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cover Quarta parete

Abbattendo la quarta parete

[DISCLAIMER: NELL’ARTICOLO SONO CONTENUTI VARI SPOILER DI IO ED ANNIE, FLEABAG, MR. ROBOT, HOUSE OF CARDS, METAL GEAR SOLID I-II-V, BIOSHOCK INFINITE, ANIMAL MAN]

Quante volte vi è capitato di guardare un film, una serie tv, giocare ad un videogioco o leggere un fumetto e vedere d’un tratto succedere questo?

Un personaggio che guarda in macchina – che guarda noi – è un po’ come un pesciolino in uno di quegli acquari con l’interno riflettente. Immaginiamo che, d’improvviso – o forse gradualmente – le pareti dell’acquario diventino trasparenti ed il piccolo animaletto sviluppi la capacità guardare oltre: assumerebbe la consapevolezza di essere un minuscolo essere confinato in un contenitore con il solo scopo di essere osservato da un bambino – al quale forse è stato regalato per il compleanno o che lo ha vinto ad un Luna Park. Il pesce si renderebbe conto di esistere solo per l’intrattenimento di quel piccolo spettatore e così, spavaldamente, lo guarderebbe negli occhi per comunicargli un pensiero: “io ti sto guardando”.
Questa è la rottura della quarta parete.
Il termine quarta parete deriva dal mondo del teatro. Pensiamo al palcoscenico come una stanza con tre mura reali ed uno immaginario, ovvero il proscenio (l’acquario) che serve a separare il mondo dei personaggi (pesciolino) da quello della platea (bambino) e permettere al pubblico di guardare lo spettacolo: un personaggio che diviene consapevole di far parte di un’opera, e si rivolge direttamente a chi si trova in sala, rompe la quarta parete.
Già gli antichi romani, nello specifico Plauto, usavano delle “intrusioni” del pubblico all’interno dell’opera teatrale ma è solamente nel 1700, con il saggio De la poésie dramatique di Denis Diderot, che il concetto di quarta parete viene messo nero su bianco; dovremo, tuttavia, aspettare fino al diciannovesimo secolo per iniziare a vedere la suddetta parete infrangersi.
In semiotica si distinguono quattro tipi di punti di vista per quanto riguarda l’enunciazione filmica: l’oggettiva, la soggettiva, l’oggettiva irreale e l‘interpellazione. Quest’ultima corrisponde allo sguardo in macchina e causa nello spettatore uno strano effetto: gli viene ricordato, trasformandosi da colui che guarda a colui che è guardato, di vedere un film. L’incanto dell’immedesimazione nella pellicola viene spezzato e questo è il motivo per cui, nel cinema classico, la rottura della quarta parete è praticamente inesistente. Dovremo aspettare fino all’avvento del Cinema moderno per vedere questa pratica fiorire, dovremo aspettare Kubrick, i Monthy Python, Mel Brooks ma, soprattutto, dovremo aspettare Woody Allen.
Allen è indubitabilmente un’icona del cinema contemporaneo con circa cinquanta pellicole all’attivo; ha attraversato fasi diverse, rinnovandosi attraverso di esse senza perdere la propria spontaneità e riconoscibilità tra cui troviamo anche, come elemento ricorrente delle sue pellicole, la rottura della quarta parete. Il 1977 è l’anno in cui vede la luce qualcosa che si rivela capace di discostarsi dal Woody Allen comicamente demenziale de “Il dittatore dello stato libero di Bananas” o “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere)”. Esce un film diverso, una non-commedia romantica che plasmerà le future commedie romantiche, un lavoro che farà da ponte verso l’Allen più intimista di “Interiors” e “Manhattan”: il film in questione è Io ed Annie.
Il centro focale dell’opera è rappresentato della relazione naufragata fra Annie (una deliziosamente leggera Diane Keaton) ed Alvy (alter ego di Allen) e di come quest’ultimo abbia vissuto la loro relazione: fin qui, niente di originale. La prospettiva di Allen, però, è particolarmente autoriflessiva: si parla d’identità culturale, di psicoanalisi, di umanità attraverso la rottura della quarta parete: Alvy si rivolge a noi raccontandoci delle barzellette o mostrandoci dei siparietti impossibili ma incredibilmente acuti (come quello con il cameo del critico Marshall Mcluhan al cinema) in modo da addolcire una verità su se stesso – ma anche sugli spettatori – nascosta appena sotto la superficie e dal retrogusto amaro, di cui il monologo iniziale e quello finale ne costituiscono un esempio.
Il film, infatti, inizia con
Allen che si rivolge direttamente al fruitore e racconta una barzelletta:
C’è una vecchia storiella: due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice – Ragazza mia, il mangiar qua dentro fa veramente pena-. -Si fa davvero schifo e poi che porzioni piccole! -. Essenzialmente, è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miserie, di sofferenze, di infelicità, e disgraziatamente dura troppo poco.
Da qui inizia un viaggio nella psiche di Alvy partendo dall’infanzia, passando per le relazioni naufragate per arrivare a scandagliare quella avuta con Annie: tutto questo ha la finalità di capire per quale motivo i due si siano lasciati ma mostrandoci anche la sua visione della vita in senso più ampio.
Ma dicevamo della rottura della quarta parete, scandita in apertura e in chiusura: proprio in quest’ultimo frangente, Alvy si rivolge a noi per l’ennesima volta e ci racconta del suo ultimo incontro con Annie, secondo un classico gioco di simmetrie teatrali in cui un narratore consapevole comunica alla platea gli eventi, condensandoli e fornendo loro un punto di vista. Mesi dopo, fuori da un cinema, i due si vedono con i rispettivi partner; qualche tempo dopo si trovano per un caffè, come vecchi amici che si ricongiungono:
Dovevamo scappare tutti e due ma era stato grandioso rivedere Annie, mi resi conto di che donna fantastica era di quanto fosse divertente anche solo conoscerla. E io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete? “Uno va da uno psichiatra e dice: «Dottore mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina». Il dottore gli dice: «Perché non lo interna?». E quello risponde: «E a me poi le uova chi me le fa?». Immagino che corrisponda a quello che penso dei rapporti uomo-donna. E cioè che sono assolutamente irrazionali, pazzi e assurdi, ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.
La poetica di Allen è essenzialmente questa: usare la comicità per raccontare il dramma; la costante ironia con cui si rivolge allo spettatore non è altro che lo specchio di un profondo pessimismo possibile da sopportare solamente mediante una cosa: la passione, che sia amore o che sia arte.

