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Amare, ancora, Mass Effect 2

Amare, ancora, Mass Effect 2

  • Alfredo Savy

  • 11 febbraio 2022
  • noninteragire

Lo sguardo di Shepard è rivolto allo spazio profondo. Cerca di raggiungerlo aguzzando la vista, ma è inutile; sono separati dai freddi vetri della Normandy SR2, ancora abbellita dall’araldica del gruppo sovranista umano Cerberus. E da svariate tonnellate di buio, che si esprime – non senza umorismo – attraverso una distanza calcolata in anni luce.

Eppure è proprio da un luogo recondito, lontano da ogni occhio biologico e da ogni scanner di bordo, che sta emergendo finalmente quella minaccia fino ad allora solo sussurrata, incontrata incidentalmente, trattenuta e studiata.
Nell’attesa, tutto ciò che rimane è aggrapparsi a una donna, o a un uomo. Che guarda lontano alla ricerca del segnale che la battaglia stia per iniziare.

Il rapporto con l’ignoto è uno dei punti di fascino di Mass Effect.

Qualunque sia stato il finale di Mass Effect 2 scelto dal giocatore, qualsiasi sia stato l’ordine degli eventi affrontati nel secondo capitolo della Space Opera di BioWare, non può che essere questa la sensazione, l’immagine, che rimane alla mente dopo averlo concluso.
Una figura che scruta l’immensità, per sempre cristallizzata nel momento che precede l’Apocalisse.

E, in effetti, questa è anche la sorte che il destino ha riservato allo stesso titolo. Mass Effect 2 è lì, sospeso. Sospeso tra un primo capitolo di grande impatto, ma forse acerbo nella gestione di alcune scelte di Game Design; e un terzo che ha chiuso, non senza polemiche, l’intera Saga del Comandante Shepard. 

Eppure, Mass Effect 2 è un videogioco che si regge sulle proprie gambe, con delle qualità capaci di superare l’idea che si può averne considerandolo solo come il fratello di mezzo di una grande trilogia. È con questa seconda installazione che il lavoro di BioWare si emancipa totalmente dalle sue ispirazioni cinematografiche, letterarie  Star Wars (Lucas, 1977) e Dune (Herbert, 1965) su tutte – e videoludiche, tra cui emerge, per ammissione stessa degli sviluppatori, Star Control II (Toys for Bob, 1992).

Questa struttura compare alla nausea nelle secondarie del primo Mass Effect.

Si distanzia da esse in grande stile: acquisiscono forza molte tematiche già introdotte in precedenza, quali il rapporto tra sintetici e organici, la convivenza tra culture differenti, l’immobilismo istituzionale come catena, l’incapacità di far fronte in maniera unitaria a un problema comune, la tecnologia, il ciclo della vita e il destino cattivo. Cambia anche l’impatto visivo: si adotta una prospettiva ancora più accelerazionista e dal sapore fusion, disperata, estrema e classica al tempo stesso.
Ma avremo tempo e modo di parlarne; non sarebbe intelligente spararsi tutte le cartucce ora, no?

In realtà, l’aspetto più importante del lavoro di BioWare, nell’elaborazione di un discorso critico, è l’armonia tra le parti che lo compongono. D’altronde un videogioco, come un qualsiasi essere vivente della Galassia di Shepard, è formato da vari organi; in questo particolare linguaggio, però, spesso le funzionalità e le necessità di ognuno di essi si sovrappongono litigiosamente, come in delle pericolose infezioni multisistemiche.
Bene: Mass Effect 2 è dotato di un ottimo sistema immunitario (e dunque non è un Quarian), capace di prevenire i problemi. Ed è da qui che conviene partire con la nostra analisi.

Da dissonanza a raccordo ludonarrativo? Mass Effect 2 come case-study

Prima di incentrare il discorso su Mass Effect 2 ci tocca un po’ di teoria. Nella storia recente di questo medium si è fatto un gran parlare di dissonanza ludonarrativa, una categoria critica che è diventata un po’ come il nero: sta bene con tutto. Soprattutto negli ultimi tempi abbiamo assistito a numerosi tentativi di razionalizzare il concetto, che dal famoso intervento di Hocking su BioShock ha subìto notevoli rimaneggiamenti.

A sparare si spara un sacco. Ora bisogna vedere se ha un senso.

Da tutta questa discussione, emerge che il confine della dissonanza ludonarrativa è assai labile: siamo passati dal definire come tale un’incompatibilità grossolana ed evidente tra le azioni ludiche proposte al fruitore e i temi del videogioco, con l’effetto di quasi dissacrare questi ultimi, fino a elaborarla come un termine generico mediante il quale vengono raggruppate tutte le frizioni tra gameplay e narrazione.

Una di queste incompatibilità è rivelata nel momento in cui dalla main quest si dipana un certo senso di urgenza mentre la struttura ludica – nel significato più pieno di set di regole e metodi di fruizione proposti dallo sviluppatore al videogiocatore – è costruita come se quell’urgenza non esistesse. Ciò provoca uno scollamento tra priorità dell’avatar e del controllante, che è tanto più grave quanto più si lega alle tematiche proprie del titolo (per approfondire: ne abbiamo parlato a lungo nel pezzo dedicato a Cyberpunk 2077).

Estrapolando ciò che sosteneva Markku Eskelinen nell’articolo diventato il manifesto di una certa corrente e appartenente a un discorso molto più vasto,

Se ti lancio una palla suppongo che non la lasci cadere e aspetti fino a quando non inizia a raccontarti delle storie.

Markku Eskelinen, The Gaming Situation.

si potrebbe affermare che sia altrettanto vera l’obiezione secondo cui mettersi a giocare con questa benedetta palla mentre viene urlato che l’appartamento sta andando a fuoco non è proprio una gran pensata.

La minaccia dei Collettori, un potenziale elemento di disfunzionalità.

Alla luce di ciò, sorge un dubbio logico-sistematico: perché non ribaltare la prospettiva e realizzare uno strumento critico capace di definire in positivo il coordinamento tra giocato e narrato?

Da questo punto di vista, Mass Effect 2 può venirci incontro. L’ossatura del titolo è semplice: abbiamo quest principali che riguardano il filone dei Collettori, secondarie incentrate sulla lealtà dell’equipaggio e terziarie simil-incarichi, chiamate missioni N7. In questa costruzione si inseriscono anche i DLC (Firewalker, Overlord, L’Ombra e Avvento) che sono cronologicamente disponibili a essere affrontati in qualsiasi momento dell’avventura, o quasi.

La grande sfida è, quindi, far convivere una minaccia per la Galassia che si presenta come impellente – qual è quella dei Collettori – con la necessità di far giocare il giocatore, e dunque permettergli di affrontare un numero importante di attività organizzate secondo un quest design imperniato su un gunplay in terza persona armi/poteri.

Shepard scavalca una copertura sulla nave dell’Ombra, nel DLC omonimo.

Per la precisione, Mass Effect 2 utilizza tre strumenti che potremmo definire di raccordo ludonarrativo, con il fine di ridurre a coerenza le parti di cui è composto: il principio di giustificazione delle missioni lealtà, la restrizione degli spazi e il dare un peso al tempo quando necessario.

In primo luogo, la presenza di un principio di giustificazione alle missioni lealtà permette di inquadrarle non come strutture meramente ludiche – la cui esistenza è connaturata all’esigenza di offrire intrattenimento al fruitore, dilatando i tempi richiesti al completamento del gioco e all’ottenimento del good ending – ma come un atto potenzialmente dovuto a un equipaggio che si avvia a svolgere una Missione Suicida. 

Raccordo ludonarrativo, Fig.1: Jacob e il principio di giustificazione.

In maniera molto elegante, BioWare fa dire a Jacob Taylor che tutti i membri della Normandy desiderano chiudere con il loro passato prima di avanzare con l’incarico, che vogliono risolvere le ultime faccende in sospeso prima di tuffarsi in un’operazione potenzialmente mortale.
Questa piccola frase, all’apparenza insignificante, muta la posizione di queste missioni in Mass Effect 2: da quel momento non rappresentano più solo dei momenti ludici da affrontare per raccogliere esperienza, salvare un personaggio dalla morte, godere di dialoghi ben scritti o di scontri a fuoco che intrattengono, ma contribuiscono alla sensazione di una fusione tra azione e contesto in quell’azione è inserita.

