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Tag: analisi

Final Fantasy XIII: la linearità come punto di forza

Final Fantasy XIII: la linearità come punto di forza

  • Vito Carluccio

  • 28 gennaio 2022
  • noninteragire

Sebbene Final Fantasy XIII abbia ricevuto voti alti dalla critica al lancio (Metacritic di 83 su PS3), da molti è considerato il peggior capitolo della serie, la pecora nera, tanto da non considerarlo addirittura un “vero Final Fantasy”.
I motivi per cui questo capitolo abbia attirato a sé numerosi hater e difensori di una presunta autenticità della serie sono molteplici, ma due in particolare hanno suscitato le critiche più feroci: l’eccessiva linearità e il combat system ritenuto troppo facile e “automatico”.

Se per quanto riguarda il combat system siamo più che certi che la critica derivi da un giocato parziale, da un sentito dire o da un abbaglio, lo stesso non si può dire della linearità. Ebbene si, Final Fantasy XIII è un gioco lineare, è vero. Affermare il contrario significherebbe negare l’evidenza. L’errore però è nel considerare la linearità come un difetto. Anzi, viceversa, in Final Fantasy XIII la linearità è un punto di forza, una base di design sulla quale si poggia l’intera struttura del gioco.
Per muovere un’analisi critica che voglia essere un minimo credibile e strutturata, bisogna partire da un assunto: non si può assolutamente affermare che un gioco sia brutto o bello perché lineare.

Nelle prossime righe proveremo a capire i motivi di design dietro alla linearità di Final Fantasy XIII e soprattutto l’efficacia di questa struttura in relazione a trama, coerenza narrativa e progressione di gameplay.

La differenza tra voto della critica e voto del pubblico è abbastanza impressionante.

Contesto narrativo

L’universo narrativo di Final Fantasy XIII si regge sulle spalle di due “pianeti”: Gran Pulse, verdeggiante e selvaggio, e Cocoon, artificiale e iper tecnologico.
In entrambi i pianeti sono presenti i così detti “Fal’Cie”: esseri meccanici ed eterni, responsabili del mantenimento dell’ordine. Sono, infatti, considerati delle entità divine che agiscono in modo misterioso sull’equilibrio del mondo, e sul destino degli umani.

Gli abitanti di Cocoon sono governati dal Sanctum, una teocrazia. Tale istituzione ritiene che questo pianeta artificiale sia stato costruito dai fal’Cie per proteggere gli umani dal mondo selvaggio di Gran Pulse. La popolazione è indotta a credere che i fal’Cie di Gran Pulse non vogliano altro che distruggere Cocoon, e che il pericolo sia scongiurato proprio grazie alla guida del Sanctum, a sua volta benedetto dai fal’Cie di Cocoon.

Ecco come appare Cocoon visto da gran Pulse, una sorta di paradiso controllato al di sopra di un inferno selvaggio.

I fal’Cie, esseri ineffabili, possono scegliere dei campioni tra gli esseri umani e affidare loro un compito da svolgere. Gli umani selezionati dagli Dei, denominati l’Cie, vengono marchiati da una sorta di tatuaggio, acquisiscono poteri sovrannaturali e sono chiamati a compiere un’impresa non sempre chiara e cristallina.

Molti l’Cie passano l’intera vita a cercare di capire quale sia il loro scopo; una volta scoperto e compiuto verranno tramutati in cristalli, pronti per essere “scongelati” quando il proprio fal’Cie lo riterrà opportuno (potrebbero volerci secoli). Nel caso in cui un l’Cie non riesca a capire o compiere la missione affidatagli entro un tempo limite, diventerà un “Cie’th” un essere vuoto, mostruoso, aggressivo e senza nessuna coscienza della sua vita passata. Ovviamente un l’Cie designato da un fal’Cie di Cocoon è considerato dal Sanctum una sorta di eroe, e la sua impresa viene venduta come un onore. Al contrario, gli l’Cie di Gran Pulse sono considerati nemici di Cocoon, terroristi che attentano alla stabilità del pianeta artficiale stesso.

Da queste doverose premesse di contestualizzazione narrativa, che aprono diversi quesiti filosofici inerenti al destino e alla natura stessa del concetto di Dio, parte l’epopea dei nostri protagonisti.

Struttura narrativa coerente

[DISCLAIMER: di qui in poi sono presenti anticipazioni di Final Fantasy XIII]

La trama di Final Fantasy XIII è incentrata intorno a un gruppo di persone che, a seguito di una concatenazione di eventi, divengono l’Cie per conto di un Fal’Cie di Gran Pulse.
Questo evento li renderà immediatamente ricercati dalle autorità di tutta Cocoon e, pertanto, saranno braccati e considerati dei terroristi.
Non solo. Come abbiamo detto poco sopra, il destino di uno l’Cie ha una scadenza imprecisata che spinge i protagonisti a stringere i tempi per non diventare Cie’th.

Risulterà a questo punto chiaro che, con queste due grosse premesse, la linearità assuma un valore coerente con il racconto. I protagonisti devono necessariamente agire in modo più rapido possibile per evitare di diventare dei gusci senza anima. Nel mentre, sono braccati dal governo e, di conseguenza, impossibilitati a girovagare liberamente per le città che incroceranno durante il loro cammino. Il design del gioco parte da questo assunto: sono ricercati e hanno una scadenza. In quest’ottica diventa fondamentale non consentire al giocatore di rompere la coerenza interna della trama, oltre che al mood e all’atmosfera di urgenza.

Le forze governative braccano costantemente i protagonisti.

A riprova del fatto che questa forte linearità sia una scelta consapevole e non un errore di design possiamo prendere in esame il Capitolo 8, in cui per la prima volta la trama sembra accogliere un momento di svago. Due dei protagonisti si ritrovano in una città simil-Las Vegas; provano a divertirsi, a svagarsi un po’. Gli stessi personaggi diranno frasi come “possiamo perdere tempo così?” o “dimentica per un attimo le difficoltà”.

Questo intero capitolo ci dimostra la consapevolezza dei designer riguardo alla direzione intrapresa. Lo svago è li davanti a noi, abbiamo letteralmente un parco divertimenti immenso a disposizione ma la trama e il contesto non consentono questo divertimento e, per estensione, nemmeno il Game Design. Dopo un po’ di gironzolare tra le varie attrazioni verremo sorpresi dalle truppe governative, che si mostreranno in tutta la loro forza e determinazione. Non a caso, proprio nel capitolo che fino a quel momento si presentava come il più allegro e disteso, assisteremo ad una delle scene più drammatiche del gioco: quasi una dimostrazione inequivocabile che non c’è spazio per le distrazioni.

Nel Capitolo 8 c’è un piccolo momento dedicato alle attività secondarie tipiche del genere. Presto, però, la situazione diventerà drammatica.

Obbligare il giocatore a seguire una via predefinita, senza caricarlo di attività accessorie, è perfettamente funzionale al racconto e coerente con la trama, evitando così clamorose dissonanze (tipiche del genere JRPG). Anche quando il gioco ci concederà un po’ di apertura questa sarà ben integrata nella trama. Arrivati al Capitolo 11, infatti, avremo l’unica vera open area del gioco, piena di mostri, di side mission legate alla caccia e di esplorazione di un ambiente sconosciuto e selvaggio.

L’apertura acquisisce senso sia per Game Design che per coerenza narrativa. Non è un caso che a partire dalla fine del Capitolo 9, e per tutto il Capitolo 10, abbiamo avuto per la prima volta tutto il party riunito e completamente nelle nostre mani, potendo sperimentare le varie strategie. Arrivati su Gran Pulse avremo modo di mettere alla prova la nostra bravura affrontando i mostri, opzionali, più temibili dell’intero gioco.

Lato trama, ancora, tutto è coerente: la minaccia su Cocoon non è più così impellente, i personaggi hanno ormai deciso che non staranno agli ordini dei fal’Cie, inoltre sul nuovo pianeta non sono presenti le forze governative pronte a inseguirle in ogni dove. Per la prima e unica volta sono liberi di scegliere autonomamente, così come lo è il giocatore.

Nel Capitolo 11 si apre la mappa. Gran Pulse è grande e ricca di mostri unici, e noi avremo il party al completo.

Una lenta progressione, ma coerente e ben strutturata

La scelta di rendere lineare questo capitolo acquisisce senso anche dal punto di vista del gameplay, praticamente incentrato esclusivamente sul combat system. A differenza di alcune critiche assolutamente fuorvianti, il sistema di combattimento di Final Fantasy XIII è uno dei più complessi nell’intero genere. Avremo a che fare con ruoli fluidi, atb (attack time battle) non stoppabile, pre-settaggi di battaglia, catena, crisi e studio della IA dei nostri compagni e delle caratteristiche dei nostri nemici.

Sarebbe inutile dilungarsi troppo nello spiegare questo intricato e profondo sistema. Basta sapere, però, che non è per niente facile da padroneggiare e che sarà sempre in grado di proporre una sfida degna di nota. Probabilmente lo stereotipo per il quale il gioco sia “facile” deriva dal fatto che per gran parte della prima metà del gioco, almeno quattro o cinque capitoli, il titolo ci obbliga a utilizzare un sistema monco, privo della libertà e del tatticismo che si raggiungerà solo nelle zone più avanzate.

Questa scelta limitante potrebbe riflettersi in un’esperienza castrata, ma anche in questo caso vi è sottesa una scelta precisa. La progressione centellinata del combat system è coerente con lo sviluppo della trama e soprattutto con quello dei personaggi, i quali scopriranno le loro reali capacità in modo graduale, arricchendo il sistema. Durante l’intero gioco non faremo altro che avanzare di combattimento in combattimento, obbligati ad utilizzare un party predefinito dal gioco che cambia di capitolo in capitolo in base alle necessità del racconto.

La condizione dei protagonisti, descritta in precedenza, rende coerente questa sequela di scontri e gli sviluppatori sono riusciti a costruire una progressione estremamente precisa attraverso i tredici capitoli che compongono il gioco.

Il combat system prevede una preparazione tattica al di fuori della battaglia che poi ci permetterà di cambiare strategia al volo durante i combattimenti.