Un esempio più recente – e stavolta seriale – di rottura della quarta parete come strumento narrativo è rappresentato da Fleabag; creata e interpretata da Phoebe Waller-Bridge (autrice di Killing Eve), nasce come adattamento dall’omonimo monologo teatrale scritto proprio dalla Waller-Bridge nel 2013.
Fleabag parla in camera per metterci al corrente dei suoi stati d’animo, di cosa accada nella sua mente, di cosa pensa di chi le sta intorno e lo fa costantemente; solamente nella seconda stagione ci rendiamo però conto della valenza di questa dimensione extradiegetica. Durante un colloquio psicoterapeutico, quando le viene chiesto se abbia degli amici, Fleabag risponde di sì, ci guarda, ci fa l’occhiolino e aggiunge un “loro ci sono sempre” velato di tristezza. Fleabag è una donna sola, tormentata dal dolore per due lutti pesanti che, attraverso l’adozione di comportamenti che la allontanano dagli altri, prova a mostrarsi più forte di ciò che è. La rottura della quarta parete non è, in questo caso, un vezzo stilistico ma una componente narrativa imprescindibile.
Qualcosa cambia nel momento in cui si apre con una persona, un prete (e non immaginatevi un Don Matteo della situazione). Il rapporto che si instaura tra i due è talmente profondo e trasparente da far sì che quando lei parla a noi, lui lo capisca, percepisca che lei sia “da un’altra parte”. Questo la fa sentire vulnerabile: il Prete è ad un passo dal vedere, non solo noi, ma anche la vera Fleabag.
Nel finale della serie, tanto delicato quanto straziante, è anche il nostro “rapporto” con lei a concludersi. Lo sviluppo degli eventi la porta ad una nuova accettazione di sé: si gira per un’ultima volta verso di noi e, con gli occhi lucidi, ci saluta per poi incamminarsi nel buio della notte verso casa, pronta a lasciarci.