Il secondo aspetto di fondamentale importanza riguarda la restrizione degli spazi ludici quando la main quest si attiva. Legando lo sblocco delle missioni principali a una progressione generale, e impedendo al videogiocatore di bighellonare per la Galassia se improvvisamente i Collettori iniziano a sequestrare degli innocenti coloni, i Game Designer di Mass Effect 2 sono riusciti a risolvere un problema concettuale del primo capitolo: quello delle missioni di Schrödinger.

Raccordo ludonarrativo, Fig.2: l’Uomo Misterioso ha individuato i Collettori, quindi si va e basta.

Gli incarichi di Feros e Therum, dove rispettivamente una colonia è sotto attacco Geth e Liara T’Soni è dispersa, possono essere cristallizzati, rimandati a data da destinarsi senza che vi siano conseguenze di sorta; ed è consentito dirottare l’attenzione di Shepard su compiti sicuramente meno urgenti come l’esplorazione fine a se stessa.
Quelle situazioni rimarranno lì, bloccate. Ferme. Né morte né vive, fino all’arrivo del giocatore.

Insomma, BioWare ha avuto il coraggio di stravolgere una formula collaudata e di incastrare meglio i contenuti proprio perché ha saputo ragionare sul paradigma del primo Mass Effect, ottenendone uno migliore.

L’ultimo strumento di raccordo ludonarrativo è rappresentato dal peso che il gioco dà al tempo, in una fase cruciale qual è quella posteriore al rapimento dell’equipaggio della Normandy.
Diretta conseguenza logica della restrizione degli spazi precedente, suona più o meno così: se il giocatore rispetta l’urgenza che Mass Effect 2 prevede per quel segmento narrativo, potrà salvare i suoi sottoposti; nel caso in cui non l’avverta come tale li troverà morti. Siamo agli antipodi rispetto alle missioni di Schrödinger precedentemente descritte per il primo Mass Effect.

Raccordo ludonarrativo, Fig.3: Kelly Chambers muore se il giocatore non accetta l’urgenza.

In questo caso, gli autori di Mass Effect 2 hanno ragionato come veri e propri master di un rpg pen and paper, punendo un party che ignora una situazione definita come impellente: ancora una volta le esigenze ludiche e quelle narrative si fondono. Alla luce della limitazione dell’esplorazione precedente, è però possibile pensare che sia una scelta di Game Design ben più consapevole rispetto al meccanismo decisioni/conseguenze che si è soliti trovare in molti giochi di ruolo.

Tale concezione acquisisce un significato ulteriore se confrontata con l’idea di Gameplay Poetico espressa da Mitchell et al. in un articolo comparso abbastanza recentemente su gamestudies.org. Con “Gameplay Poetico” si intende un modello di sviluppo basato sul continuo straniamento (defamiliarizing) del videogiocatore, imperniato su una serie di tecniche tra cui emerge quella dell’informazione imperfetta. Di base, chi è dall’altra parte dello schermo proverà sempre a influenzare il risultato finale cercando di prevedere le intenzioni del gioco; sta quindi allo sviluppatore cercare di rendere quest’operazione il meno semplice possibile. Non si tratta di narratore inattendibile, sia ben chiaro; si tratta di nascondere gli output per generare una sorpresa in chi è dall’altra parte dello schermo e ottenere titoli unici.

Raccordo ludonarrativo, Fig.4: Kelly Chambers è viva se il giocatore accetta l’urgenza.

In effetti, Mass Effect 2 non indirizza in maniera decisa il giocatore, ma lo catapulta in delle situazioni che – almeno nelle produzioni Tripla A – non è spesso abituato a processare. In una blind run, ha solo dei piccoli indizi che lo portano a seguire un certo percorso invece che un altro; e non è semplice capire se concentrarsi su quello che può essere avvertito come un contorno, senza lanciarsi immediatamente al recupero del transponder del portale di Omega-4, possa risultare in un finale positivo o meno. Il fruitore è portato a scegliere senza sapere che sceglie; e per questo risulta incomprensibile la posizione di chi insiste, ancora oggi, a concentrarsi sul bipolarismo buono/cattivo, Paragon/Renegade, sottintendendo una debolezza intrinseca al sistema. Senza rendersi conto, però, che arruolare, fidelizzare, procrastinare e priorizzare hanno un impatto notevole nell’influenzare l’andamento dei fatti, risultando quindi scelte implicite e dotate di una certa pesantezza. 

Ed è dunque importante sottolineare che il modo di ottenere un output migliore sia proprio quello di assorbire i meccanismi di raccordo ludonarrativo, cercando di intuire la volontà degli sviluppatori nell’unire grandezze spesso in conflitto. 

Raccordo ludonarrativo, Fig.5: anche la scoperta della nave dei Collettori comporta una chiusura degli spazi.

Tutto questo discorso potrà apparire forse barocco per alcuni e inutilmente prolisso. In realtà, anche alla luce dei recenti sviluppi dei videogiochi ad alto budget, Mass Effect 2 rappresenta una specie di mosca bianca per la consapevolezza con cui maneggia le grandezze di cui è composto; e la cui fruizione, a più di un decennio dalla sua uscita, continua a rimanere una boccata d’aria fresca.

Ed è paradossale che proprio il suo successore non abbia interiorizzato questa lezione: la presenza di missioni Priorità e, al tempo stesso, di quest missabili nel caso si dia la precedenza all’urgenza che lo stesso gioco segnala, pone Mass Effect 3 concettualmente agli antipodi rispetto alla seconda installazione della Space Opera di BioWare.

Mass Effect 2 è nella sua estetica

Approcciandoci al gioco in maniera un po’ più poetica, non si può fare a meno di notare l’enorme impegno profuso da BioWare nella direzione artistica di Mass Effect 2. Si passa, quasi senza soluzione di continuità, dagli scenari cyberpunk su Illium, la Cittadella e Omega (declinati in maniera tra loro antitetica: degradata l’ultima, borghesi e prosperose le prime due) agli spazi devastati di Tuchanka, con in bella vista le ferite di un conflitto mai sopito, tra calcinacci ed edifici in procinto di crollare.

Estetica biopunk, la nave dei Collettori.

Ancora, attraversiamo flotte migranti tipicamente appartenenti al filone visivo della Space Opera ed egualmente giriamo per i corridoi della Normandy come fossimo nell’USS Enterprise; visitiamo delle colonie umane periferiche, ai margini della Galassia conosciuta, caratterizzate da un tocco industrial. A tutto questo è abbinato il freddo e distaccato metallo delle strutture Geth e le atmosfere biopunk di quelle dei Collettori, con le loro putrescenti costruzioni, composte da materiale organico misto all’acciaio, che si oppongono ai lussureggianti pianeti-giardino incontrati durante il viaggio.

Questo meccanismo di differenziazione estetica è correlato alla necessità di donare un’identità precisa a ogni missione.
Il concetto va chiarito meglio. Il quest design di Mass Effect 2 non è esaltante e, spesso e volentieri, non lo è nemmeno il level design: entrambi si riducono a dei percorsi lineari dove si avanza sparando, come nel più classico degli svuota-stanze. Il gunplay è sicuramente più raffinato rispetto al primo capitolo e la combinazione con i poteri risulta più asciutta e funzionale a variare il ritmo del combattimento, così come è meglio gestito il sistema di coperture; eppure il rischio è che, dopo decine e decine di ore a svolgere di fatto la stessa azione, si ricada in una monotonia di fondo. 

Estetica cyberpunk, Illium.

Questa ripetizione del ciclo non è solo pericolosa dal punto di vista della noia che sopraggiungerebbe con il passare del tempo, ma anche nell’ottica di un potenziale lascito al videogiocatore. Per dirla in altri termini: se la più gran parte delle quest di Mass Effect 2 possiede una struttura simile, c’è la possibilità che si impastino nella mente di chi lo gioca, affievolendone il ricordo e impedendo, sul lungo periodo, di distinguere l’una dall’altra. Gli sviluppatori hanno cercato, quindi, di imprimere un certo carattere estetico a ogni missione, cercando di fissare la memoria attraverso dei repentini cambi di registro.