Come detto, quasi in ogni capitolo il party cambierà forma, il combat system svelerà lentamente le diverse meccaniche acquisendo una grande complessità e il giocatore sarà chiamato via via a sperimentare e assimilare le varie aggiunte che poi esploderanno nei capitoli più avanzati.
Ecco: questa lenta e programmata progressione del gameplay ha tratto in inganno moltissimi giocatori che hanno, purtroppo, solo scalfito la complessità tattica del sistema degli optimum.

Nei primi quattro capitoli sarà sufficiente usare l’attacco automatico, alternato a qualche saltuario cambio di ruolo dei personaggi per avere la meglio; ma già dal quinto capitolo il gioco inizia a chiedere un più raffinato tatticismo. Questo avviene in modo controllato e, per certi versi, quasi metanarrativo.

Ad esempio, nel Capitolo 5 saremo chiamati ad interpretare Hope, il ragazzino inesperto che sta iniziando a muovere i primi passi in questo mondo pericoloso e aggressivo. Il giocatore, così come Hope, sarà chiamato a rispondere agli insegnamenti dei capitoli iniziali e dovrà necessariamente imparare a scambiare i ruoli e a sfruttare la catena e la crisi. Non a caso il segmento finisce con il primo vero e proprio Boss, che richiede una discreta padronanza degli optimum.

Il boss del Capitolo 5 ci costringe, per la prima volta, a utilizzare efficacemente il cambio di ruolo dei personaggi.

Proseguendo, ci verranno mostrati anche nuovi ruoli che ogni capitolo consentirà di sperimentare. Questa progressione lunga e lenta rischia di sembrare un gigantesco tutorial, e in parte lo è.
Ciò non toglie, però, che il gameplay sia ben strutturato e che vada di pari passo con lo sviluppo della trama e delle tematiche. Insomma, anche in questo caso, il design lineare e asciutto, aiuta molto ad entrare nei meccanismi del gioco tanto quanto nella complessità dell’universo narrativo e della trama in sé. Ogni capitolo è, quindi, caratterizzato da una struttura lineare che esalta la narrazione, lo sviluppo dei personaggi, la progressiva complessità del gameplay e la costruzione delle tematiche.

Dunque si può facilmente ritenere che l’intera struttura trovi giovamento dalla linearità di fondo, e riesca a creare una sinergia eccellente tra giocato, racconto e messa in scena.

Una maturazione inusuale per il genere e per il periodo storico

Final Fantasy XIII, forse per la prima volta nella serie, riesce quindi a presentarci un racconto estremamente coerente, riducendo al minimo le incoerenze e le dissonanze. Il gioco non dimentica, però, di essere un JRPG, come emerge dal complesso combat system; ma dimostra una maturità che poche volte possiamo riscontrare nel genere. A maggior ragione se si pensa che lo sviluppo del titolo è iniziato su Playstation 2 e solo successivamente venne rinviato direttamente su Xbox 360, Playstation 3 e PC per un’ uscita fissata al 2009.

Lo sviluppo del gioco è partito su Playstation 2. Qui l’immagine commentata da Toriyama.

In questo JRPG non si potrà andare in giro a giocare carte, a blitzball o a cercare l’anello disperso della vecchietta disperata sul ciglio della strada: e questo è un bene. I game designer hanno compiuto delle scelte coscienti, che possono piacere o meno; ma è altresì considerabile infantile la forma mentis tipica del giocatore medio che cerca e richiede sempre di più, sempre più contenuto e attività. Anche quando non sono necessari.
A volte la sottrazione è funzionale agli elementi che compongono un’opera, come Fumito Ueda insegna. In questo caso, la trama di Final Fantasy XIII, lo sviluppo dei personaggi e la progressiva complessità del combat system traggono un forte giovamento dalla struttura lineare del gioco.

Siamo forse fin troppo abituati ad accettare il patto tra sviluppatore e giocatore che ci fa chiudere un occhio quando vediamo Geralt perdersi nella ludopatia più sfrenata mentre sua “figlia” è in pericolo e braccata da nemici pericolosissimi. Capiamo bene che a volte la coerenza viene meno in favore di un arricchimento del ventaglio di attività offerte al giocatore, ma anche la via opposta merita un plauso. Anzi, forse meriterebbe un’attenzione ancor più “rumorosa” perché non cerca disperatamente di intrattenere e allungare la permanenza sul gioco, prima ancora di comunicare.

Certamente questo game design lineare è anche dovuto ad uno sviluppo un po’ travagliato che ha costretto gli sviluppatori a prendere delle decisioni forti in modo da concentrare al massimo le loro energie su quello che ritenevano importante: introdurci un complesso universo narrativo, raccontarci una storia ricca di spunti filosofici e immergerci in un complesso combat system. Ebbene, ci sono riusciti. Non senza problemi o punti critici, come appunto l’eccessiva sensazione di “tutorial”.

Ci sono diverse ragioni per la linearità del gioco. Con una quantità limitata di tempo di sviluppo e risorse, abbiamo reso il gioco lineare per massimizzare e fornire lo stesso tipo di esperienza di gioco a tutti i giocatori. Questo approccio ha avuto un grande vantaggio nel fornire ai giocatori abbastanza tempo per familiarizzare con il nuovo combat system e l’universo narrativo. Ma d’altra parte, ha portato i giocatori a pensare che la maggior parte del gioco fosse un tutorial. Credo che questo fosse un grosso difetto del gioco.

Motomu Toriyama (Game Director)

A questo riguardo, Final Fantasy XIII non è esente da difetti. La sensazione di tutorial sicuramente potrà perseguitare il giocatore per molto tempo ma ha una struttura molto pesata e pensata. Il suo particolare game design lineare e controllato esalta il racconto, la trama. il world building e il favoloso combat system.
Certamente merita una possibilità anche perché potrebbe iniziarvi alla interessantissima trilogia della Fabula Nova Crystallis.

VC


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Sea of Thieves, Game as a Service rivoluzionario e immortale

Sea of Thieves, Game as a Service rivoluzionario e immortale

  • Vito Carluccio

  • 29 ottobre 2021
  • noninteragire

Motivare il perché Sea of Thieves sia considerabile un Game as a Service “particolare” , richiede di mettere radici in un discorso lontano.

The Division, Destiny, Outriders, Anthem e chissà quanti altri titoli sono definiti GaaS (Game As A Service). Questa tipologia di giochi, e in particolare quelli citati poco sopra, mettono a disposizione dei videogiocatori un sistema co-op pve (people versus environment) e spesso presentano anche sezioni in pvp (people versus people). In generale forniscono, in maniera continuativa e periodica, una grossa mole di contenuti aggiuntivi: nuove armi ed equipaggiamenti, nuove mappe, nuove skin eccetera.

Lo scopo dei GaaS è quello di offrire all’utente un gioco che lo affianchi per diversi mesi, se non anni. Per fare ciò si ricorre spesso alle medesime soluzioni: costruire un complesso sistema di progressione del personaggio, variegare e randomizzare il loot tra armi comuni, rare e leggendarie e in generale permettere al giocatore di percepire un effettivo avanzamento, un potenziamento tangibile del proprio avatar che, partito in mutande, si ritroverà corazzato e pesantemente armato.

Inoltre questa tipologia di giochi cerca di offrire anche grande varietà di meccaniche e situazioni: missioni di recupero, boss fight, raccolta, arene, sfide a tempo et similia.
Quantità, varietà e progressione sono i tre pilastri per un Game as a Service definibile tale.

Questa ruota mostra il processo di creazione die GaaS: non è assolutamente limitato ai soli giochi multiplayer.

C’è però un gioco, un GaaS, che ha rigettato questa formula considerata ormai uno standard, ribaltando completamente il concetto di progressione, di quantità e di varietà dei contenuti. Spingendo il game design verso la sottrazione e verso il concetto di gameplay e narrativa emergente. Parliamo, ovviamente, di Sea of Thieves e di come potrebbe cambiare il modo di intendere i Game as a Service.

Prima di addentrarci nelle bellezze del sistema messo in piedi da RARE è bene però definire un po’ le basi su cui si poggia.

Cos’è Il gameplay emergente?

Con “gameplay emergente” si riferisce a quelle situazioni complesse che emergono da interazioni relativamente semplici basati su sistemi che interagiscono tra loro, piuttosto che dalle più classiche meccaniche di gioco pre-confenzionate e scriptate.

Due dei pilastri di questo approccio al videogioco possiamo riconoscerli in Deus Ex e System Shock. In entrambi i giochi infatti, gli sviluppatori hanno deciso di fornire al giocatore un certo numero di strumenti e abilità che possono essere utilizzati in maniera del tutto creativa in un determinato sistema di regole. Nessuno script, solo regole e strumenti.

Per fare un esempio pratico prendiamo in esame Dishonored, considerato da Warren Spector un ottimo discendente della sua filosofia. L’immersive sim di Arkane non fa altro che dare al giocatore obiettivi molto semplici come raggiungere un luogo o eliminare un bersaglio; poi fornisce al giocatore strumenti, abilità e set di regole che interagiscono tra loro e lascia al giocatore completa scelta su come procedere.

Ad esempio è possibile raccogliere una bottiglia e lanciarla per distrarre una guardia. Una meccanica molto semplice, come “prendere oggetti e lanciarli”, collabora con l’IA dei nemici che sente il rumore e si muove in quella direzione per investigare. Da lì, noi potremo decidere se oltrepassarla o prenderla alle spalle. Ecco il gameplay emergente: da una semplice meccanica è scaturita una situazione complessa attraverso la comunicazione di diversi sistemi.

Colpire un nido d’api in Zelda Breath Of The Wilds genera conseguenze emergenti.

Il gameplay emergente è una diretta conseguenza dei giochi definiti “sistemici”, un esempio recente è Zelda Breath Of The Wild. Un gioco in cui le reazioni fisiche e chimiche interagiscono tra di loro, con il giocatore e con i mob creando possibili scenari unici. Basti pensare all’arrivo della pioggia e tutte le conseguenze che comporta: Link produce meno rumore ed è più facile agire in stealth, le rocce sono scivolose ed  impossibile da scalare, i danni elettrici diventano molto più potenti mentre il fuoco e gli esplosivi diventano inutili. Queste reazioni sistemiche cambiano il nostro modo di giocare e ci aprono delle possibilità nuove: insomma, emerge del gameplay dalla reazione dei sistemi.

