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Tearaway, un videogioco sui videogiochi

Il videogioco è senza dubbio una delle forme d’arte più versatili attualmente esistenti: abbiamo videogiochi che si leggono come libri, altri che si seguono come film e altri ancora che si ascoltano come canzoni. Ma ciò che rende davvero unico un videogioco è la possibilità d’interazione. Questo è alla base del medium: il fruitore è azione e il gioco è reazione. Abbiamo il controllo sul personaggio, sugli eventi, a volte su intere popolazioni.
Poiché il motore primo del videogioco è proprio il giocatore, l’interazione è quasi sempre nascosta; il gioco avanza grazie a noi, ma i protagonisti agiscono come se fossero indipendenti, recitando il loro ruolo nel loro mondo digitale mentre si fanno pilotare verso lo scopo. Solitamente i personaggi giocabili non sono coscienti del fatto che, a guidarli, vi sia la mano invisibile di un essere umano al di là dello schermo. Ma non è sempre così. Alcuni sviluppatori decidono di mostrare questa connessione tra gioco e giocatore, senza nasconderla, rompendo il muro che c’è tra fruitore e prodotto: la cosiddetta quarta parete. Nei videogiochi anche la rottura è dinamica e noi giocatori possiamo ottenere un coinvolgimento attivo. Come in The Stanley Parable con il suo narratore inascoltato. O come in Tearaway.
 
Un mondo di carta e colla

Oltre la carta e la colla

Tearaway è un videogioco platform, sviluppato da Media Molecule nel 2013 per Playstation Vita. Ridistribuito con alcune modifiche per Playstation 4 nel 2015, sotto il nome di Tearaway Unfolded. I Media Molecule sono un po’ particolari: quel gusto per le cose “fatte a mano”, per lo stile bizzarro – forse un pelo kitsch – presente anche nel loro LittleBigPlanet. Ma quello che hanno confezionato con Tearaway non è un semplice gioco dallo stile particolare, è un vero proprio atto d’amore per i videogiochi e per i videogiocatori.
Non un prodotto pieno di citazioni svenevoli ai titoli diventati ormai cult, ma
un’opera che prende la struttura dei videogiochi per renderla essa stessa videogioco. Per farlo, gli artisti di Media Molecule hanno creato un mondo che nasconde una profonda metafora del mezzo di espressione stesso.
 

Il giocatore come parte del gioco

Viene subito chiarito che il protagonista, il Messaggero/a, si muove perché qualcuno lo muove, salta perché qualcuno lo fa saltare, qualcuno che sta al di là del loro mondo. È proprio questa entità che renderà possibile il viaggio, che creerà una nuova storia: il “Tu,  chi sta giocando.
Nel lungo viaggio che il giocatore e il Messaggero faranno insieme, attraverso i livelli, quello che balza subito all’occhio è che l’interazione non si limita al solo personaggio, ma al mondo di gioco in toto. Una specie di platform ambientale in cui il world building risulta sincronico con il protagonista solo ed esclusivamente grazie l’interazione diretta del giocatore.
Il nostro pad può letteralmente inviare la luce del Dualshock 4 dentro lo schermo, cambiare la direzione del vento, costruire oggetti, modificare personaggi e affrontare i nemici.
Il giocatore agisce sul gioco senza filtri e il gioco risponderà. Il Messaggero ci lancerà occhiate furtive e piccoli gesti di ringraziamento, senza contare la possibilità di scambiarsi oggetti tramite il pad.
Perfino i cattivi, pronti a costruire un loro pad per poter avere il controllo del gioco, sono prove tangibili della nostra presenza come giocatori. Quando ormai abbiamo assimilato le meccaniche, la sensazione non sarà più quella di seguire la strada tracciata: stiamo aiutando il gioco stesso a svolgersi. Se chiamiamo rottura della quarta parete quando l’opera interagisce con il fruitore, qui possiamo agilmente sostenere che sia stata demolita dai titoli di testa e il velo di Maya strappato sin dall’incipit.
 