A distanza di anni, si può dire che la sfida sia stata – almeno in parte – vinta. Stimolando il videogiocatore dal punto di vista visivo e correlando una determinata estetica ai temi morali di cui spesso sono avviluppate le quest, lo studio canadese ha ottenuto un titolo capace di farsi ricordare.

Paradisi tropicali, e velenosi.

La rimozione del Mako e dei pianeti liberamente esplorabili del primo Mass Effect poteva essere una scelta fatale nell’economia complessiva del lavoro di BioWare, in quanto funzionali a variare il passo del gameplay; e non è un caso che, in due DLC – Firewalker e Overlord – ricompaia un veicolo e addirittura uno spazio aperto. Eppure, grazie a una certa perizia nella scrittura di dialoghi e situazioni, il nuovo modello funziona; e l’attenzione di BioWare nel costruire le missioni secondarie è ben lontana dal riciclo di asset – a tratti indisponente – del precedente capitolo. Per non parlare del prologo, una vera montagna russa che sa ancora stupire. 

Oltre a questo aspetto, un ulteriore salto in avanti è dato dall’adozione di una fotografia che vive di contrasti e di un lavoro di inquadrature molto più certosino durante i confronti con i personaggi o in momenti chiave dei singoli incarichi. Mass Effect 2 utilizza straordinariamente bene non solo le cromie ma si diletta anche e soprattutto in vertiginosi close-up, sapendo regalare dei momenti di vero appagamento estetico non certo comuni negli RPG, dove spesso è adottata una regia monocorde e protocollare. 

Prego, ma il tuo problema è stato risolto dieci ore fa e svariati giorni prima. Perché sei ancora qui fermo?

L’unico aspetto negativo di quest’approccio rimane l’eccessivo immobilismo delle mappe-hub, Illium, Omega e Tuchanka, sacrificate sull’altare del primo impatto. Sebbene faccia parte del modus operandi di BioWare anche oltre Mass Effect 2 (basti pensare a Dragon Age: Inquisition), la staticità di luoghi che dovrebbero essere caratterizzati da un notevole dinamismo a un certo punto diventa un problema serio in termini di sospensione dell’incredulità. Al secondo passaggio nei pressi dell’Afterlife, o ancor peggio al terzo, lo sforzo richiesto al fruitore per fargli accettare una scenografia che sa di museo delle cere più che di ambiente vivo, assume i cardini di una pretesa troppo ambiziosa.

Nuovi personaggi e nuove prospettive

L’ultimo aspetto meritevole di nota riguarda l’introduzione, in Mass Effect 2, di un microcosmo di personaggi e organizzazioni appena accennati in precedenza.
Il passaggio di Shepard da orgoglio dell’Alleanza, e primo Spettro umano, ad agente di una pericolosa organizzazione con delle politiche certamente non etiche, comporta un notevole cambio di prospettiva. Nonostante il modo in cui verifichi il distacco dallo status quo sia più o meno traumatico a seconda delle decisioni prese nel finale di Mass Effect, il nostro protagonista si troverà comunque ad agire come cane sciolto e con il fardello di trovare un punto di equilibrio tra la necessità di salvare la Galassia e diventare un pupazzo di privati che vogliono decidere del destino evolutivo di una razza. Oppure a non trovarlo affatto: Shepard può benissimo decidere di sposare in toto la causa di Cerberus, ed è lasciato al giocatore un buono spazio di role-playing all’interno di una struttura comunque piuttosto rigida e story-driven. 

Le distruzioni di Tuchanka, missione fedeltà di Mordin.

Per accompagnare questo ribaltamento, BioWare allarga il supporting cast. L’inclusione di nuovi personaggi come Thane, Jack, Miranda, Samara, Legion e Mordin arricchisce notevolmente il gioco, introducendo delle figure grigie e che cercano di venire a patti con i propri dilemmi personali. Abbiamo, quindi, uno scienziato che ha applicato la visione utilitaristica di Jeremy Bentham al destino di una razza, sacrificando la loro possibilità di procreare sull’altare della felicità della Galassia, costruendo la sua morale sui fatti; un alieno morente che sembra uscito da Blade Runner e cita continuamente la separazione tra corpo e anima (e pure Thomas Hobbes); una Punitore in salsa Asari alla caccia della figlia, serial killer emozionale; un sintetico che combatte tra l’appartenenza totale a una comunità e l’inizio di una individualizzazione del sé; una sociopatica omicida che prova a riprendere il controllo della sua vita dopo essere stata trattata solo come mezzo e mai come fine e che, ironicamente, finisce in un meccanismo di incomprensioni verso l’unica persona con uno stato d’animo simile al suo. Insomma, lo sviluppatore ha proseguito un discorso già iniziato nel 2007, disegnando dei comprimari ancora più profondi rispetto al passato e per questo in grado di farsi apprezzare anche da chi preferisce il primo capitolo al secondo.

Tutto questa caratterizzazione contribuisce a creare delle missioni fedeltà uniche e capaci – insieme al discorso estetico, al raccordo ludonarrativo e al gameplay poetico – di inquadrare Mass Effect 2 come un instant classic di rara coesione tra giocato e narrato. Grazie a delle quest in cui vengono sapientemente riproposti dilemmi come quello del carrello ferroviario, o dell’autodeterminazione, si ragiona su cosa significhi essere genitori oppure fratelli; e le letture intimiste si legano ai grandi temi della fantascienza di genere o della filosofia morale.

Hobbes e character building.

Sullo sfondo, rimane l’annosa domanda della coesistenza tra nati e generati, tra creatori e creati, sulla circolarità della natura e l’estinzione programmata. A giovare di questa rinnovata maturità sono soprattutto i Geth, non più nemici senz’anima manovrati da Saren e dai Razziatori ma una vera e propria civiltà con tanto di scisma interno. Il tutto è inserito in un contesto che richiama un po’ Quella sporca dozzina (Aldrich, 1967) e – più da lontano – I magnifici sette (Sturges, 1960) per quel mood da noi contro tutti.

Qualche nostro affezionato lettore avrà notato che il titolo del pezzo richiama quello che abbiamo scritto, in passato, per The Witcher 2. Come quest’ultimo, anche Mass Effect è sopravvissuto splendidamente al passare del tempo e si approccia alla contemporaneità con delle lezioni importanti e, forse, troppo sottovalutate dal Game Design moderno.

Ma c’è ancora qualcosa da dire. Magari, oltre all’aspetto meramente razionale e riguardante le strutture ludiche e narrative, il fascino di Mass Effect risiede nell’essere un grande romanzo epico. Una sfida all’ignoto, un viaggio che insegna ad affrontare i timori più oscuri dell’animo e a cambiare quello che non è possibile cambiare.

Perché nella vita c’è tanto di ineluttabile. Ma anche tanto da amare. Ancora.

AAS


NDR: tutte le immagini dell’articolo esclusa quella della morte di Kelly Chambers sono estratte dalla Legendary Edition, remastered della trilogia di Mass Effect.


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Amare, ancora, The Witcher 2

Amare, ancora, The Witcher 2

  • Alfredo Savy

  • 30 giugno 2021
  • noninteragire

Analizzare The Witcher 2 dopo un decennio dall’uscita è un compito arduo. La principale ragione di tale difficoltà è la presenza di un successore tanto acclamato da pubblico e critica da averlo oscurato, relegandolo spesso al ruolo di “fratello di mezzo” tra il primo capitolo, che ha avviato la leggenda videoludica di Geralt e soci, e il famoso terzo. 

Eppure The Witcher 2 oggi rappresenta ancora un momento particolare all’interno del processo evolutivo di CDProjekt, sia nel rapporto con il materiale originario di Andrzej Sapkowski che dal punto di vista ludico, in senso lato. La struttura adottata dalla SH polacca, il sistema di pesi e contrappesi nelle scelte, l’incedere senza pausa della trama e la sacralità dei luoghi virtuali  attraversati durante l’intera avventura sono un unicum per carattere e connessione con la narrazione, che si fa sempre più fitta e intricata atto dopo atto. 