Ovviamente questi sono esempi basilari, ma se volete dare un’occhiata quante reazioni emergenti possono scaturire da tutti i sistemi presenti in Dishonored date un’occhiata a questo video.

Spiegato il concetto di gameplay emergente è arrivato il momento di analizzare il modo in cui viene applicato in Sea of Thieves e come, in maniera davvero unica, riesca a generare anche narrativa emergente.

Questo è un titolo che, a differenza di quelli sopracitati, non presenta una campagna singolo giocatore con trama, ma solo partite senza fine, always online. Eppure siamo sicuri che chiunque l’abbia provato per qualche ora saprà raccontarvi una storia vissuta. Partiamo dagli strumenti e poi vedremo come essi siano in grado di sviluppare situazioni complesse.

La varietà nel poco

La spada, la pistola, la bussola, la lanterna, la vanga, la bussola, il secchiello, il bicchiere, gli strumenti musicali e il binocolo. Questi sono gli oggetti che riceveremo appena avviato il gioco e questi sono gli oggetti che avremo per sempre, anche dopo 1500 ore. Non c’è progressione materiale in Sea of Thieves, non c’è accumulo di punti abilità, di perk o armi. Tutto il game design si basa su pochi strumenti che interagiscono con le poche regole di gioco e queste interazioni, come abbiamo detto, creano gameplay emergente.

In tal senso, le quest che il gioco presenta sono semplici e assolutamente funzionali al concept di gioco: prendere delle casse e trasportarle in un altro avamposto, leggere e interpretare una mappa per trovare un tesoro o dare la caccia a scheletri redivivi. Questi semplici obiettivi hanno l’unico scopo di far muovere la ciurma di isola in isola così da generare interazioni con gli altri giocatori (anche essi intenti a svolgere uno di questi compiti).

In qualsiasi momento è possibile visualizzare la mappa del tesoro, sempre avida di informazioni, Bisognerà ragionare e collaborare con i compagni per capire dove scavare, non ci solo way point a schermo.

Ogni interazione con una ciurma è una potenziale storia, una potenziale avventura da cui potrebbe venire  fuori una memorabile sezione di gameplay e narrativa emergente. Si potrebbe decidere di collaborare nella ricerca di un tesoro, si potrebbe entrare in conflitto per cercare di rubare le merci o magari potrebbe tutto svanire in uno scambio di parole ed un veloce saluto. Il limite alle possibilità è dettato solo dalla nostre intenzioni che si dovranno per forza di cose scontrare con le intenzioni degli altri giocatori.

In questo frangente le semplici meccaniche di Sea of Thieves assumono un valore più complesso: poter suonare uno strumento ci permette di festeggiare con altri giocatori, si può bere grog e ubriacarsi o magari insultare una ciurma avversaria utilizzando il megafono. Ogni strumento è pensato per utilizzi multipli che verranno dettati dalla situazione emergente che si è creata, sia con gli altri giocatori che con i contenuti sistemici del gioco, Infatti è possibile subire attacchi da parte da un kraken gigante o venire ingaggiati da una nave fantasma pilotata dall’IA.

Questi piccoli schemi da immersive sim non fanno altro che fornire degli strumenti ai videogiocatori che poi potranno essere utilizzati in maniera del tutto creativa. In giro per la rete gli esempi si sprecano, e ormai è facile considerare Sea of Thieves un semplice mezzo grazie al quale molte persone hanno vissuto delle storie.

La progressione senza accumulo

Come detto poco sopra, in Sea of Thieves non esiste un rafforzamento del proprio avatar, non ci sono statistiche che crescono e danni critici, ma la progressione avviene attraverso un processo di metagioco, dissimilmente da altri Game as a Service. Ovvero attraverso la trasposizione del proprio sapere, della propria esperienza e della proprio abilità nell’avatar, un po’ come abbiamo cercato di spiegare descrivendo la progressione in Outer Wilds.

In giochi come The Division o Destiny la progressione del nostro avatar è tangibile e direttamente proporzionata alle ore investite nelle missioni. Un giocatore con alle spalle 120 ore sarà molto più forte di un novizio, tanto che per i nuovi arrivati è letteralmente impossibile competere con un veterano. Il livello del personaggio diventa una barriera per le interazioni e aggiunge anche una certa necessità di giocare, farmare, accumulare equip e potenziare le statistiche per stare al passo degli amici o per avere accesso a sezioni più difficili.

Generalmente nei Game as a Service presentano build complesse che richiedono diverse ore e una buona dose di fortuna per essere ottimizzate.

Giocando a Sea of Thieves invece, pur essendo un Game as a Service, questo processo non esiste. Tutto è basato sulla capacità di apprendere, sui consigli degli altri giocatori e sulla propria esperienza.
Solcando i mari per diverse ore, per forza di cose, il videogiocatore può affinare le sue conoscenze del mondo e delle regole che lo governano: proprio queste conoscenze diventano il vero sistema di progressione del gioco.

Se un novizio farà molta fatica a riconoscere e trovare un’isola leggendo una mappa, il giocatore veterano potrebbe riconoscerla alla prima occhiata proprio perché ci era già stato in un’altra occasione; e così vale per tutte le meccaniche relative alla manovrabilità della nave. Il novizio farà certamente fatica a gestire il vento, le vele, l’ancora, i cannoni e gli arpioni mentre il giocatore veterano sarà in grado di compiere manovre complesse e soprattutto di coordinare la propria ciurma (altro elemento fondamentale di questo splendido game design).

Insomma, la nostra diretta esperienza con il gioco ci può fornire dei vantaggi verso gli altri giocatori, ma ciò non toglie che un giocatore appena arrivato non possa apprendere in un ora quello che un altro ha appreso in dieci ore. Le meccaniche sono poche e facili da assimilare e una volta superate i primi momenti di spaesamento si potrà certamente giocare alla pari con qualsiasi altro utente. Non c’è nessuna fretta e necessità di consumare velocemente il prodotto per poter fronteggiare i più esperti, tutti abbiamo gli stessi strumenti e abilità, sempre.

I dobloni accumulati durante le nostre scorribande potranno essere spesi per comprare oggetti cosmetici come nuovi skin per armi e nave, ma questo non influisce sull’effettiva potenza o efficienza degli stessi.

La cooperazione come strumento narrativo

Nel calderone sistemico che è Sea of Thieves abbiamo messo dentro il concetto di design sottrattivo, gameplay emergente, interazioni con altri giocatori e progressione senza accumulo; manca però il collante, l’elemento che prende tutti gli ingredienti e li lega costruendo un piatto prelibatissimo: la cooperativa.

Ogni qual volta iniziata una nuova partita il gioco ci chiede con quale tipologia di nave vogliamo salpare: Sloop (fino a due persone), Brigantino (fino a tre persone) o Galeone (fino 4 persone).

La scelta della nave condiziona pesantemente la sessione e costringe ad entrare nei meccanismi di gameplay/narrativa emergente sin da subito, con i propri compagni. La gestione e la cura della nave è il primo vero banco di prova e tutorial che il gioco ci fornisce, ci insegna a predisporre la nostra mente nello stato giusto che ci accompagnerà in tutti gli altri elementi del gioco.

Levare l’ancora in gruppo velocizza di molto il processo e può fare la differenza tra la vita e la morte, cooperazione!

Prendiamo in esame il Galeone, la più grande nave disponibile: tre vele, otto cannoni, timone, ancora molto pesante, sottocoperta, stiva e cabina di comando. Gestire da solo una bestione simile è impossibile ed è proprio qui che diventa necessario cooperare: se un giocatore è al timone un altro dovrà occuparsi di gestire le vele, un altro ancora dovrà recarsi a prua per sincerarsi che la navigazione sia libera da scogli o impedimenti, mentre l’ultimo dovrà dare un occhiata alla mappa per assicurarsi che la rotta sia giusta.

Questa complessa gestione della nave deriva dai piccoli strumenti che i gioco ci fornisce ed è estremamente dinamica. Le posizioni ed i ruoli dei giocatori durante un combattimento dovranno variare repentinamente: chi carica i cannoni, chi spara, chi gestisce le vele, chi il timone eccetera.

Stessa cosa in caso in cui dovesse arrivare una tempesta, nel momento in cui le bussole impazziscono diventa fondamentale navigare a vista nel mentre si imbarca acqua e si cerca di svuotare la stiva con l’utilizzo del secchio. Ora, non staremo ad elencare ogni utilizzo che hanno gli strumenti e come questo utilizzo cambi in base alla situazione di gioco però crediamo sia abbastanza chiaro come i sistemi, comunicando con gli strumenti e passando dalla cooperazione tra i componenti della ciurma creino delle storie uniche.

Il Galeone è un bestione davvero difficile da manovrare, ci vuole tanta collaborazione ed esperienza per riuscire ad ottimizzare la navigazione.

Vi ricorderete certamente di quella volta che siete salpati pieni zeppi di merci da vendere ma una terribile tempesta ve le ha danneggiate; o di quella volta che avete collaborato con un’altra ciurma per distruggere una flotta di navi fantasma: in Sea of Thieves ogni viaggio è una potenziale avventura, resa possibile solo da un game design che rinnega gli script ma abbraccia i sistemi e il design sottrattivo.

Nessun gioco ci ha mai permesso di realizzare una così pura collaborazione con gli amici e nessun gioco è mai riuscito a farci vivere storie e situazioni tanto diverse tra loro. Uniche.

Anche dopo mesi e mesi di inattività potrebbe sempre tornarci la voglia di salpare, e il gioco sarà sempre lì ad attenderci senza chiederci di farmare per tornare al passo.
Sea of Thieves è un Game as a Service decisamente rivoluzionario,

VC


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Hitman: l’evoluzione di un capolavoro sandbox

Hitman: l’evoluzione di un capolavoro sandbox

  • Vito Carluccio

  • 24 settembre 2021
  • noninteragire

Il vestito nero, la cravatta rossa, il codice a barre sulla nuca, la garrota e la pistola silenziata non possono che far pensare al killer su commissione più famoso della storia dei videogiochi: l’agente 47.
Intorno a questi elementi, la serie creata da Io Interactive è riuscita a costruire una IP identificabile anche solo con un sguardo: Hitman.

