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Tag: crimes of the future

I crimini del futuro sono accettabili

I crimini del futuro sono accettabili

  • Vincenzo Vecchio

  • 9 dicembre 2022
  • nonguardare

David Cronenberg (Rabid, 1977; Videodrome, 1983; Existenz, 1999) ha sempre avuto un rapporto estremamente semplice con la carne. Almeno fino all’uscita nelle sale cinematografiche di Crimes of the Future (2022).

I crimini del futuro sono politicamente accettabili. I criminali del futuro si fanno male, si torturano, si tagliano, si scavano, mangiano plastica; vomitano malsano stupore e cospirano accordi, su purulente mutazioni di organi umani, rimanendo all’ombra di kafkiane atmosfere. Tra la kommunalka sovietica e la banlieu cyberpunk – ma a luci definitivamente spente – si sviluppano flebili bagliori, particolarmente inefficaci a illuminare le scene. Scenografie non pervenute di ambienti che in effetti non esistono, se non nei dettagli di alcune mura sbiadite, riempite di strati di tag e bombardate dal tempo implacabile. Qualche nave, ormai spiaggiata da decenni, divorata dalla ruggine. Scalinate in legno impolverate e cantine dove l’arte contemporanea prende possesso dello spazio. Una dimensione decisamente anti-sociale dell’abitare, attraverso corpi svuotati costretti in ruderi abbandonati. Ambienti chic e arredamenti ormai squallidi di fine secolo. Macchine semisenzienti, ossee – o al contrario, carnose – posticce e forse un poco ridicole, che assistono ormai, come fossero semplici elettrodomestici, ad ogni funzione biologica fondamentale del protagonista, le quali sono divenute senza alcun dubbio uno strazio.

David Cronenberg riesce, attraverso l’utilizzo più basico dello strumento cinematografico, nella descrizione spartana della vita in limine vitae. Di un gruppo umano particolarmente avanzato in certa tecnologia, ma in un pianeta che non lo ha seguito, perché è morto prima.

Ci troviamo infatti in un futuro del tutto sgradevole, per certi versi delirante, in cui l’evoluzione umana è impazzita e le mutazioni genetiche sono ormai fuori controllo. Dove il dolore, come componente fisica, non esiste più e le malattie infettive sono completamente sparite. In una società talmente post-moderna da avere come stimolo naturale quello di imbruttire la bellezza, oppure di cercarla finanche all’interno dei corpi umani. Trasfigura la bellezza interiore in bellezza delle interiora, arrivando a concepire addirittura un concorso adibito a tale scopo. Senza disdegnare le sfumature grottesche, descritte nell’ultima pellicola dell’autore canadese, attraverso il cosiddetto Registro Nazionale degli Organi – una istituzione dedicata alla raccolta e catalogazione dei nuovi organi scoperti, che si rivela in realtà niente più che un ufficietto dotato di un paio di scrivanie – una iniezione di assurdità burocratica che non può non ricordare un qualsiasi topos narrativo di un romanzo di Franz Kafka.

Atmosfere kafkiane.

L’autore canadese mette in scena un racconto visivamente claustrofobico, esteticamente determinato a non fare nessuna concessione al guizzo artistico. Una desolante solitudine in un contesto marginalmente sociale, simile a quello del cinema di Bela Tarr, ma espressa da David Cronenberg in un’accezione assolutamente individualista. Scenografie disegnate su luoghi senza identità, spazi de-territorializzati, per dirla con un termine che utilizzerebbe volentieri Michel Onfray alla richiesta di definire geografie indefinibili. Al contrario di un approccio al genere di appartenenza che punti perlopiù alla sublimazione di certi accorgimenti tecnici – in questo specifico caso, ci permettiamo di definire la messa in scena abbastanza sobria – l’autore preferisce costringere il proprio pubblico in una dimensione di forzata introspezione. E nemmeno tanto banale, al pari di una vera riflessione filosofica sul chi siamo all’interno, e soprattutto, al di là del corpo che abitiamo. E così per l’appunto, ispezionando corpi, si passa in rassegna un organo dopo l’altro, dettagliando ogni particolare: producendo così una vera e propria “mistica del corpo“, che diviene, in un lampo, ossessione della carne. Anche perché, come accennato prima, prende vita in un mondo spento e stanco, tossico e malato, in rovina e desolato, dove la carne viva spilla sangue – ma non troppo.