Una concept art embrionale di Flotsam. Ricorda il primo The Witcher.

Pur non riuscendo quindi a penetrare nell’immaginario collettivo come The Witcher 3, il secondo episodio rappresenta un equilibrio tra le ambizioni di una Software House in rampa di lancio e il rispetto del materiale originale, che rimane sempre presente e utilizzato in maniera congrua agli obiettivi del gioco. The Witcher 2 è capace, pertanto, di emanciparsi dall’opera dell’Autore e, nello stesso tempo, di rispettarla. Una caratteristica che sia il primo che il terzo videogioco della saga perdono parzialmente.

The Witcher 2, The Witcher 3, Sapkowski, il medioevo, il nostro tempo.

[DISCLAIMER: DA QUI IN POI L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SULLA SAGA DI THE WITCHER]

Le sagome vaghe, dai contorni imprecisi, continuavano ad avanzare in una lunga fila senza fine. Nel passarle accanto giravano la testa. Triss soffocò un grido nel guardare quei visi indifferenti, impassibili, gli occhi ciechi, morti. Non riconobbe la maggior parte di quei volti. Ma alcuni sì. Koral. Vanielle. Yoèl. Axel il Butterato… «Perché mi hai portato qui?» sussurrò.

Ciri si voltò. Sollevò una mano. Un rivolo di sangue colò lungo la linea della vita, attraversò il palmo e raggiunse il polso. «È la rosa. La Rosa di Shaerrawedd. Non è niente. È solo sangue. Il Sangue degli Elfi…»

Il Sangue degli Elfi, di Andrzej Sapkowski.

The Witcher 2 in effetti cuce e scuce un filo rosso che si dipana da “La Signora del Lago” (Sapkowski, 1999) e arriva a Wild Hunt (CDProjekt, 2015): supera il brillante escamotage della perdita della memoria di Geralt, funzionale all’immedesimazione tra il videogiocatore non lettore e Geralt stesso. Inoltre, lega quanto accaduto sui libri e quanto si sarebbe poi realizzato nel capitolo conclusivo tramite nuovi personaggi e avvenimenti, preparando il terreno all’introduzione di Ciri, Yennefer, la Caccia Selvaggia e tanti elementi fino ad allora sapientemente tenuti sullo sfondo. 

Nonostante sfrutti il ponte narrativo aperto dal secondo, The Witcher 3 abbandonerà poi quasi completamente i raffinati intrighi di corte e l’andamento cerebrale dei fatti, per raccontare una storia intimista, emozionale e direttamente collegata al lavoro di Sapkowski, di cui si offre – senza arroganza alcuna – come successore non canonico. Dovendo funzionare anche come starting point per i nuovi giocatori, Wild Hunt procederà inoltre a numerose semplificazioni degli eventi di Assassins of Kings, dalle fazioni in gioco alla presenza di protagonisti quali Iorveth o Saskia, tagliati durante la produzione del titolo.

La mappa di Vergen. È decisamente più complessa di ciò che sembra.

Il processo di normalizzazione investe non solo la trama, ma anche le meccaniche e il quest design: crafting e soprattutto alchimia diventeranno molto più accessibili, il combattimento ancora più votato a un sistema action e il peso della gestione di inventario ed exp decisamente meno stringente. The Witcher 2 si preoccupa vigorosamente meno di “prendere per mano” il giocatore, attraverso una composizione poco guidata dell’esplorazione e delle stesse missioni. Un esempio può essere quello di “Sangue Reale”, un incarico di Vergen: il giocatore non viene dotato di un elenco di compiti da svolgere per arrivare a una soluzione certa sull’avvelenamento della Vergine dell’Aedirn, bensì gli è offerto un ventaglio di azioni che possono portare a un sospetto più o meno fondato, a cui far corrispondere una scelta basata anche e soprattutto sul suo sistema di valori. 

The Witcher 2 presenta un sistema complesso di scelte, di bivi, binari, input e output. Il più evidente di questi è, ovviamente, la biforcazione tra i sentieri Iorveth e Roche, sulla base di una decisione presa nella paludosa Flotsam; ma non è l’unico. La possibilità di decidere della sorte di Re, pogrom, destini di Stati e di amanti conferisce al gioco un mood unico, insieme a uno scenario che si apre lentamente, disegnando un manifesto di controllori e controllati che, compreso nella sua totalità, sa rapire e sorprendere a distanza di anni. Anche in questo caso, l’opera di riduzione di Wild Hunt diventa evidente dal momento in cui il finale del gioco dipende quasi interamente dal modo in cui viene trattata Ciri durante la campagna e non da ramificazioni più o meno intricate durante la main. Per non parlare della politica, letteralmente risolta in una scazzottata in un teatro.

Shaerrawedd, di Edward Barons.

Come suggerito in apertura, The Witcher 2 riesce a connettersi intimamente ai grandi temi della Saga letteraria. La citazione all’inizio del paragrafo non è casuale: il lavoro di CDProjekt deve tantissimo al substrato cartaceo de “Il Sangue degli Elfi”,da cui mutua alcuni temi chiave, quali il razzismo e la riflessione su umani e mostri. Più precisamente, il richiamo alla rosa di Shaerrawedd, meta di Ciri e Geralt nel libro, è realizzato mediante il ricorso alla rosa del ricordo, per ripristinare la memoria dello Strigo, raccolta proprio in quei bagni elfici tanto devastati dall’incuria e dal trascorrere del tempo ma ancora dotati di un’intrinseca vitalità. Lo stesso Iorveth, di passaggio su carta, trova qui nuova centralità e importanza mentre esplode il dilemma sul confine tra terrorismo e partigianeria, a seconda dell’angolo visuale adottato. E non è un caso che proprio all’elfo ribelle venga assegnata una frase chiave sul destino dell’umanità, direttamente rielaborata dalle parole di Zoltannel successivo “Battesimo del Fuoco”. L’intero impianto politico attinge a gran voce da una componente che pure è presente nella Saga letteraria, soprattutto nel soggiorno di Dijkstra a Lan Exeter e nel più famoso golpe di Thanedd, o ancora nelle mistiche riunioni tra i sovrani del nord, tenute in palazzi polverosi e freddi.

Sembra insomma che gli sceneggiatori di CDProjekt abbiano fatto propria una grande lezione concettuale di Sapkowski, considerando il mondo dove si agitano le avventure di Geralt e compagni come un gigantesco foglio bianco da riempire, in cui ambientare una storia innovativa nel contenuto ma, allo stesso tempo, connessa a quelli che sono i leitmotiv pedagogici fondamentali, tratti sia dalla riflessione dell’autore polacco che dai corsi e ricorsi storici.

Bagni elfici.

The Witcher 2 è influenzato infatti dal nostro medioevo e dall’attualità in cui viviamo: mentre ritornano in tutta la sua potenza Nilfgaard e la litigiosità dei regni settentrionali, che forse da lontano richiama l’allargamento a Ovest dell’Unione Sovietica, allo stesso modo la sommossa dei contadini di Vergen non può non strizzare l’occhio a eventi realmente accaduti nel 1300 europeo, quali la rivolta di Wat Tyler o la Jacquerie del 1358, modulandone però lo spirito e inserendo altri elementi come Saskia, che evoca altresì la figura di Giovanna d’Arco come eroina popolare nello spirito del tempo e nelle canzoni successive. La delicatezza di CDProjekt nel trattare la sommossa di Vergen è encomiabile: mai si ricade in un dualismo buoni/cattivi, ma vengono espresse in maniera dignitosa tutte le istanze sociali, la rabbia che genera barbarie, la struttura feudale della società e il rapporto tra un futuro re e i suoi sudditi.

Una concept art di The Witcher 2. Si nota chiaramente l’ispirazione: un medioevo gotico e superstizioso.