L’outfit dell’agente 47 è ormai iconico.

Questa forte riconoscibilità estetica va di pari passo con l’obiettivo e l’esperienza che la serie ha (quasi) sempre voluto restituire: farci interpretare un sicario nel modo più libero possibile.
Nelle prossime righe ripercorreremo quanto accaduto, e i grossi passi in avanti che ci sono stati, dal 2000 fino ad oggi. Certamente non senza qualche scivolone, il processo avviato due decenni prima ha portato verso una piena maturità, raggiunta con l’ultima trilogia.

Origini inaspettate

Forse non tutti sanno che il concept iniziale di Hitman: Codename47 prevedeva un gioco action, ispirato ai film di John Woo. L’agente 47 sarebbe stato lanciato nei luoghi più disparati a far incetta di cadaveri tra salti, pallottole e capriole. Un po’ come il poco fortunato Stranglehold (2007). La collaborazione tra Jonas Eneroth (produttore esecutivo) e Jacob Andersen (lead designer) fece spostare il progetto verso sponde più stealth, trovando fonti di ispirazione in Thief e Deus Ex.

Al netto di alcuni grossi problemi di IA e di una gestione dei salvataggi estremamente punitiva, ancora oggi è possibile giocare al primo capitolo datato 2000 e riconoscere l’embrione di una formula perfezionata in 20 anni di sperimentazione.

Sostanzialmente dal primo capitolo in poi, tutti gli Hitman hanno cercato di costruire mappe molto grandi in cui il giocatore veniva lasciato libero di muoversi alla ricerca dell’obiettivo da eliminare. L’approccio e le modalità con cui compiere la missione sono lasciate al giocatore, perlomeno entro i limiti dati dalla tecnologia e dal game design.

Nel concept iniziale Hitman avrebbe dovuto restituire un feeling simile ai film di John Woo.

Pochi script, tanti sistemi

Un’ambizione simile poteva essere raggiunta solo e soltanto attraverso la costruzione di sistemi unici, dettagliati e molto reattivi, senza dimenticare lo sviluppo di una IA complessa e stratificata. I risultati non sono sempre stati eccellenti; nel primo capitolo, ad esempio, l’IA può compiere azioni assurde e rovinare un intero piano orchestrato alla perfezione per via di uno spot attraverso il muro. Oppure, il ragdoll di Blood Mooney potrebbe far volare via la vittima spazzando via l’intera copertura.

Avanzando nei vari capitoli, però, Io interactive ha sempre più affinato questi sistemi e ampliato la varietà degli strumenti di morte e delle meccaniche di gioco. La formula sandbox del titolo si è arricchita esponenzialmente di capitolo in capitolo: non solo garrota, fucile e pistola silenziata, ma anche veleni, mine, esplosivi radiocomandati, lame e siringhe. A partire da Hitman 2: Silent Assassin, la possibilità di camuffarsi cambiando i vestiti (altro marchio di fabbrica) viene affiancata via via da altre possibilità: accucciarsi, nascondersi negli armadi, arrampicarsi sui tetti, appendersi dalle sporgenze, nascondersi nei cespugli e mimetizzarsi tra la folla.

Hitman 2: Silent Assassin introdusse diverse novità tra cui la visuale in soggettiva, la possibilità di abbassarsi e gli anestetici.

La complessità della serie ha raggiunto una certa maturità con Hitman: Blood Money (2006). L’IA era in grado di compiere azioni molto complesse, come perquisizioni, ricerca e sondaggio dei luoghi, sentire rumori, intimare al giocatore di uscire da aree off limits (senza sparare all’impazzata non appena si metteva un piede dentro la cucina di un ristorante). Ma non solo questo, le mappe avevano tantissime vie, ingressi laterali, passaggi sotterranei e postazioni sopra elevate. La moltitudine di sistemi comunicanti tra loro rendeva il gioco altamente interpretabile e a volte problematico e poco pulito. In effetti tutti questi sistemi assieme potevano creare situazioni paradossali, o semplicemente glitch e bug. Niente di realmente tragico ma il controllo dell’agente 47 in questo mondo pieno di variabili poteva risultare un po’ impreciso.

Il fallimento e l’importanza di Hitman Absolution

Dopo il successo di Blood Money subito si pensò a portare Hitman su nuova generazione, con il più alto budget mai avuto e con l’intenzione di proiettare la serie nel mercato di massa AAA.

Nacque quindi il nuovo Hitman Absolution, senza dubbio il capitolo più controverso della serie. Nelle intenzioni iniziale del team c’era l’idea di mantenere alcune meccaniche tipiche della serie ma spingendo molto anche sul versante narrativo ed action. Si attinse da Max Payne e Gears of War, ci si concentrò tantissimo sulle scene di intermezzo e su delle ambientazioni più ristrette e lineari, cosi da favorire lo sviluppo di una storia più coesa e di un’avventura più scriptata, meno sandbox.
Una direzione, insomma, quasi opposto a quella vista in Blood Money.

Hitman Blood Money ha delle mappe molto grandi e affollate. Molto più piccole di quelle che poi vedremo in HITMAN 2016.

Nel corso dei 7 lunghi anni di sviluppo però, il team non era più tanto convinto che cambiare cosi tanto la struttura fosse l’idea giusta, e quindi si cercò di tornare sulla strada iniziale. In pieno crunch, lo studio di sviluppo provò ad adattare il lavoro già svolto su Absolution virando di nuovo verso alcune vecchie formule. Il risultato è, come potete intuire, molto altalenante: il mix di elementi sandbox adattati a un prodotto originariamente pensato per essere più lineare ha portato a un risultato incerto. Soprattutto se si considera che i fan certamente non si aspettavano una esperienza cosi lineare.

Sebbene Absolution non sia stato accolto molto bene, all’atto pratico l’alto livello produttivo ha permesso di affinare l’IA degli NPC, i comportamenti della folla, le animazioni e le interazioni di 47.
Hitman non era mai stato così fluido: muoversi, sparare, tirare gli oggetti o eseguire takedown sono azioni molto bene strutturate e collegate bene all’IA, tutto è estremamente pulito e preciso.

Ma non solo. L’elemento più importante ai fini di questa disamina risiede nella modalità Contracts: una sorta di online in cui i giocatori potevano designare come bersaglio qualsiasi NPC presente nella mappa, ponendo delle condizioni specifiche per rilasciare dei contratti pieni di sfide. Dopo 4 anni dall’uscita, questa modalità aveva ancora cinquanta mila giocatori attivi al giorno. Giocare e rigiocare la stessa mappa ma con obiettivi diversi e strade diverse da percorrere, apriva un ventaglio sterminato di possibilità e questo fu il presupposto  per la creazione del miglior Hitman di sempre.

Controllare 47 in Hitman Absolution è una vera goduria, ci sono moltissime animazioni fluide e responsive.

HITMAN 2016 – Sandbox o morte

Siamo quasi giunti al termine di questo viaggio al fianco dell’agente 47 e ora metteremo da parte le vicissitudini commerciali che hanno portato all’accordo tra Io interactive e Square Enix (finito male dopo il primo capitolo) per analizzare la struttura incredibilmente complessa di questa nuova iterazione. Raccontare la storia produttiva e creativa di Hitman ci è servito per capire come si è arrivati alla creazione di quello che a conti fatti si può definire un vero e proprio simulatore di assassino.

La lezione imparata dal fallimento di Absolution e dal successo della modalità Contracts ha portato gli sviluppatori a pensare ad una sorta di soft reboot.
Ogni livello, ogni mappa è un vero e proprio gioco a se stante, con le proprie storie interne, con la propria conclusione e costruzione dei personaggi. Tutto avviene in una singola sessione di gioco ma non tutto è direttamente fruibile in una partita. Le mappe sono pensate e disegnate per essere rigiocate più volte, ogni elemento di gioco punta verso questa idea di game design, dagli spezzoni narrativi sparsi nella mappa e fruibili solamente i determinate situazioni, alle modalità con cui preferiamo eliminare i nostri obiettivi.

la quantità e la varietà di gadget in HITMAN ci permette di dare grande sfogo alla creatività.

C’è un sistema di ricompense incoerente con la trama, ma funzionale al game design: ogni qual volta completeremo una missione, in base al nostro punteggio, sbloccheremo nuovi gadget, nuovi punti di accesso e nuove armi. Capite bene che giocare una missione con o senza grimaldello può cambiare totalmente l’approccio, o cominciare la missione travestiti da tecnico audio cambia la prospettiva che abbiamo dello spazio. In una certa misura, la scelta di non fornire tutti i gadget alla prima run può essere considerata una limitazione al concetto di sandbox; però, d’altro lato, riesce a creare una progressione all’interno della stessa mappa. Ovviamente non saremo mai obbligati a rigiocare la mappa, ma sbloccare un nuovo gadget ci potrebbe invogliare a riprovare la stessa mappa.

L’unlock di queste ricompense è funzionale all’esperienza: gli sviluppatori vogliono mettere alla prova la nostra creatività e per farlo hanno deciso di dare qualche linea guida.

In quest’ottica rientrano anche le nuovissime “storie della missione”, una serie di passaggi che il gioco consiglia di fare per creare una sorta di linea narrativa che ti porta più vicino all’eliminazione dell’obiettivo. Anche in questo caso però la scelta del giocatore è sacra, queste storie non sono scriptate ma anche esse sono interpretabili ed inseribili nel flusso della nostra personale partita. Per esempio, una storia della missione ci potrà spingere a travestirci da dottore perché il nostro obiettivo ha fissato una visita medica, ma noi potremmo decidere di usare il vestito da medico per accedere alla vila senza però compiere la visita. Le storie della missione sono malleabili e soggette al nostro utilizzo. Nelle impostazioni poi è possibile disattivare le icone di aiuto e queste piccole situazioni previste dai game designer diventano molto più difficili da trovare e attuare, dovremmo affidarci al nostro udito e al nostro intuito.