Il protagonista – Saul Tenser, interpretato da un macilento e concentratissimo Viggo Mortensen – si muove come un monaco post-moderno che trascina con sé la propria ombra fin dentro l’inquadratura. E difatti tutto, proprio tutto, nella pellicola di Cronenberg è flebilmente illuminato. Il protagonista stesso, come dicevamo, si trascina come un relitto tra i relitti, e anzi trasmette senza dubbio proprio la sgradevole sensazione di star trascinando il proprio corpo mezzo morto, al di là di ogni ragionevolezza clinica con la sola forza di volontà. Viggo Mortensen interpreta un noto artista performativo, che sfrutta la sua capacità evolutiva velocizzata – è capace infatti di covare un nuovo organo in pochi mesi, se non settimane – per fare arte. Assieme alla sua assistente e partner – Caprice, interpretata dall’eterea Léa Seydoux – mette in scena degli eventi speciali in cui vengono esportati pubblicamente i nuovi organi del protagonista, realizzando così dei veri e propri happening d’arte contemporanea. Questi eleganti e mostruosi vernissage – in senso pasoliniano naturalmente – fanno letteralmente uscire fuori dalle rovine di questo mondo i benestanti e le classi agiate di questa società stordita e vagamente cattiva. Più o meno al pari di lumache e limacce, che annusano, all’aumentare dell’umidità dell’aria, un’interessante opportunità sociale.

La chirurgia, che rimane nella comune concezione sempre l’ultima soluzione possibile ad un problema di salute, è invece nel mondo futuro immaginato da David Cronenberg una comune attività, che può essere praticata da chiunque e ovunque, senza nessun tipo di preoccupazione riguardo le possibili conseguenze cliniche. Tanto più che il dolore non esiste più. Per questo motivo, a quanto sembra, chiunque si taglia. In qualsiasi occasione, anche in pubblico, anche per strada. Il tagliarsi, diviene quindi una normale espressione fenomenologica, un tipo di comunicazione del tutto legittima; una dimostrazione comprensibile di umanità e, in quanto tale, arte.

Il film si interroga in continuazione sulle proprie invenzioni.

Ecologia come digestione

In questo contesto, produrre e mangiare barrette di plastica riciclata, utilizzando il corpo umano come apparato digerente collettivo per le sostanze artificiali che inquinano il pianeta, diventa la soluzione ferma e definitiva. La deriva perfetta per un’ideologia come quella ecologista, almeno per come la si intende comunemente oggi e cioè una serie di banali privazioni sistematiche applicate brutalmente alla società, prevede che sia l’uomo stesso a riparare, con il suo corpo, agli errori da egli stesso commessi. Come del resto dovrebbe sempre essere, è responsabilità del progresso tecnologico risolvere i problemi che ne derivano.

Attraverso questo concetto, l’autore canadese mostra nel suo ultimo film un chiaro impegno nel cercare di fare un tipo di cinema che vada oltre il mero film di genere. Più costruito, forse più pensato, Crimes of the Future sa di cinema d’anticipazione; una componente, questa, che parecchio del cinema fantascientifico ha quasi sempre colpevolmente trascurato per privilegiare invece alcune sublimazioni tecniche della messa in scena. L’autore inoltre gioca con questa identità, togliendo dalla portata dello spettatore ogni tentazione ironica rispetto alla realtà diegetica.

Il film insomma, si assume completamente. Un blando thriller cinico e futuristico, con chiare derivazioni di tipo etico e con evidenti risvolti di natura ecologica. Perfettamente centrato sul tema, senza nessuna distrazione se non qualche sbavatura di scrittura e qualche nonsense di troppo. Al di là di un’asettica componente body horror – di gusto propriamente medicale e che poco spaventa al netto delle varie fobie riguardo materiale medico-operatorio nelle sue diverse varianti – poco o niente rimane dello splatter e dell’horror in quanto tali. Probabilmente per la mancanza della paura e della necessaria violenza volontaria. Dunque scopriamo, ma senza alcuna sorpresa, che il dolore è componente fondamentale di ogni stato di angoscia. Perché il dolore è compagno ancestrale dell’uomo e l’unica e vera novità di quel mondo, immaginato da David Cronenberg, è la sua scomparsa.

Se è vero che il corpo è reale, in assenza di dolore, abbiamo bisogno di provarlo costantemente.