La contesa della Lormark tra Aedirn e Kaedwen, lo stato fantoccio della Dol Blathanna, la spartizione eventuale della Temeria tra Henselt e Radovid, il vertice di Loc Muinne, la guerra a bassa intensità tra le Bande Blu e gli Scoia’tael edificano un tessuto connettivo di grande impatto e immediatamente riconoscibile al giocatore per le somiglianze con eventi del Novecento, in particolare quello polacco. Episodi quali il corridoio di Danzica, la divisione della Polonia prevista e attuata dal patto Molotov-von Ribbentrop, la questione della Crimea o della Palestina sembrano aver affascinato le penne della Software House di Varsavia e inducono il fruitore alla riflessione.

The Witcher 2 è nei suoi luoghi.

Al di là delle elucubrazioni sulla natura del titolo, la magia di Assassins of Kings è nella gestione del proprio spazio ludico. Al netto di una mappa dall’estensione contenuta, gli sviluppatori di CDProjekt sono riusciti a caratterizzare in maniera eccellente i luoghi che vengono di volta in volta visitati da Geralt: questo non vale solo dal punto di vista architettonico, ma anche e soprattutto nel modo in cui i punti di interesse vengono distribuiti. Attraverso il sapiente uso di gole, sentieri stretti, cave, miniere, vegetazione e percorsi obbligati, si crea una finzione di grandezza a cui viene accoppiata la cura per i dettagli e per l’ambientazione. Anche la palette cromatica, decisamente desaturata rispetto a The Witcher 3, regala la sensazione di un mondo enorme, selvaggio, degradato, perso.

La monumentalità di Lobinden.

Sin dall’assedio al castello dei La Vallette, The Witcher 2 investe risorse nella raffigurazione di un’oscurità in divenire, resa con un linguaggio iconografico ben delineato in cui esplode la miniatura medievale, la pietra viva, il legno delle taverne, la bellezza nascosta all’interno di luoghi ormai dimenticati. Flotsam è putrida, corrotta ma circondata da una foresta monumentale in cui è possibile sentirsi smarriti e avvertirne comunque la sacralità.

I bagni elfici in cui Geralt e Triss riposano congiungendosi, prima di un tumultuoso incontro con gli Scoia’tael, richiamano un mondo antico, perfetto, con i gemiti degli amanti che si perdono tra le mura antiche. E creano una scenetta che sembra uscita direttamente dalla penna di Sapkowski, per umorismo e delicatezza. Lobinden è viva, con i suoi mostri, troll, altari, nascondigli di banditi, zoticoni che ne vivono ai margini o elfi legati intimamente ad essa. Di notte le finestre delle case illuminano fiocamente una squallida piazza dov’è stata tenuta una barbara esecuzione, mentre si organizzano bagordi e feste presso la residenza del governatore Loredo: la gestione dell’urbanistica si mischia con le caratteristiche psicologiche dei personaggi, dai bastardi ai disperati. Delle prostitute spiano ciò che accade nelle stanze delle maghe, in un bordello al secondo piano: le assi sono marcite, aprendo un buco nella parete. E nel frattempo la sapiente regia di CDProjekt rivela l’omosessualità delle due donne, con una carrellata su dei dildo primitivi che inizialmente appare umoristica ma poi emerge tragicamente nello scarto che separa la sopravvivenza e il desiderio. The Witcher 2 è sempre un po’ così, in bilico tra il tremendamente serio e il tremendamente faceto, tra il caricaturale e il drammatico.

La deprimente Flotsam si illumina al calare della notte.

Vergen invece è immaginata come una labirintica città nanica, imperniata nella roccia; CDProjekt adotta una struttura a dedalo per confondere il giocatore, dandogli l’impressione di essere in un luogo letteralmente strappato alla montagna e in cui è difficile orientarsi. Attraverso dei passi alpini si raggiungono nidi di arpia, casolari diroccati, relitti abbandonati; si esplorano altresì le viscere urbane, attraversando delle miniere sigillate dai nani per bloccare un grande male (l’ennesima citazione al Signore degli Anelli). Si respira la difficile convivenza – ancora più che a Flotsam, ma con un pizzico di speranza – tra dignitari reali e contadini, tra umani e non umani, pronta a esplodere quando finalmente vengono messe in discussione le certezze di un mondo destinato a essere sorpassato. Il disordine di Vergen diventa emblema di una forza militare disorganizzata e improvvisata, mentre si intensifica il mistero sull’avvelenamento di Saskia e l’ambiente diventa narrazione.

Al contrario, il ramo Roche condurrà Geralt all’accampamento Kaedweniano. Visivamente la struttura del campo si oppone idealmente a quella della città nanica dall’altra parte della terra maledetta, con tende e simmetrie. Anche in questo caso, la gestione delle macro-aree di CDProjekt però non tradisce, regalando molteplici punti di interesse ai confini e nel sottosuolo del forte. Anche a livello naturalistico, i dintorni dell’accampamento si distinguono spesso dai loro equivalenti cittadini mediante l’utilizzo della costa, in particolare nel luogo di esecuzione di di Sabrina Glevissig: emerge in maniera chiara la scelta dei dev di rendere altamente rigiocabile il titolo, offrendo però un’esperienza sensibilmente diversa anche da un punto di vista prettamente visivo.

Vedere la costa è una (quasi) prerogativa del ramo Roche.

Il clou di The Witcher 2 è, però, rappresentato dalla città elfica abbandonata di Loc Muinne, in cui i potenti del mondo devono ridisegnare il proprio spazio politico, una specie di Yalta in salsa witcher. L’estetica del gioco diviene addirittura mistica, spostando l’asse in maniera definitiva su una visione del fantasy tipicamente est-europea.

I colori vengono ulteriormente sfumati, a voler presagire un destino cupo; viene edificata una ragnatela fognaria al di sotto della città, accessibile da una piazza centrale dal vago sapore gotico, che funge anche da hub per commercianti e minigiochi. Loc Muinne sembra nascondere dei segreti di un tempo ancora precedente a quello elfico, risalenti ai Vran probabilmente sterminati da un’epidemia, le cui informazioni verranno recuperate da Emhyr (senza, purtroppo, un seguito narrativo in Witcher 3).

La presenza dei regnanti – Radovid di default, Henselt ed altri a seconda delle scelte del giocatore – conduce alla creazione di numerosi accampamenti, che possono essere ostili a Geralt nel caso in cui le decisioni prese lo abbiano portato in conflitto con alcune fazioni. The Witcher 2 si comporta quindi in maniera reattiva, facendo reagire il mondo di gioco a seconda del path imboccato.

Riprendendo il discorso di apertura, CDProjekt è stata brava nel costruire ogni area in modo da farla sembrare più grande di ciò che è veramente. Dal punto di vista spaziale, le macroregioni in cui è scomposta la mappa (sistema a open map) sono legate tra loro in maniera decisamente intelligente, permettendo non solo di eseguire più quest in luoghi vicini, ma allo stesso tempo di non farli percepire come tali.

In Loc Muinne si intrecciano passato e presente.

Poco sopra abbiamo parlato della missione Sangue Reale: non solo si compone di più task apparentemente indipendenti, ma è possibile svolgerle in località contigue. Queste meccaniche quality of life sono ancora una volta segnale di uno sviluppo accorto e furbo, capace anche di mascherare alcune deficienze e pattern ripetuti degli NPC, come gli elfi di pattuglia alle porte di Vergen che vanno e vengono sempre nella stessa direzione a ogni passaggio del giocatore. Piccolezze che si perdonano.

Recuperare il fantastico.

Ma non è tutto qui. Pur lavorando su un simulacro di medioevo – o, che dir si voglia, a una restituzione visiva dello stesso – CDProjekt è riuscita anche a inserire l’elemento squisitamente fantastico, in un modo che tanto ricorda quello originale di Sapkowski.