Sebbene il sistema di sfide e di valutazione ci aiuti a capire le possibilità che abbiamo e assegni un punteggio al nostro agire, tutte le mappe sono interpretabili al 100% senza nessuna restrizione obbligatoria.
Il concetto di sandbox è alla base di tutto il game design, dai gadget dai multipli utilizzi alle armi, dai numerosi vestiti ai vari ingressi e passaggi.

Mumbai è una delle mappe più grandi e sorprendenti. Un intero spezzone d città ricco di edifici esplorabili e sistema fognario annesso.

Gli approcci consentiti sono diversi e soprattutto fluidi, senza soluzione di continuità. Possiamo entrare in una villa in stealth, travestirci da cameriere e mimetizzarci tre lo staff, imbracciare un mitra ripulire una stanza e scappare via tornando in stealth o cambiando vestito e sfruttando una storia della missione per scappare in auto.

Questa totale libertà di approccio è incredibilmente sorretta da una IA molto complessa: se le guardie dovessero scoprire un cadavere o un esplosivo durante una festa, farebbero evacuare gli invitati in modo ordinato; se dovessero capire che c’è un assassino nei paraggi manderebbero il loro protetto in una stanza sicura, a volte blindata, e inizierebbero la ricerca del giocatore per tutta la mappa.
Persino le morti accidentali vengono gestite in modo diverso: le guardie non si metteranno a cercare un eventuale assassino ma recupereranno il corpo del malcapitato, che verrà portato via dai luoghi pubblici.

C’è un sistema che gestisce il comportamento della folla, le reazioni agli spari, le interazioni con le guardie che magari cercano di farli evacuare in modo ordinata o il completo caos dato da una fuga disperata in pieno centro città.

A questo si affianca la gestione delle IA designate come guardia del corpo dei VIP che hanno dei comportamenti precisi. Come controllare le stanze prima che vi entri il proprio capo o delegare una guardia alla raccolta e messa in sicurezza di un arma incustodita, cosi da evitare di lasciare da solo il proprio protetto. In ultimo troviamo il sistema di evacuazione VIP: le guardie circondano l’obiettivo e lo scortano in modo attento verso una stanza sicura.

I sistemi sono complessi e comunicano tra loro prevedendo l’intervento del giocatore: tutto ciò è sorprendente e merita la giusta attenzione.

Le guardie hanno sentito uno sparo, si dispongono a diamante e si preparano a scortare via il VIP.
(Video credit AI and Games)

World of Assassination

Nel momento in cui scriviamo è disponibile sul mercato HITMAN III. Il capitolo finale di questa nuova trilogia iniziata nel 2016. HITMAN è diventato a tutti gli effetti una sorta di piattaforma chiamata World of Assassination e l’offerta è ricchissima. Acquistando l’ultimo capitolo sarà possibile integrare anche i due predecessori che in automatico riceveranno gli upgrade più recenti, sia grafici che di features.

Ben 21 livelli, con mappe complesse e variegate, dettagliate e ricche di opzioni. Inoltre la piattaforma offre sfide giornaliere, obiettivi elusivi a tempo e una campagna secondaria chiamata patient zero.

Tutte le mappe ci permetteranno di essere l’assassino che desideriamo. Veloce e spietato come John Wick, silenzioso e invisibile come Sam Fisher, impetuoso e aggressivo come Mad Max e perché no, un mix dei tre. La scelta è nostra.

Giocare con i sistemi può portare a situazioni davvero uniche.

Ad oggi non troviamo nessun motivo per non dare una possibilità a questa trilogia. Un vero e proprio parco giochi, l’esperienza sandbox più completa che abbiamo avuto modo di provare negli ultimi anni, grazie a un’offerta ricca e a un supporto costante..

Io Interactive è riuscita a rinascere dalle ceneri di Absolution ed ha confezionato un videogioco che non ha paura di essere un videogioco.
HITMAN è il sandbox degli ultimi 10 anni.

VC


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I videogiocatori dovrebbero pretendere più Ueda dall’industria

I videogiocatori dovrebbero pretendere più Ueda dall’industria

  • Vito Carluccio

  • 18 giugno 2021
  • noninteragire

L’industria dei videogiochi ha subito una forte crescita negli ultimi 20 anni. Si è passati da giochi sviluppati in due o tre anni a vere e proprie epopee di sviluppo lunghe dai cinque agli otto anni.
Le notizie di crunch (Cyberpunk 2077 o The Last of Us part 2), di giochi cancellati a metà dello sviluppo (Scalebound o Silent Hills) fanno meno rumore di tutti i record di vendite che si stanno registrando. L’industria è in ascesa, almeno dal punto di vista degli incassi. Tutto bene direte, però qualcosa sta sfuggendo di mano e riteniamo importante che noi videogiocatori ne prendiamo atto.

Il dato da cui partire per capire cosa riteniamo che non stia andando per il verso giusto è, ovviamente, la tipologia di giochi che vanno per la maggiore.
Nemmeno a dirlo, i titoli che vendono di più hanno quasi tutti qualcosa in comune: la violenza e la quantità smodata di meccaniche presenti.

The 15 Highest-Grossing Video Games Of The Decade according to GAMERANT:

  1. Minecraft (200 Million Units)
  2. Grand Theft Auto V (145 Million Units)
  3. PlayerUnknown’s Battlegrounds (70 Million Units)
  4. Mario Kart 8 (44 Million Units)
  5. Red Dead Redemption 2 (37 Million Units)
  6. Terraria (35 Million Units)
  7. Animal Crossing: New Horizons (32.5 Million Units)
  8. The Elder Scrolls V: Skyrim (30 Million Units)
  9. Diablo 3 (30 Million Units)
  10. The Witcher 3: Wild Hunt (30 Million Units)
  11. Call Of Duty: Modern Warfare (30 Million Units)
  12. Call Of Duty: Modern Warfare 3 (26.5 Million Units)
  13. Pokemon Sun & Moon (25 Million Units)
  14. FIFA 18 (24 Million Units)
  15. The Legend Of Zelda: Breath Of The Wild (24 Million Units)

Come possiamo notare, in quasi tutti i videogiochi più venduti degli ultimi 10 anni si spara, si sgozza, si taglia e si uccide. Ma non solo. In molti c’è l’open world, ci sono attività secondarie, ore e ore di gameplay decentrato dal tema principale atto ad allungare l’esperienza di gioco. Certamente questo non si può considerare un problema oggettivo, ma non è difficile pensare che ci sia qualcosa che non va nell’industria. Siamo circondati da giochi che vogliono intrattenere prima ancora di comunicare.

L’interazione data dai videogiochi permette di creare esperienze uniche. Esperienze che gli altri media come cinema e musica non possono dare. Ma perché ci si limita quasi solo a sparare e uccidere per infinite ore? Forse i videogiocatori sono ancora troppo giovani per desiderare altro?

Oggi non siamo qui per capire da dove provengono queste tendenze, se la colpa è dei videogiocatori, dei produttori, della società consumistica o di tutte queste cose messe insieme. Oggi siamo qui per offrirvi un’alternativa. Un modo diverso di fare videogiochi, un modo diverso di sfruttare le possibilità date dal media. Vi parleremo degli altri giochi, quelli che non sono bulimici, quelli che cercano di trasportare un messaggio sfruttando appieno le potenzialità del media senza allungare il brodo.
Vi parleremo del design sottrattivo e dell’importanza che ha l’unione tra gameplay e tematiche.

Design Sottrattivo: less but better.

Questa filosofia ce la spiega chiaramente Fumito Ueda stesso attraverso lo sviluppo del suo primo capolavoro: ICO.
Ueda ci spiega che per raggiungere il suo obiettivo elimina prima ancora di aggiungere.
Si chiede: qual è il cuore dell’esperienza? Cosa voglio trasmettere? E dalle risposte a queste semplici domande inizia ad escludere tutte le meccaniche di gameplay o le situazioni che non convergono verso gli obiettivi ed i messaggi del gioco.

La cura riposta nel semplice arrampicarsi abbraccia a pieno il concetto di “less but better”.

Se nel processo a produttivo una feature, seppure divertente, dovesse risultare fuori fuoco: va eliminata.
Questo è, in estrema sintesi, il design sottrattivo: eliminare il superfluo piuttosto che allungare il brodo.

Sebbene i giochi di Ueda siano riconosciuti come i massimi esponenti di questa filosofia, ce ne sono altri che hanno abbracciato questo modo di fare: Portal, Braid, Silent Hill Shattered Memories, Undertale e tanti altri.

Il problema è che questi titoli sono vere e proprie mosche bianche, ancor più rari se si pensa al panorama Tripla A. Di fatto solo giochi come The Last Guardian o, per certi versi, Death Stranding rientrano nella categoria (entrambi con vendite non esaltanti).
Un mezzo comunicativo che sfrutta i milioni quasi esclusivamente per intrattenere e divertire non è un buon portatore di messaggi. Sarebbe strano se l’industria cinematografica tirasse fuori solo Avengers, Tropic Thunder e Fast and Furious, no?

Death Stranding è uno dei pochi titoli tripla A che ha provato ad eliminare il superfluo, o quanto meno ad integrarlo nel messaggio.

Abbiamo bisogno di più Fumito Ueda

Come detto poco sopra, l’industria attuale produce una quantità di giochi bulimici, strapieni di contenuto con diverse meccaniche ripetute. Questo genere di produzione, per forza di cose, decentralizza i temi ed i messaggi di cui si fa carico l’opera. Sì, in Horizon Zero Dawn si tratta di ambientalismo, ma all’atto pratico il giocatore è chiamato solo a colpire dei robottoni per diverse ore fino alla prossima cutscene. In Gears 5 si trattano temi sociali e politici: fascismo, rapporti umani, relazioni tra Stati ed ideologie diverse, eppure si passa tutto il tempo a sparare e sbudellare.

Attenzione, capiamo che la condivisione di questi temi e questi messaggi passa anche come sottotesto tra i dialoghi, le cinematiche ed i file di testo sparsi in giro, ma troppo spesso l’assimilazione di tali questioni è relegata a fattore secondario o terziario, lasciata totalmente all’interesse del giocatore più acculturato. Si abbandona qualsiasi velleità comunicativa ed educativa, si parla solo a coloro che sono predisposti ad ascoltare, senza cercare di comunicare in modo forte e diretto anche ai gruppi di persone meno disposti a un’interazione più mediata. Nei giochi di Ueda non è così.