Già dopo una prima visione di Crimes of the Future, diventa chiarissimo il sentimento genuino dell’autore, che vede nello svincolamento dal corpo fisico dell’uomo un notevole avanzamento nelle facoltà umane e una conseguente soluzione al problema ambientale. In questo contesto non è sbagliato parlare di teoria malthusiana applicata più o meno a un canovaccio fantascientifico. L’abbandono della carcassa corporea, in favore del superamento della materialità della vita, è infatti un cruccio di sempre – e en passant l’obiettivo ultimo – di alcune branche della scienza e della filosofia. Qui utilizzato anche alla stregua di soluzione al problema, ancora una volta del tutto malthusiano, del conflitto irrisolto tra demografia e limitatezza delle risorse del pianeta.

Si direbbe quasi un transumanesimo naturale o evolutivo che dir si voglia. In qualche misura piuttosto vicino al sovra-umano del paleontologo e gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin, che immaginava appunto, nella sua opera scritta, un superamento della cultura dell’evoluzione armonica dell’uomo, derivata dalla cultura greca e romana. Al contrario del transumanismo classico che invece si basa sulla fusione inevitabile tra uomo e macchina, nell’ultimo film di David Cronenberg viene privilegiato il concetto che riguarda invece l’adattamento dell’uomo – attraverso un misto di tecnologia e evoluzione forzata – alle necessità dell’ambiente e del pianeta che lo ospita. A chiudere questo ragionamento non poteva che essere un gruppo evoluzionista e dai connotati estremisti, a giocare nel film un ruolo di detonatore degli eventi. Un ristretto gruppo di persone consapevole, clandestino e archetipale della figura della minoranza rumorosa, che mira banalmente all’accelerazione degli eventi, qualsiasi essi siano, solo per fare in modo che qualcosa accada

Perché se è vero che il mondo deve essere salvato a tutti i costi – in questo caso letteralmente – allora diventerà lecito anche sfruttare le magie dell’evoluzione umana per farlo. 

Autopsia come performance artistica.

Sesso, autopsia e chirurgia

Nell’ultima pellicola dell’autore canadese è presente una componente erotica evidente, che arriva a sostituire completamente la componente orrorifica, o presunta tale, proprio appena ci si accorge che, essendo venuto meno il preistorico allarme di pericolo, e cioè il dolore, tutto o quasi del comportamento umano si traduce in piacere. Non è un caso che Timlin – il vaghissimo personaggio interpretato da Kristen Stewart – teorizzi, tra un sospiro e l’altro, che la chirurgia sia divenuta il nuovo sesso. La sacralità della carne infatti è messa completamente in discussione e forse proprio rigettata. L’estasi è tornata quella cattolica, ma privata di genuina sofferenza e dunque, in un certo modo, svuotata.

Come mostrava già Marco Ferreri in La carne (1991), utilizzando il feticismo innato del corpo, fare un parallelo tra sesso e cibo, ad esempio, è subito dopo tra sesso e cannibalismo, diventa molto naturale se posato nel giusto contesto e in presenza di una componente di natura stravagante. Così David Cronenberg ne costruisce uno con la stessa facilità tra sesso e chirurgia, oppure, stavolta molto più classico, tra erotismo e esibizione artistica. Questo tipo di parallelo viene meno, con la conseguente distruzione del ciclo arte-sesso-chirurgia, solo con l’aggiunta della componente autopsia, che rompe la componente erotica lasciando intatta però quella artistica.

Dunque, l’elemento centrale da cui deriva ogni riflessione è in definitiva il corpo. Lo stesso corpo che aveva, in altre e lontanissime pellicole della filmografia di David Cronenberg, un’accezione assolutamente più banale, concentrata in modo preponderante sullo splatter e sul body horror, qui, come detto, scompare quasi per dissoluzione. In Crimes of the Future, l’autore canadese sembra quasi voler ribadire la centralità della carne nella concezione che si ha normalmente del corpo; sembra volergli dare un giusto spessore e sottolinearne l’inevitabile presenza, e per farlo insiste dunque su ogni taglio, su ogni mutazione.

Anatomische les van Dr. Sebastiaen Egbertsz., Aert Pietersz 1601-1603

Il XV è il secolo dell’apertura all’interesse per il corpo umano e la sua complessa anatomia proprio in quanto oggetto di studio sistematico e accademico, con la conseguente apertura di spazi dedicati a questo tipo di studi: i cosiddetti teatri anatomici. In realtà, al di là del progresso scientifico, non molto è cambiato in cinquecento anni di riflessione sul corpo.

Je ne peux pas me déplacer sans lui scriveva del resto, già negli anni sessanta, Michel Foucault riferendosi ovviamente al suo corpo, nel suo Le corps utopique (1966); “il est ici, irréparablement jamais ailleurs“. 

VV


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