersmith) di Sarah Waters, ambientato nell’Inghilterra vittoriana e non nella Corea sotto il dominio coloniale nipponico, negli Anni Trenta del XX secolo, come nell’adattamento schermico in esame.

** La funzione distruttiva di Nam Sook-he rispetto alle dinamiche vigenti in casa Kōzuki, peraltro, richiama alla memoria l’azione disgregatrice della domestica Myoung-Sook rispetto alle norme familiari che reggono la famiglia borghese al centro di The Housemaid (1960), cult sudcoreano di Kim Ki-young con cui il film di Park condivide temi quali l’invasione domestica, lo scontro di classe in filigrana e il potere della seduttività femminile.


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