In Gears 5 ci sono momenti toccanti e discorsi politici, dopo ore ed ore di sbudellamenti.

ICO, NICO e TRICO

Giocando ad ICO ricorderemo per sempre che tutte le meccaniche hanno a che fare con la collaborazione con Yorda. La si prende per mano, la si protegge dalle ombre, la si aiuta a salire sulle sporgenze, ci si siede accanto per salvare la partita, ci aiuta ad aprire le porte e tutti i puzzle sono pensati in quest’ottica: collaborare per sopravvivere. Non c’è nient’altro nel gameplay, non ci sono missioni secondarie, non ci sono venti armi diverse, non ci sono chest da aprire, non ci sono distrazioni. La cura riposta nei pochi elementi di gameplay ha fatto scuola in questa prima opera. I titoli successivi, pur avendo più budget, non hanno mai esagerato in quantità di feature e meccaniche.
Prendere per mano Yorda e portarla in salvo ha una potenza comunicativa impareggiabile, la ragazza sembra avere una vita, si ferma, si stanca, inciampa e bisogna strattonarla.

La fisica che regola Yorda quando la prendiamo per mano è curatissima.

Il discorso può essere traslato chiaramente anche su Shadow of the Colossus, ove tutte le meccaniche e le feature hanno un solo fine: abbattere i colossi. La mappa è completamente vuota, non ci sono mob, non ci sono trappole, non ci sono impedimenti nella forbidden land, non ci sono perché non servono. C’è solo Wander con la sua spada e il suo arco, accompagnato dal suo fido destriero Agro e tutte le meccaniche del gioco ruotano intorno a questo.

La cavalcatura è curatissima, le animazioni dei colossi sono spaventose ancora oggi nel 2021 e la forbidden land, vuota com’è, riesce a trasmettere un messaggio senza pensare all’intrattenimento, svuotandosi di collezionabili o eventuali combattimenti con dei mostri sparsi qui e li. Non c’è crafting, non ci sono armature o armi, non ci sono livelli o abilità da sbloccare, c’è solo quello che è necessario al fine. Anche la cavalcatura assume un ruolo importante nel game design, non è solo un orpello o un modo per muoversi più veloce. Ci sono colossi che richiedono lo sfruttamento del cavallo, le meccaniche di gameplay annesse hanno un utilizzo concreto e la cura con il quale sono state realizzate le animazioni di Agro è sintomo di dedizione e concentrazione in tutti gli elementi di gioco, niente è lasciato al caso.

Agro come Yorda ha una fisica slegata dal giocatore e la cavalcatura risulta realistica.

In ultimo, abbiamo The Last Guardian, anche qui il design sottrattivo ha guidato lo sviluppo.  Tutte le meccaniche sono focalizzate nella collaborazione con Trico. Lo si accarezza, comunichiamo con lui, lo utilizziamo come vero e proprio componente mobile dei puzzle ambientali. Dobbiamo nutrirlo, istruirlo e compatirlo. Il lavoro fatto sull’IA è sbalorditivo, chiunque ha, o ha avuto, un animale domestico può riconoscere in Trico il tipico comportamento di un cucciolo: affettuoso, talvolta aggressivo, pigro o iperattivo, irrispettoso e dispettoso. Le animazioni sono semplicemente perfette, dalla corsa ai salti fino al semplice sostare su superfici sconnesse. Trico è vivo ed è importante che lo sia, anzi, è centrale. Non a caso Ueda ha preferito saltare una generazione e aspettare 15 anni per avere la tecnologia adatta (inizialmente sarebbe dovuto uscire su PlayStation 3, poi slittato su PlayStation 4).

In questo genere di opere ci sono “poche cose”, estremamente curate, ma soprattutto dirette verso un fine, un esperienza, un messaggio, un tema. Nessuna incoerenza o dissonanza, la comunicazione attraverso l’interattività non prevede distrazioni, questo è quello che ci manca oggi.

Le animazioni di Trico sono procedurali e rispondono ad una grande varietà di input

Come possiamo vedere, in tutti e tre i titoli la cura per il dettaglio è semplicemente fuori scala: animazioni, meccaniche, level design, estetica e contenuti. Ma non solo questo, basti pensare che dallo studio dei vestiti, delle costruzioni e dai nomi che hanno i personaggi che popolano l’universo di Ueda si è risalito al fatto che molto probabilmente ci troviamo in un passato remotissimo, milioni di anni fa. Questo si deduce anche dalle altezze dei personaggi (molto basse) e, se vogliamo, giustificherebbe anche le “irrealistiche” cadute da altezze considerevoli (abbracciando le teorie, non confermate, che vogliono la gravità diversa in passato). Come dicevamo, niente è lasciato al caso.

Il famoso youtuber Nomad Colossus ha calcolato le altezze dei personaggi dell’universo di Ueda.

Non denigrare quello che abbiamo, ma pretendere che ci venga dato dell’altro

In conclusione vorremo sottolineare il fatto che qui non si condannano a prescindere titoli come Watch Dogs, Horizon o Gears of War. Ci piace l’idea che titoli cosi imponenti abbiamo dei sottotesti per niente banali. Sottotesti che ad alcuni arrivano in maniera efficace, ad altri arrivano meno, anche se innegabilmente presenti. L’auspicio però è che parallelamente a queste produzioni dall’impronta prettamente intrattenente ci siano progetti e lavori più focalizzati sul messaggio, più coerenti nella messa scena e nelle meccaniche, senza perdersi in collezionabili, fetch quest, e combattimenti di 1 vs 100.

I messaggi di Far Cry sono nascosti dietro centinaia di animali uccisi per ingrandire le nostre borse.

I videogiochi possono fare di più, possono sfruttare meglio l’interattività per comunicare senza per forza di cose “divertire tutti” o piacere a tutti. Fumito Ueda lo ha sempre fatto e pochi altri come lui. Abbiamo bisogno di loro, abbiamo bisogno di più Fumito Ueda, ma forse non li avremo mai se non impareremo a pretendere più serietà in un mezzo che non deve, e non può, essere sempre e solo svago.

VC


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BioShock insegna che i videogiochi sono delle gabbie cortesi

BioShock insegna che i videogiochi sono delle gabbie cortesi

  • Vito Carluccio

  • 14 maggio 2021
  • noninteragire

BioShock è una di quelle opere con cui prima o poi qualsiasi appassionato di videogiochi si ritrova a confrontarsi. Parliamo di un titolo che è già un classico, riconosciuto come uno dei capisaldi dell’intero settore. Di BioShock è stato scritto in lungo e in largo: si elogia Rapture, la sua architettura, la sua unicità, i personaggi che la popolano e il discorso politico che ruota intorno alla struttura ludica. Ma meno, forse, si è detto di un tema che pure è fondamentale nel lavoro di Ken Levine: quello della libertà del videogiocatore e del suo rapporto con gli sviluppatori.

Di libero arbitrio e interpretazione.

Ormai da decenni siamo inondati da videogiochi che promettono libertà di scelta, di approccio, di esplorazione e di interpretazione di un ruolo. No Man’s Sky, Deus Ex, Fallout e chissà quanti altri titoli ci permettono di scegliere dove andare, cosa fare, cosa dire e come fare.
Ma siamo realmente liberi di scegliere?

Il videogiocatore stesso può credere, in un momento embrionale del suo approccio al medium, di avere effettiva scelta e di essere parte modificante di un mondo virtuale aperto. BioShock è in grado di far accendere una lampadina, grazie al trait d’union tra gameplay e narrativa, invalidando quest’assunto.

In occasione dell’uscita di “BioShock: The Collection” è stato girato un documentario chiamato “Imagining BioShock”.

Il Director Ken Levine, nel documentario “Imagining BioShock” ha dichiarato che nella sceneggiatura ha voluto inserire un discorso di meta-gioco che ruota intorno alla questione del libero arbitrio presente nei videogiochi.

Per poter spiegare come BioShock esplori questo discorso è necessario un piccolo recap della trama a grandi linee. Da questo punto in avanti ci saranno pesanti spoiler.

Il videogiocatore è Jack. Inizia la sua avventura su un aereo precipitando nel bel mezzo dell’oceano. Sopravvissuto all’impatto, scorge in lontananza un faro: si avvicina e scopre l’ingresso di una città costruita nelle profondità marine. Rapture.

La città è in completa rovina, popolata da pazzi aggressivi e da esseri al limite dell’umano. Un certo Atlas, l’unica persona amichevole, chiede cortesemente di salvare la sua famiglia in pericolo e poi di fermare – sempre cortesemente – l’ideatore e creatore di questa città a suon di poteri e proiettili. Tutta l’avventura è indirizzata dalle sue direttive, richieste, indicazioni. Non c’è alternativa che seguirle. Scrupolosamente.

L’amichevole e cortese direttore dei lavori, Atlas.

BioShock è un gioco lineare, fortemente story driven; grazie a delle accortezze di game design e di scrittura, la sensazione che il giocatore abbia effettivamente potere di scelta però è forte. Questa sensazione, questo inganno, è presente in moltissimi videogiochi e fa parte di un patto tra il giocatore ed i creatori, derivante anche dalle ovvie limitazioni dei software e degli hardware.
Ad esempio, in Gran Turismo non si può scendere dall’auto e correre liberi per strada: il giocatore non se lo aspetta nemmeno e non trova che questa mancanza sia un problema. Il fruitore si sottopone volontariamente a un sistema di regole deciso da altri.
BioShock è costruito così: bisogna necessariamente completare gli obiettivi che ci vengono dati da Atlas se vogliamo arrivare ai titoli di coda.
Tutto normale, all’apparenza. In fondo “è un gioco story driven, quindi seguiamo la storia”.

Di imposizioni e inganni.

Insomma: chi è dall’altra parte dello schermo, accetta senza porsi nessun problema questo tipo di imposizione. Il simulacro di libertà, mediante delle parvenze di scelta capaci di ingannare il videogiocatore, deforma la percezione su chi stia, effettivamente, conducendo le danze. Le possibilità date dai plasmidi sono in grado di cambiare totalmente la nostra esperienza di gioco; possiamo anche scegliere se purificare o consumare le sorelline, esplorare le macro aree o andare dritti al punto.