Sempre esplorando i gangli della serialità, Mr. Robot di Sam Esmail e il netflixiano House of Cards sono forse i prodotti che meglio descrivono l’applicazione della comunicazione diretta tra pubblico e personaggio nel periodo più recente. Nel primo, Elliot Anderson si rivolge direttamente allo spettatore appellandolo come amico, “friend”: lo saluta spesso all’inizio della puntata, lo coinvolge nelle sue attività dal sapore nemmeno tanto velatamente cyberpunk e nella complessa struttura narrativa, dove si intrecciano tematiche intimiste, riflessioni psicologiche sull’uomo sia inteso come individuo che nella società, sulla tecnologia e sul rapporto tra tutti questi elementi. In particolare, gli ultimi episodi sembrano quasi rivelare una distinzione tra loro – gli spettatori voyeuristi che osservano la serie e che si identificano come una gommosa moltitudine attratta dalle vicende – e tu con cui è razionalizzato il singolo fruitore del lavoro di Esmail. In questo caso, l’Elliot risvegliato dal coma e di cui vi era stata una temporanea sospensione della personalità per permettere l’avanzamento della trama, nel più profondo dei significati metatestuali, potrebbe non essere altro che ogni fruitore unico, la cui vita è stata messa in standby per realizzare ogni singolo passaggio guidato dall’Autore ma che non ha mai smesso di osservare l’andamento dei fatti semplicemente guardando la serie. Una presa di coscienza della profonda critica sociale e delle relazioni umane che ci definiscono da trasportare immediatamente nella nostra realtà, in un processo di rottura del simulacro rappresentato dal passaggio tra “hello, friend” ed “hello, Elliot” con cui si apre e si chiude l’intera esperienza televisiva.
Ciò detto, mentre in
Mr. Robot lo spettatore assurge al ruolo di complice se non di protagonista, la rottura della parete in House of Cards è strutturalmente sadica*: si è, al contrario, continuamente testimoni delle efferatezze compiute dal (futuro, rispetto a inizio serie) Presidente Frank Underwood nella sua scalata al potere. In realtà, il personaggio interpretato da Kevin Spacey sembra quasi rivolgersi al di là dello schermo cosciente non solo dell’esistenza di qualcuno ma anche della sua assoluta impossibilità di poter attivamente influire sul suo mondo e sui suoi avvenimenti, rendendo quindi il pubblico silente osservatore delle nefandezze di cui si rende protagonista ma allo stesso tempo confessore di Underwood stesso, che ha pienamente compreso come lo spettatore sia incapace di nuocergli e affidandogli, quindi, il compito di farsi comprendere appieno e di portare il peso che è correlato a un’arrampicata sociale.
(
* un po’ come guardare l’ultima stagione.)

La rottura della quarta parete è un fenomeno altrettanto utilizzato nei fumetti e nei videogiochi. Ovviamente, gli esempi scolastici in materia sono le opere di Hideo Kojima e il personaggio di Deadpool. Mentre di quest’ultimo – complici anche i due adattamenti cinematografici – sono grandemente conosciute le qualità ed è noto che sia consapevole di essere in un fumetto, i titoli di Kojima sono forse universalmente meno noti ma tra le caratteristiche più evidenti c’è proprio quella di rivolgersi al videgiocatore, sia direttamente che indirettamente. Indirettamente in Metal Gear Solid 2, dove l’archetipo di Raiden è creato in distacco a quello di Snake (anche se comunque non vanno dimenticate le deliranti chiamate codec del colonnello Campbell, il quale invitava a spegnere la console), rappresentando lo scarto tra ciò che il videogiocatore è e quello che invece vorrebbe essere; direttamente in Metal Gear Solid, con la famosissima e geniale boss fight di Psycho Mantis, con tanto di lettura della memory card e dei movimenti del controller. Il discorso viene poi chiuso grazie alla figura del Medico, vero e proprio Avatar del videogiocatore con tanto di pugno allo specchio in Metal Gear Solid V, in una manifestazione visiva della rottura della quarta parete durante un discorso direttamente rivolto al fruitore.

Accanto a queste due classiche esemplificazioni, meno conosciuto è il modo in cui la stessa operazione viene effettuata in Bioshock Infinite e Animal Man. In quest’ultimo, Grant Morrison realizza una delicatissima opera metatestuale, in cui non solo il supereroe viene posto a conoscenza della sua dimensione cartacea e capace di visualizzare i lettori, ma dove l’autore scozzese diventa addirittura il villain finale e conclusivo, un vero demiurgo che tutto fa e tutto disfa capace non solo di riflettere sui reboot e sul purgatorio dei personaggi non più utilizzati in termini precisi e ficcanti, ma anche e soprattutto di rovinare l’esistenza di Buddy Baker per fornire pathos ai lettori, strutturando una dimensione drammatica del personaggio come pedina e deformato in virtù di una realtà più grande di quella in cui vive.
In conclusione, il modo in cui Ken Levine demolisce lo strato che separa il videogiocatore dal videogioco è particolare e difficile da individuare. Alla fine di Bioshock Infinite, è ormai palese come ogni volta che avvenga un game over Booker deWitt riparta dal suo studio, venga ricondotto dai Lutece a Columbia nel loro mondo e riprovi un’altra volta; alle normali morti vanno però aggiunte le parti narrativamente vincolate, come quella in cui viene affogato dal sacerdote che gli somministra il battesimo. In ogni caso, ciò che risulta poi lampante è che sia Rosalind che Robert Lutece conducano un’esperimento quantistico, incapace di produrre il risultato sperato – la salvezza di Elizabeth – fino all’intervento di una forza esterna: l’Osservatore, e cioè proprio il videogiocatore, che con la sua presenza realizza l’intento dei due gemelli e conferma che la realtà quantistica cambi a seconda di come la si osservi. Pertanto, il rivolgersi direttamente a chi c’è dietro lo schermo serve a concludere l’avventura, che altrimenti rimarrebbe bloccata per sempre su un bluray, in attesa di essere osservata e l’esperimento non diventerebbe reale anche nel nostro mondo.
Fico, no?

BV e AAS