The Witcher 2 è anche e soprattutto una storia di draghi e maghe: la presenza di Saskia, figlia di Borch e ulteriore trait d’union tra carta e controller, permette di inserire una caratteristica decostruzionista ma allo stesso tempo fondamentale per un fantasy. Saskia è un drago, ma anche una donna emancipata e forte, ideologizzata al punto giusto; è un degno contraltare della figura delle maghe, che decidono di prendere in mano le redini del mondo tramite la Loggia, prima di finire in un gioco del trono più grande di loro. La scrittura dei personaggi tiene realmente in piedi lo spettacolo: doppiogiochisti, egoisti, fragili, eroi si contendono la scena, senza che le azioni siano mai banali. Tutto questo è in grado di far dimenticare a tratti anche un combat system dal feedback relativo, o una curva della difficoltà – per fortuna regolabile – inizialmente un pizzico troppo punitiva. 

Geralt medita nei pressi del campo Kaedweniano.

A risaltare, ovviamente, è la figura di Geralt come distorsione del concetto di principe, ora semplicemente un professionista, che deve cercare di far coincidere la propria vita personale, minacciata dalla perdita della memoria e da un nome macchiato per un assassinio mai compiuto, e un universo in continua espansione. Un ammazzamostri che, come nella Saga di Sapkowski, cerca di mantenersi neutrale (con buoni margini di interpretazione lasciati al giocatore, sia chiaro) rispetto al Palazzo, ma che viene continuamente condotto a gravitare tra Re e governanti con piani spregevoli o semplicemente assurdi. In tutto questo, il nostro Strigo deve pur vivere: e torna anche qui il fantastico, con i contratti inseriti all’interno di una narrazione forte, incessante. Non si avverte, al contrario di The Witcher 3, un particolare senso di urgenza che pone in contrasto la struttura ludica e le necessità dell’avatar (per approfondire: ne abbiamo parlato a lungo nell’analisi di Cyberpunk 2077).

Nonostante la ricerca di Triss e dei regicidi tecnicamente metta fretta a Geralt, c’è sempre un evento (il Kayran, il campo di battaglia maledetto, il summit) che blocca il raggiungimento dell’obiettivo, e che richiede di svolgere un numero considerevole di attività per superarlo, tra cui anche il semplice potenziamento delle abilità e dell’equipaggiamento, molto spesso addirittura reso obbligatorio (o caldamente consigliato) dall’incedere delle quest. Insomma, tutti i pezzi sono al posto giusto.

Geralt combatte con arpia, olio su tela.

Dieci anni dopo, The Witcher 2 è un gran gioco.  A tratti più complesso, coraggioso e originale del successore.

Un gioco capace di equilibrare le esigenze di un racconto nuovo al rispetto del materiale da cui trae ispirazione, in un incastro di citazionismi impliciti e rimodulazione di questioni note.
Un gioco capace di rappresentare una certa visione del medioevo e legare ad essa l’elemento del fantastico.

Un gioco che, nonostante alcune storture, peccati di gioventù e ingenuità, si lascia amare ancora.

AAS


NOTE:

1 La citazione a cui si fa riferimento è la seguente:

«Non prevedo nulla di buono per la vostra razza», disse cupo Zoltan Chivay.
«A questo mondo ogni creatura intelligente che cada in povertà, in miseria e in disgrazia è abituata a unirsi ai propri simili, perché insieme è più facile resistere ai tempi difficili, perché ci si aiuta a vicenda. Invece tra voi umani ognuno bada solo a come guadagnare sulla miseria altrui. Quando c’è una carestia non si divide il cibo, ma si mangiano i più deboli. Un procedimento del genere si riscontra fra i lupi, permette di sopravvivere agli esemplari più sani e più forti. Ma tra le razze intelligenti di solito una simile selezione permette di sopravvivere e di dominare ai peggiori figli di puttana. Traete da soli conclusioni e previsioni.»

Zoltan Chivay, il Battesimo del Fuoco.

Iorveth in The Witcher 2 dice questo. Il concetto è lo stesso. Probabilmente espresso in maniera più elegante.

I concept di The Witcher 2 sono presi da questo blog; le immagini monumentali, da questo album. Appartengono ai rispettivi autori; noi consigliamo di visitare entrambi i siti.


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Disco Elysium ovvero come ho amato la decadenza fin de siecle

Disco Elysium ovvero come ho amato la decadenza fin de siecle

  • Vincenzo Vecchio

  • 28 maggio 2021
  • noninteragire

[DISCLAIMER: questo articolo contiene anticipazioni sull’esperienza di Disco Elysium.]

Cosa penserebbe Kras Mazov, il padre della rivoluzione socialista e del materialismo storico, della misera metafora messa in scena in uno scalcinato club di lettura comunista di Revachol? Cosa penserebbe di una metafora che rappresenta la fragilità del sistema sociale tramite l’inevitabile collasso di una struttura interamente costruita con scatole di fiammiferi, costruita per noia o per divertimento nell’attesa che la prossima riunione inizi, proprio da alcuni adepti alle teorie della dottrina stessa? Penserebbe probabilmente che il fallimento della rivoluzione sia ironicamente intrinseco al percorso della storia. 

A dire il vero, questa è solo una delle possibili metafore che possono essere scovate tra le righe dell’intricato mondo in perenne conflitto sociale di Disco Elysium. Prima ed unica opera videoludica dello studio ZA/UM (scritto da Robert Kurvitz), concepita con la consapevolezza di essere il passo successivo nel genere di appartenenza. Senza disdegnare gli evidenti rimandi all’epoca d’oro dei giochi di ruolo occidentali e dell’Infinity Engine

Letture possibili

Un’ulteriore possibile lettura di Disco Elysium, è quella di un poliziotto alcolizzato all’ultimo stadio che annega nella sua stessa vergogna e nell’atroce consapevolezza della sua “ufficiale” inutilità, vera e propria nullità sociale, nella consapevolezza che la Legge a Revachol sia ormai nient’altro che un vezzo dello stato ultraliberale, a cui pochi nei quartieri poverissimi di Martinaise possono ancora permettersi il lusso di credere spontaneamente. Un poliziotto talmente sconvolto dall’alcol e dalle droghe – dopo una notte di solitario divertimento in una festa talmente privata da essere ad invito unico, ovvero se stesso – il quale cerca di distruggersi fisicamente e moralmente nel bel mezzo di un’inchiesta ufficiale, a proposito di un brutto omicidio. Anche quest’ultimo simbolo rappresenta un nichilismo sociale portato alle proprie estreme conseguenze.

Martinaise, un distretto di Revachol (o piuttosto Ravachol?), è infatti quel posto dove un cadavere rimane appeso per diversi giorni ad un albero all’interno del cortile dell’albergo di quartiere. Dove i cittadini comuni sono a proprio agio fumando una sigaretta al balcone proprio di fronte al cadavere in decomposizione, dove gli stessi cittadini non hanno nessuna repulsione a convivere con l’appeso mentre lo spogliano degli averi e dei vestiti, dove dei ragazzini giocano con il cadavere da diversi giorni. Ed infine, dove l’unico che fatica anche solo ad avvicinarsi è proprio il poliziotto stesso, bloccato fatalmente dai propri incontenibili conati di vomito. Un poliziotto ammaestrato da tanti anni di esperienza sul campo, ma che si ritrova senza risorse, colpito da un’imbarazzante amnesia che lo rende deficitario delle proprie caratteristiche analitiche, mentali, della propria autorità, che sono senza dubbio la base stessa per poter svolgere il lavoro che gli è stato affidato.

La prima spiacevole situazione.

Privati della memoria, ci si ritrova a chiedere spiegazioni ovvie di natura comune, sul passato, sulla storia, su che giorno sia in quel determinato momento se non perfino l’anno, sul posto in cui ci si trova o sulla prossima mossa da fare. Se ci sia stata la guerra e chi sia stato il vincitore. Se siete socialisti o piuttosto liberisti, se vi repellono le etnie diverse dalla vostra, se siete corrotti e corruttibili, se pensate che il male del mondo siano i grandi agglomerati industriali e finanziari. Se siete dalla parte dei vincitori o dei perdenti. Se pensate in definitiva di essere o no dalla parte giusta della storia. E se, al contrario, voleste giocare la carta dell’orgoglio e dunque non fare domande banali a sconosciuti che vi guardano come uno che dovrebbe impersonare la legge, per non scalfire l’immagine di voi stessi che faticosamente cercate di mantenere con dignità, ebbene sarete semplicemente al buio.