Questi sono elementi che ci danno l’illusione di avere scelta, di poter interpretare Jack. Come già accennato nell’analisi di Prey, la decisione di dare questo nome al protagonista non è casuale. Jack non parla, non esprime emozioni e non vedremo mai il suo volto: tutte caratteristiche che permettono di immedesimarsi con l’avatar, di creare un legame, di sentirsi un po’ di più dentro la storia.
Il protagonista è un connettore tra mondo reale e mondo virtuale: appunto, un jack.

Nell’intro vengono forniti degli indizi riguardo al passato di Jack. Un’altra bugia.

Ma se Jack è il videogiocatore e il videogiocatore può scegliere come giocare, perché non può scegliere di visitare tutta Rapture? Perché non può decidere di andare dove gli pare o di scappare, magari ignorando Atlas?
Sebbene in un primo momento possa sembrare una forzatura data dai limiti del software e dalla necessità di trama – e in parte è anche così – nelle fasi conclusive sarà sarà l’impianto narrativo a giustificare la forzata obbedienza verso Atlas.
Quest’ultimo si rivelerà, infatti, come un manipolatore e un burattinaio capace di controllare completamente Jack, e quindi il videogiocatore. Noi. Grazie all’utilizzo di un banale “per cortesia” Atlas è in grado, biologicamente, di manipolare la nostra volontà.

Ken Levine e Shawn Robertson hanno a più riprese raccontato quanta cura sia stata riposta nella costruzione di Atlas: la sua voce, le sue parole e il suo comportamento dovevano ispirare fiducia nel giocatore. Solo in questo modo l’inganno poteva reggere.

La rivelazione nelle fasi finali è entrata nella storia, non solo perché rappresenta un plot twist ben scritto, ben riuscito e stupendamente messo in scena, ma anche per le correlate riflessioni sul ruolo del videogiocatore nel videogioco.

Scoprire di essere stati manipolati per tutto il tempo non restituisce il libero arbitrio.

L’inganno resta forte anche nell’unico vero bivio morale che ci viene sottoposto: salvare le sorelline o prosciugarle? Il gioco ci informa chiaramente che prosciugare le ragazzine porterà molti più benefici: più potere tutto e subito, grazie all’Adam, sostanza che che permette di potenziare l’avatar. Eppure all’atto pratico non sarà così. È vero che salvando le sorelline non otterremo Adam subito, ma nel lungo periodo saremo ripagati con doni molto più determinanti: tonici unici, plasmidi e anche Adam stesso. Gli sviluppatori ci hanno ingannato ancora, con lo stesso identico modo con cui ci hanno mostrato Jack mentre precipita con l’areo e ripensa alla sua vecchia vita.

Di contaminazioni transmediali.

Questo genere di trucco, mostrare qualcosa che poi si rivelerà falso, mutua certamente da alcuni film cult (usato spesso da Hitchcock, tra i tanti). Ken Levine stesso cita Fight Club come fonte di ispirazione, ma non è difficile rivederci anche I Soliti Sospetti di Bryan Singer.

Singer utilizza la tecnica detta unreliable narration (narrazione inattendibile), secondo la quale uno dei personaggi interni alla storia mente, ma quello che dice ci vien presentato come vero. Questo artificio viene poi spinto anche a livello registico: Singer ci mostra un flashback finto, basato su delle bugie, così come Levine ci mostra scorci di un passato che Jack non ha mai avuto e ci informa che prosciugare le sorelline ci darà molti più vantaggi, comunicazione inattendibile di una meccanica di gioco. La fiducia dello spettatore/videogiocatore verso l’Autore fa il resto: istintivamente crediamo a quello che gli Autori ci presentano come vero.

In Fight Club Il narratore inattendibile ci racconta fatti che poi saranno sbugiardati dal finale.

Il giocatore, così come Jack, è obbligato a compiere determinate azioni. Atlas ha una sorta di controllo mentale su Jack e allo stesso tempo il giocatore è intrappolato nelle regole dei game designer.

Ogni volta che videogiochiamo è come se fossimo nella caverna di Platone, in una teca per insetti. Il nostro mondo è limitato e le nostre possibilità sono dettate da un essere che nemmeno siamo in grado di vedere. Gli sviluppatori decidono cosa possiamo fare e ci impongono dei limiti che noi siamo obbligati ad accettare.

BioShock insegna che nei videogiochi non c’è mai libero arbitrio, c’è solo l’illusione di poter determinare il proprio destino. Anche i videogiochi più aperti, quelli a scelte multiple o con più finali, devono sempre rispettare le regole degli sviluppatori. Ci sono dei limiti, a volte tecnologici a volte artistici, e questi limiti non potranno mai essere superati.

In BioShock non siamo mai stati realmente liberi: potevamo scegliere come giocare, è vero, ma gli sviluppatori hanno deciso per noi dove andare, cosa fare e cosa vedere. Jack era nelle mani di Atlas tanto quanto noi eravamo in quelle di Ken Levine.

I videogiocatori sono stati sempre intrappolati in una teca per insetti, a volte molto grande, piena di giochi e costruzioni; ma pur sempre rinchiusi.
Crediamo di essere liberi, ma solo perché non riusciamo a vedere i confini del contenitore.

L’unica vera libertà che ci è concessa è quella di spegnere la console e decidere di non stare al gioco.

VC


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Silent Hill: Shattered Memories è l’horror psicologico più sorprendente degli ultimi vent’anni

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  • Vito Carluccio

  • 16 aprile 2021
  • noninteragire

Prima di addentrarci nelle gelide strade di Silent Hill, è importante presentare una brevissima introduzione al genere di cui fa parte. Sottoinsieme dell’horror, quello psicologico è basato sulle paure dei personaggi e sull’instabilità emotiva e solitamente utilizza i disturbi mentali per creare tensione. Nel cinema ve n’è traccia fin dagli anni Trenta con The Black Cat prodotto dalla Universal, tratto dal celeberrimo racconto scritto da Edgar Allan Poe; le luci della ribalta arriveranno, però, solo dagli anni Sessanta in poi. Questo periodo sarà infatti segnato dall’uscita di due capolavori che rappresenteranno uno spartiacque per l’affermazione e la riconoscibilità dell’horror psicologico: Repulsione (1964) e Rosemary’s baby (1968), entrambi diretti da Roman Polanski.

I due film citati sono considerati la quintessenza del genere e le basi sulle quali si è costruito un intero filone ancora fertile ai giorni nostri. Basti pensare a film apprezzatissimi che hanno letteralmente fatto incetta di premi e registrato considerevoli incassi, quali il Cigno Nero (2010), Babadook (2014), It Follows (2015), Get Out (2017), Hereditary, La Casa di Jack (2018), Midsommar e The Lighthouse (2019).

Una scena iconica tratta da Repulsione (Polanski, 1965). Non sfigurerebbe se fosse inserita in qualche Silent Hill.

Il corrispettivo nei videogiochi può essere identificato in Silent Hill del 1999. Sebbene il capitolo in questione nascesse come la risposta di Konami a Resident Evil (Capcom, 1996), è molto semplice comprendere le sostanziali differenze che presentano questi due capisaldi del survival horror e di come la lezione di Silent Hill fosse diversa.

Si passava, infatti, dall’orrore concreto, disgustoso, rumoroso e splatter dato dagli zombie di Resident Evil al sottile incubo, misterioso, terrificante e a tratti incomprensibile di Silent Hill. Non più squadre speciali, poliziotti, fucili e granate, ma un uomo qualunque intrappolato in un incubo, con pochi proiettili e poca preparazione. Questa diversa rappresentazione dell’horror proposta dal Team Silent, più intimista e psicologica, raggiunse l’apice con Silent Hill 2 pubblicato nel 2001.

La storia di James Sunderland e Maria ha certamente saputo sorprendere per crudezza dei temi trattati e per la rappresentazione estetica delle paure e insicurezze del protagonista. Questo secondo capitolo in particolare è considerato da molti l’apice del genere in ambito videoludico.

La scena iniziale di Silent Hill 2 è ormai storia. Lo specchio sarà centrale in altri momenti e capitoli della serie.

Silent Hill 2 ha giocato il ruolo di “fratello scomodo” per tutti i seguiti e qualsiasi capitolo uscito successivamente ha sempre vissuto nell’ombra di questo gigante. Nonostante ciò, il Team Silent ha smesso di lavorare sulla serie dopo Silent Hill 4: The Room, probabilmente a causa delle intenzioni di Konami, che ha provato a rinfrescare la serie in chiave più action e incaricando delle software house occidentali. I risultati non hanno mai convinto appieno critica e pubblico passando per veri e propri fallimenti (Silent Hill Homecoming e Silent Hill Downpour su tutti).

C’è però un capitolo che è forse riuscito a prendere il buono di Silent Hill 2 (atmosfera, temi ed estetica), eliminando il cattivo (combat system e struttura un po’ dispersiva) per creare il perfetto horror psicologico, in grado di scavare dentro la nostra mente e sorprendere anche l’utente più smaliziato. Il titolo in questione è Silent Hill: Shattered Memories.

Una genesi travagliata.

Nella seconda metà degli anni Duemila, Sam Barlow (conosciuto per Her Story, 2016), lead designer e scrittore principale di Climax Studios, era a lavoro su un progetto chiamato Brahms PD. Spin-off dell’ormai franchise Silent Hill, Brahms PD partiva da una formula di base conosciuta, la ricerca del partner da parte un detective affetto da amnesia, ma con l’intenzione di andare oltre. Infatti al gameplay classico ma ancor meno action, affiancava l’idea di implementare sequenze in cui si prendeva a parte a sessioni con uno psichiatra della polizia. Il concetto era quello di creare “il primo horror psicologico veramente interattivo al mondo”. Questo progetto non trovò l’approvazione di Konami.

Tempo dopo, i Climax Studios proposero alla SH giapponese un vero e proprio capitolo principale, riprendendo l’idea di Brahms PD. Il nome era Silent Hill Cold Heart, ma anche la nuova storia di questa studentessa di psicologia affetta da depressione non convinse Konami.

Climax ha rilasciato online dei documenti che mostrano il lavoro che avevano svolto per Silent Hill Cold Heart.