Il Messaggero interagisce con il “Tu”

Gli sviluppatori come parte del gioco

Ma Tearaway si spinge ancora più in là. Gli sviluppatori stessi hanno voluto palesarsi all’interno del gioco, nella forma di due spiriti che seguono la storia del Messaggero (e la nostra, ovviamente): abbiamo così uno spirito che incoraggia il giocatore ad avanzare, un altro ci frappone qualche nemico, mentre entrambi vogliono sapere come finisce, ed entrambi sanno che solo il “Tupuò far si che la storia prosegua. Vogliono che il Messaggero consegni il suo messaggio. Ma in Tearaway, messaggio e messaggero sono la stessa cosa; e non a caso il protagonista è raffigurato come una busta, una lista vivente di tutte le cose che abbiamo fatto durante il gioco, scelte, statistiche e curiosità. Rappresenta la nostra storia come videogiocatori. Il motivo stesso per cui vengono creati e giocati i videogiochi, quel senso di appagamento nel riuscire a completare tutte le sfide che gli sviluppatori ci hanno messo davanti.
Per riuscire a vedere i titoli di coda e sentirci soddisfatti del viaggio appena compiuto.
 

L’estetica come parte del gioco

Tutto questo (meta)gioco si muove all’interno di un mondo interamente fatto di carta, colla e cartone, personaggi compresi. Un mondo in cui tutto esiste, purché lo si costruisca. In pratica, i Media Molecule hanno anche rappresentato il videogioco stesso come un enorme parco giochi fatto dagli elementi che, per primi, utilizziamo per la creazione. Quelli che usavamo da piccoli per costruire qualunque cosa, con il solo limite della nostra immaginazione. Hanno dipinto il videogioco come un enorme spazio ricco di potenza creativa, come a simboleggiare gli infiniti universi che si possono costruire tramite questo medium.
E quanti ne abbiamo visitati, videogiocando? Troppi forse, dai più realistici ai più onirici. Questo ennesimo tocco di genio è anche molto piacevole alla vista e all’udito (degna di nota è la stupenda colonna sonora). E se gli sviluppatori non possono che vederlo come un mondo di possibilità, perché non renderlo personalizzabile? Possiamo creare nuove specie di pesci o farfalle, solo ritagliando della carta col nostro pad, per poi vederle popolare l’ambiente. Il senso è chiaro:
il videogioco è creatività, sia per chi lo crea, che per chi ne fruisce.
Tearaway è creatività sia per il giocatore che per lo sviluppatore

Il videogioco come parte del gioco

Tearaway, insomma, fa prepotentemente entrare il videogioco all’interno del videogioco. Come dicevo all’inizio, questo è un videogioco che ci mostra l’essenza stessa della forma d’arte, una metafora dell’intero medium a cui appartiene. Si spoglia di tutti quei costrutti atti a far credere al giocatore che sia tutto verosimile, fa crollare i muri che vengono innalzate sulle meccaniche di gameplay, le scelte di sviluppo e i calcoli del motore grafico. Va all’opposto, mostrandoci la vera natura del videogioco, i suoi tre aspetti fondamentali: gli sviluppatori (gli spiriti), il gioco in sé (il mondo di carta) e il giocatore (il Tu), un mondo in divenire con il giocatore stesso, mentre i creatori che osservano, curiosi di vedere come finirà, un protagonista che si affida ai controlli del giocatore, l’unico in grado di poter mandare avanti la storia, la figura intorno a cui ruota tutto; perché un videogioco non ha nemmeno senso, se non c’è chi lo gioca. Una storia è una storia solo se viene condivisa… questa l’abbiamo condivisa insieme ci dice il Messaggero alla conclusione del titolo. E il pensiero va alle miriadi di altre storie con altri avatar videoludici, che sono realizzate nella sostanza proprio perché condivise con questi ultimi, così come gli sviluppatori le hanno condivise con noi.
Proprio per questi motivi, possiamo dire a tutti gli effetti che Tearaway è un videogioco sui videogiochi. Questa è la sua natura, la sua peculiarità e la sua bellezza. E di bellezza, questo gioco, ne ha veramente tanta.
 
GT