Ci si ritrova come l’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge, sprovvisto della benché minima volontà di affrontare un giorno di più di lavoro, di reagire ad un evento, di avere un moto di intraprendenza. Si è spaesati in un paesaggio geograficamente piatto, caotici nella riorganizzazione della propria vita e degli eventi. Per di più, accompagnati dal proprio sistema limbico – che dovrebbe in teoria garantire la vostra sopravvivenza quale valore primario – che vi invita costantemente al suicidio, e al proprio cervello rettile che predica quotidianamente la violenza come soluzione al minimo problema relazionale o anche solo lavorativo. Ma non ci si ferma qui, perché tutte le caratteristiche del personaggio interagiscono come fossero scisse dal personaggio stesso e si manifestano costantemente in un meraviglioso party da gioco di ruolo classico. Un’interessante schizofrenia, quasi un multi-personaggio non giocante, che vede la possibile malattia mentale diventare le varie parti che compongono il gruppo di cui il videogiocatore ha, più o meno, il controllo.

L’interazione di tipo testuale avviene persino con gli oggetti trovati nella mappa di gioco, colmi di dialoghi che si incastrano perfettamente con il resto della storiografia (è proprio il caso di dirlo), con le quest, i personaggi e gli eventi. È dunque una creazione del personaggio dissimulata in modo magistrale nelle maglie degli eventi, nelle domande che si riceveranno e nelle risposte che saranno date durante tutto il tempo di gioco. Se si sarà considerati fascisti, corrotti, idioti, benevoli, intelligenti o comunisti sarà solo per merito o demerito proprio. 

Il bellissimo skill set.

La storia fatta a pezzi

Nella piazza al centro di Revachol si trova un monumento equestre di gusto classico, un vecchio residuo della storia di cui nessuno conosce più il significato. La scultura fu ricucita insieme dopo che un’esplosione, durante la guerra, l’aveva fatta a pezzi. Se sia ritratto un eroe di guerra, un soldato ignoto, un intellettuale a cavallo delle sue idee, un semplice operaio o l’ultimo re (come in effetti è, si tratta di Philippe III), non ha nessuna importanza ormai. Non è un caso infatti che sia stata rappezzata a forza, lasciandola però come se fosse ancora ed eternamente esplosa in aria. Come se qualcuno avesse voluto cementificare una fotografia simbolica di quello che rappresenta oggi Revachol, dilaniata, divisa nel profondo ma tenuta insieme da sottili nervature di metallo che sanno di maldestra chirurgia d’emergenza. Revachol non è più in guerra, ma lo scontro sociale non si è mai fermato. Non si è mai firmata una tregua tra le diverse classi sociali, tanto che Martinaise è controllata dal sindacato portuale, che agisce da collante tra la popolazione, da polizia interna, da pacificatore in caso di problemi di ordine sociale, da welfare e ovviamente da organizzazione operaia. Elargisce mazzette, privilegi, progetta gli spazi cittadini e detta le regole di vita non scritte che saranno la barriera contro cui Harrier Du Bois – il poliziotto, cioè il rappresentante dell’ordine costituito, cioè la malattia mentale, cioè voi che videogiocate – si scontrerà costantemente, cercando di intaccare il guscio di incomprensione e incomunicabilità di una comunità che tende naturalmente a proteggere se stessa da un elemento di disturbo percepito come esterno

La scrittura di Disco Elysium è brillante. Le meccaniche da gioco di ruolo lo sono altrettanto, nonostante rimangano quasi invisibili al videogiocatore. La visione politica di ognuno conta, la vostra pure, i pregiudizi, l’ignoranza, le scelte affrettate, la logica mancata, l’onore e la vergogna, tutto vi viene riversato come un secchio di escrementi caldi sulla testa. E vi viene anche chiesto, gentilmente, di sorridere. Non è mica morto nessuno, in fondo.

Harrier Du Bois.

Noir e psicoanalisi

Invece sì, perché il vostro lavoro consiste proprio nel diramare la matassa in un caso di omicidio. Insieme all’assistente Kim Kitsuragi – la vostra ombra, il comune moralizzatore, il senso della misura – si dovrà risalire, come intrepidi salmoni, il torrente di menzogne e mezze verità che vi verranno addosso per dipanare il mistero dell’uomo impiccato. Ma vi accorgerete presto che l’omicidio non ha praticamente nessuna importanza. A nessuno importa del morto e in fondo nemmeno a voi. Tantomeno al morto importa più di se stesso, questo è evidente.

Lo scopo diventerà, prima di quanto si possa immaginare, inabissarvi nella vostra stessa anima, psicoanalizzando il vostro alter ego, rimanendo inesorabili con in mano un pugno di risposte senza senso e scalciando via alcuni dubbi persino su quello che pensate normalmente di voi stessi come persone. Disco Elysium è un videogioco che indaga la personalità alla stregua di un’ideologia politica. Spargendo al vento, come fossero molecole velenose, quattro diverse ideologie di cui prima o poi sarete preda: Comunismo, Fascismo, Liberismo, Moralismo (la morale considerata superiore al diritto), le quattro teorie che sono insite in uno qualsiasi dei dialoghi di Disco Elysium.

Va da sé che il percorso che si viene a delineare è suscettibile di cambiamento in base alla costruzione del personaggio. A titolo di esempio, la mia esperienza è stata piuttosto una questione di ferrea volontà, di un buon impiego di logica e di inaccettabili mancanze fisiche.

Harrier Du Bois è un poliziotto che ha perso il proprio distintivo (cioè il principio di autorità) e la propria arma (cioè la forza coercitiva). L’aver perso anche la memoria diventa quindi il giusto sotterfugio, abbastanza banale a dire il vero, per permettere ad una lavagna bianca di essere riempita. E non mancheranno di certo punti esperienza da assegnare, statistiche e gustosissimi bonus sotto forma di pensieri da sviluppare (il cosiddetto Thought Cabinet) in un dato periodo di tempo, per poter riempire a piacimento gli spazi vuoti dell’alter ego fino a trovargli una precisa collocazione sociale.

Ed è questo il punto di arrivo. Harrier Du Bois, senza il vostro imprinting mentale non riuscirebbe ad esistere in alcun modo. Non starebbe in piedi né fisicamente, a causa dei propri eccessi con l’alcol e le droghe, né mentalmente, a causa delle défaillance previste dagli sviluppatori. Un piccolo buco, costruito appositamente, dove inserire un pezzetto della vostra vera personalità. Questa è, in definitiva, l’esperienza che vuole regalare in primis Disco Elysium.

Planescape: Torment in tutta la sua bellezza.

Tutto è scritto

Tentare un’analisi di Disco Elysium vuol dire quindi sondare un universo di migliaia di parole che prima si scontrano e poi si incastrano. Di sottintesi spesso molto evidenti, ma anche di sfumature difficili da cogliere nell’immediato perché annegate in una marea di testo in cui è davvero facile perdersi. Una caratteristica questa che potrebbe essere considerata alla stregua di una logorrea descrittiva, ma che porta senza dubbio ad apprezzare un background narrativo talmente robusto e strutturato da sembrare l’opera preparatoria per un romanzo, se non addirittura il background tipico per accogliere una saga fantasy. Di fatti, molto del materiale utilizzato per scrivere Disco Elysium fu preparato proprio per un esperimento letterario di Robert Kurvitz, scrittore e co-fondatore di ZA/UM studio.

Disco Elysium è dunque a buon diritto un ibrido ben riuscito tra un romanzo e un videogioco. Anche per questi motivi la comparazione, che diversi hanno vivacemente sottolineato, con Planescape Torment è, anche a parere nostro, indovinata. 

I campi elisi possono aspettare

Planescape Torment è un videogioco del 1999, sviluppato da Black Isle Studios grazie al motore di gioco Infinity Engine e scritto dal leggendario Chris Avellone. Videogioco considerato unanimemente la più alta espressione nel genere di appartenenza, i computer role playing game.