Il passo successivo fu però quello vincente. Climax Studios ebbe l’idea di trasformare questo concept in una rivisitazione del primo Silent Hill, un’idea che sapeva essere apprezzata da Konami perché già suggerita e bene accolta al tempo del precedente lavoro dello studio sul brand, e cioè durante la fase preparatoria di Silent Hill Origins.

Qui nacque ufficialmente il progetto Shattered Memories. Si decise di usare alcuni elementi e i personaggi dal primo capitolo della serie per creare qualcosa di totalmente nuovo. Sarebbero stati eliminati i combattimenti e si sarebbe posta una grande enfasi sull’ambientazione, sull’immersività e sul lato psicologico del giocatore stesso.

Come vedremo più avanti, la scelta di ispirarsi al primo capitolo senza creare seguiti o spin-off costituirà la base per una storia universale, in grado di strizzare l’occhio ai fan della serie, ma soprattutto di risultare perfettamente fruibile anche dai neofiti.

Copertina ufficiale di Silent Hill Shattered Memories.

Vecchie conoscenze, nuove personalità.

L’incipit è molto semplice anche se fortemente straniante per ogni fan della serie: Harry Mason, il protagonista del primo capitolo, perde il controllo della sua auto e si schianta vicino ad una discarica di Silent Hill. Perde i sensi, e si risveglia nel bel mezzo di una bufera di neve. Proprio come nel predecessore del 1999 scopre che sua figlia è scomparsa dall’auto ed esce a cercarla avventurandosi in questa Silent Hill coperta di neve e ghiaccio.

Nel corso della ricerca, Harry incrocerà diversi personaggi già noti ai fan. Questi ultimi però saranno in qualche modo diversi, come se non ricordassero gli eventi passati, come se non li avessero mai vissuti. In un primo momento sembrerebbe quasi un remake/reboot, o meglio, una re-immaginazione della storia vissuta nel 1999: insomma, come se gli stessi attori stessero interpretando altri ruoli simili al passato, ma non perfettamente identici. La sensazione di straniamento che il gioco provoca si rafforza ancor di più quando hanno inizio alcune sezioni in soggettiva in cui si conosce il Dr Kaufman, uno psicologo. In queste sezioni non verrà interpretato Harry: la visuale passa in prima persona e proietta il videogiocatore all’interno della storia. Lo psicologo si rivolge direttamente a noi, cercherà di ricostruire la storia di Harry e lo farà scavando nella nostra mente.

All’atto pratico il gioco è strutturato in due sezioni ben distinte. Mentre in una impersoneremo Harry Mason alla ricerca di sua figlia per le strade buie e innevate di Silent Hill, nell’altra sezione invece ci troveremo in prima persona nella stanza del Dr Kaufman. Qui ci toccherà rispondere alle sue scomode domande ed effettuare dei test psicologici. Le due sezioni si alterneranno per l’intero corso dell’esperienza e il filo che le lega è la vera forza e particolarità di questo capitolo.

I capitoli in cui ci confronteremo con lo psicologo modificheranno quelle in cui useremo Harry, ma non solo: il gioco terrà conto di come ci comporteremo e traccerà il nostro profilo psicologico in maniera spaventosamente profonda e intima.

Il primo test che effettueremo definirà moltissimi elementi dell’ambientazione e le personalità di alcuni NPC.

Il sistema “Psych Profile”.

Il gioco presenta un complesso sistema che determina e plasma la nostra esperienza di gioco: questo sistema è detto “Psych Profile System”. Le risposte ai test, il nostro modo di interagire con gli NPC, il nostro modo di giocare e le strade che sceglieremo di prendere avranno un impatto diretto sulle aree di gioco, sui mostri e sul comportamento e aspetto degli NPC. In particolare, man mano che proseguiremo nel gioco, verrà definito il nostro profilo psicologico e i mostri cambieranno aspetto in modo da rispecchiare le nostre debolezze.

Dovessimo perdere tempo ad esplorare senza focalizzarci sulla ricerca di nostra figlia, Il sistema potrebbe ritenerci distratti. Abbiamo detto al Dr Kaufman che amiamo bere alcol per rilassarci? Durante il gameplay troveremo alcolici sparsi per la mappa. Il gioco risponde in modo imprevedibile, ma coerente, ai nostri input. Moltissime altre nostre azioni, sia attive che passive, saranno prese in considerazione per definire il nostro profilo psicologico. Guardare o meno il seno o il sedere dei personaggi con cui interagiremo avrà un impatto, aspettare pazientemente che un personaggio si cambi d’abito senza sbirciare ne avrà un altro. Addirittura smettere di nuotare in una determinata scena, perché siamo troppo stanchi, potrebbe contribuire a definirci un po’ pigri e poco determinati (nuotare con il Wiimote può essere molto stancante).

In base ai risultati dei nostri test gli NPC possono cambiare totalmente aspetto e atteggiamento.

Chiaramente l’idea è mutuata dal sistema dei finali già visto in Silent Hill 2 – anch’esso si basava su scelte inconsapevoli fatte dal giocatore – ma in Shattered Memories è estremamente più complesso e stratificato. Ogni run può presentare una nuova esperienza, intere sezioni di gameplay potranno variare e sicuramente giocarci a distanza di anni potrà generare dei profili psicologici adeguati ai nostri cambiamenti.

Lo Psych Profile System esploderà in tutta la sua complessità nel finale. Quando il Dr Kaufman stilerà un rapporto molto lungo e dettagliato sul nostro profilo psicologico, potrà davvero sorprendere e spaventare per accuratezza. Non è raro trovarsi di fronte a lati di noi stessi che nascondiamo ma che sappiamo di avere. La valutazione sarà molto ricca, abbracciando diverse sfere della nostra personalità: il nostro atteggiamento, le relazioni con gli altri, le nostre aspettative e come vogliamo essere visti. Non aspettatevi solo risultati lusinghieri: è facile incappare in critiche o valutazioni che possono risultare offensive e molto intime.

Il disclaimer iniziale ci mette in guardia: questo Silent Hill ci metterà a nudo.

Motion Controller: il cuore vibrante dell’esperienza.

Un altro elemento che contribuisce enormemente all’immersione è la scelta di sviluppare questo gioco su Nintendo Wii. Il sistema di controllo offerto dalla coppia Wiimote + Nunchuck è il fulcro dell’intera esperienza interattiva: controlliamo la torcia di Harry in modo realistico, indirizziamo lo sguardo con precisione (e sarà importante nella valutazione finale), utilizziamo il cellulare di Harry come se ce l’avessimo in mano scattando anche le foto, con tanto di audio proveniente dalle casse del controller durante le chiamate. Nelle sezioni dedicate alla seduta con lo psicologo vengono simulate delle matite per disegnare ed è sempre possibile utilizzare o spostare gli oggetti direttamente con le nostre mani per risolvere i diversi test.

Si può utilizzare il cellulare in qualsiasi momento: fare foto, controllare i messaggi, cambiare le impostazione ed effettuare chiamate. Tutto in tempo reale tramite il Wiimote.

I mostri che ci perseguitano non possono essere affrontati in modo diretto. Non siamo armati e dobbiamo fuggire cercando di evitarli e rallentarli. A tal scopo, possiamo tirare giù armadietti. distributori di bibite e ostacoli vari grazie all’utilizzo dei sistemi di movimento dei controller. Se dovessero catturarci è possibile scrollarceli di dosso dimenando il Wiimote e il Nunchuck. In alcune sezioni particolari verremo chiamati a compiere azioni uniche, come nuotare, risolvere puzzle a leve o interagire con un auto dall’interno. Insomma, i controller di movimento del Nintendo Wii sono stati sfruttati in maniera eccellente e ne consegue un alto livello di coinvolgimento.

Un Game Design al completo servizio dell’immersività.

In Silent Hill Shattered Memories ogni elemento di game design è posto in maniera impeccabile. Si concentra tutto per avere un fine ben preciso: l’immersività e la reattività. Certamente non è il primo e nemmeno l’ultimo titolo che si focalizza su elementi immersivi, ma in questo caso l’intero sistema di gioco, dai controlli alle scelte che vengono proposte, calzano precisamente con il genere dell’horror psicologico costruendo un incubo in grado di adattarsi perfettamente al giocatore.

Silent Hill Shattered Memories è il perfetto horror psicologico, realmente in grado di coinvolgere il fruitore a 360 gradi. Riesce a farlo grazie al lavoro coordinato di tutti i suoi elementi: la trama ci immerge nella ricostruzione di una mente umana (la nostra); l’ambientazione innevata riesce a trasmettere il concetto dei ricordi congelati e frammentati; i controlli di movimento possibili grazie al Nintendo Wii riescono restituire un feedback immersivo d’impatto e le sessioni in cui bisogna confrontarsi con i test psicologici, capaci di scavare nel profondo del nostro io.

Durante i titoli di coda scorrerà in video la valutazione del nostro profilo psicologico.

Il sistema che regola le nostre scelte, sia attive che passive, è più unico che raro. Il gioco risponde in maniera sorprendente e imprevedibile ai nostri stimoli, accentuando il fatto che quella Silent Hill è la nostra personale versione, modellata in base al nostro essere.

Climax Studios è riuscita a catturare l’essenza della trilogia originale sviluppata dal Team Silent, pur discostandosi molto dal punto di vista dell’interattività e del gameplay. Shattered Memories funziona perfettamente anche se giocato senza conoscere la serie e questo non può che non essere un punto di forza del lavoro di Sam Barlow.

Sebbene siano stati fatti dei porting su PlayStation 2 e PSP l’esperienza risulta estremamente più immersiva su Wii. Questo particolare Silent Hill andrebbe riscoperto proprio in questa sua versione, in quanto l’intera struttura ludica si sposa perfettamente con il genere: il coinvolgimento del giocatore è totale.

Come dicevamo all’inizio di questa analisi, l’horror psicologico è basato sulle paure dei personaggi e sull’instabilità emotiva. Ebbene, Silent Hill Shattered Memories gioca direttamente con noi, con le nostre paure e con le nostre emozioni. Riesce farlo con un comparto ludo-narrativo di alto livello e questo lo rende il miglior horror psicologico del nuovo millennio. Un capolavoro.

VC


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