Sono innumerevoli i chiari rimandi tra i due videogiochi: l’eroe senza nome perché amnesico. Il personaggio non giocante/spalla che conosce più cose sull’eroe dell’eroe stesso (Morte, un eccentrico teschio fluttuante in Planescape: Torment, il meticoloso e psico-rigido Kim Kitsuragi in Disco Elysium). La concezione non-lineare dello spazio/tempo (P:T. è ambientato nel multiverso di Planescape, un’ambientazione che si sviluppa quindi su diversi piani di esistenza, concepita per il gioco di ruolo da tavolo Advanced Dungeons and Dragons II° edizione, D.E. è ambientato in una fusione tra gli anni ‘70 del XIX° secolo e quelli del XX° che si potrebbe sintetizzare in: rivoluzione socialista, dopoguerra, avvento delle droghe, pessima disco music e pessimi vestiti). L’equilibrio naturale tra vita e morte, ovvero la morte di qualcuno che permette la rinascita dell’eroe (nel caso di P:T., la rinascita fisica del personaggio è consentita dalla contemporanea morte di un altro personaggio in uno dei piani del multiverso. Mentre in D.E. la faccenda è più sfumata e più terrena, un banale omicidio permette infatti all’eroe una rinascita di tipo spirituale, gli permette cioè di riprendere in mano la propria vita, quantomeno se si dimostra in grado di farlo). La base filosofica del racconto (in entrambi i videogiochi infatti la quest di fondo si può ridurre a nient’altro che “trova te stesso).

Le analogie si possono estendere anche alla costruzione tecnica del videogioco stesso. Entrambi i titoli utilizzano una visuale di tipo isometrico tipica dell’epoca d’oro dei computer role playing game. Entrambi narrano quasi esclusivamente grazie ad un semplice sistema di dialoghi a scelta multipla. Entrambi hanno un’interazione poco sviluppata o almeno tale potrebbe sembrare se comparata ad altri generi, un sistema di combattimento quasi controproducente o addirittura assente. Entrambi mostrano a schermo una quantità di linee di testo talmente prepotente da far pensare più ad un’opera scritta piuttosto che ad un videogioco. Un muro letteralmente insormontabile di testo che finirà per affaticare chiunque si metta in testa di scalarlo di buona volontà.

Non a caso, come dimostra la tesi sulla quantità elaborata nel materialismo dialettico da Friedrich Engels (nemmeno a farlo apposta) a partire da un certo numero anche la quantità diventa una qualità. Non è dunque un caso, marxisticamente parlando, che scritture così poderose portino a videogiochi dal respiro così ampio e profondo, oltre ad essere naturalmente apprezzati per tanti e diversi altri aspetti. 

Ravachol, chi altro?

François Koënigstein detto Ravachol, convinto socialista e anarchico francese, giustiziato nel 1892, simbolo stesso della rivoluzione disperata, è stato l’ispirazione per la città di Revachol in Disco Elysium. Una città, come si accennava già nel precedente articolo dedicato a questo titolo, in perenne rivolta. Rea di essersi voluta autogestire, colpevole per la propria volontà di indipendenza, una città divenuta simbolo di rivoluzione e dunque punita dalla comunità internazionale. Semi-distrutta con la forza della coercizione internazionale e dei bombardamenti democratici. La città della rivoluzione fallita, dove coesistono come fossero fuori dal tempo, vecchie glorie del passato che ricordano ancora la guerra rivoluzionaria, tecnologie poco affidabili dal gusto retro-futuristico, criminalità, alcolismo e droghe diventate vere epidemie, ideologie vecchie e nuove, medioevo e modernità, mitologia e paranormale.

Ravachol.

Un ambiente certamente ispirato alla cultura francese della Comune di Parigi, ma anche alle macerie del primo conflitto mondiale, alla rivoluzione russa, agli eccessi degli anni ‘70 del nostro novecento. Di fatti tutto il titolo rimbomba di sonorità francesi, nei nomi, nei luoghi e nell’atmosfera.

Revachol somiglia anche e soprattutto a Revanchisme, cioè spirito di rivalsa. Un atteggiamento tipico nell’opinione pubblica francese del dopoguerra franco-prussiano dovuto alla dolorosa perdita territoriale di Alsazia e Lorena. Un risentimento collettivo, una sorta di allargamento del sentimento di delusione ad un intero popolo, socialista nell’essenza e profondamente consapevole della propria identità comune ma mischiato perdipiù ad una sorta di perenne nostalgia del passato. Ognuno di questi aspetti è distillato con cura, goccia a goccia, nell’oceano fittizio in cui è immersa la costruzione di Disco Elysium. Una costruzione che sa di fine reinterpretazione e reinvenzione storica fin dalle primissime, splendide, righe di testo. E che non fa che migliorare a forza di scavare qui e là, tra la storia personale di un personaggio non giocante e la lettura di uno dei libri trovati in giro per la mappa di gioco.

La storia d’amore c’è

La storia d’amore c’è, è vero, ma è roba passata e perdipiù si confonde e diluisce ineluttabilmente con allucinazioni di tipo divino, impastate a lontani echi e ricordi di momenti felici che si trasformano prestissimo in un loop di sogni ricorrenti. Probabilmente la descrizione stessa dell’inferno. Harrier du Bois, eroe tragico e disilluso, diventa incredibilmente molle di spirito messo faccia a faccia ai suoi personali e tormentati ricordi.

La sua donna l’ha abbandonato. Una circostanza maledettamente infausta e banale. La storia inizia a diventare abbastanza chiara dopo una pietosa telefonata che sembrerebbe intercontinentale, dove il nostro devastato alter ego, biascica nonsensi e richieste ad una donna fredda, cattiva e idealizzata che lo tratta quasi con disprezzo. Harrier du Bois assume nel suo inconscio, ormai completamente in preda alla confusione, una divinità e la sua ex compagna, fuse entrambe in una singola figura mistica che ricorda più la concezione dantesca della donna, eterea, virtuosa e luminosa, piuttosto che la donna rivoluzionaria o la femminista arrabbiata degli anni settanta. Un errore di giudizio grossolano e fatale per Harrier du Bois. Una volta visto questo, ecco che si capisce subito il punto di rottura del personaggio. Un maldestro tentativo di rimettere insieme i cocci di un vaso rotto. Ancora una volta, una metafora immensa ed esaustiva dell’illusione umana, dell’interpretazione della realtà attraverso i propri bias cognitivi, della vita di Harrier du Bois, di Revachol, di Disco Elysium.

Harrier du Bois contempla il divino, è amore anche quello in fondo.

Il cattivo è un eroe

In ultima analisi, è difficile non pronunciarsi sul cattivo di Disco Elysium. L’unico responsabile dell’omicidio a sangue freddo del mercenario di cui Harrier du Bois è incaricato di risolvere il caso. Senza soffermarsi sui dettagli degli eventi, è utile in questo caso analizzare la figura in sé dell’omicida. Un vecchio, malandato, incattivito, nostalgico, che si nasconde da anni – dalla fine della guerra in effetti – e rifugge il ritorno in società. 

Anche qui, è difficile non notare l’aderenza del personaggio con l’incredibile storia di Hiroo Onoda (o di Teruo Nakamura), ultimo giapponese, o tra gli ultimi, ad arrendersi ai nemici della seconda guerra mondiale ben trent’anni dopo la dichiarazione ufficiale di resa del Giappone. Onoda fu ritrovato in una giungla filippina nel 1974 e rifiutava di credere che la guerra fosse finita

Iosef Lilianovich Dros, questo il nome del nostro omicida in cattività, prova disprezzo per il mondo attuale, per la modernità, per la rivoluzione fallita. Come il vecchio giapponese nella giungla, rifiuta il fallimento del progetto storico che era stato lo scopo della sua vita. Quello per cui aveva combattuto. E l’unico contatto con la società odierna non è altro che il mirino del suo vecchio fucile rivoluzionario, con cui scruta, interpreta e maledice la modernità.

Fin

Disco Elysium è in definitiva un esperimento di riscrittura della storia. A post soviet french island colony, ha scritto qualcuno su internet. Una frase che in estrema sintesi raccoglie, in tre o quattro parole, l’essenza stessa della concezione del background narrativo del videogioco. Un meraviglioso esperimento. 

VV


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