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Tag: Hideaki Anno

The Stanley Parable, il Sein-zum-Tode di Davey Wreden

The Stanley Parable, il Sein-zum-Tode di Davey Wreden

  • Edoardo Fumo

  • 18 novembre 2022
  • noninteragire

Quante volte accade che le cose platealmente manifeste non siano viste? Perché si tende a cercare significati reconditi quando la chiave interpretativa è già evidente? The Stanley Parable: Ultra Deluxe è il tentativo decennale di un uomo, di un artista, di superare i limiti di un linguaggio.
Sacrificandosi per lasciare un’eredità e per rispondere a una domanda: si può essere davvero?

Source

Anno 2011. Il ventiduenne Davey Wreden pubblica una mod per Half Life 2 intitolata The Stanley Parable. È un esperimento finemente goliardico dove, in poco più di un’ora, viene utilizzato il genere allora molto in voga degli FPS per creare un’esperienza esclusivamente narrativa. Il fulcro del racconto è la storia di Stanley, un impiegato trovatosi improvvisamente da solo nella sua azienda. Unico suo compagno un onnipresente “Narratore”, un Virgilio che è alternativamente antagonista, guida, commentatore metafisico capace di rompere la quarta parete1. La mod ha una risonanza mediatica immediata, parecchie testate dell’epoca ne intuiscono l’acume e il passaparola fa il resto, facendola scaricare da novantamila persone in poche ore.

The Stanley Parable, 2011.

Anno 2013. Con la collaborazione del programmatore William Pugh, esperto del motore grafico Source, The Stanley Parable esce in versione commerciale. Il gioco assume la sua estetica definitiva, così anonima e disumanizzata da diventare iconica (tanto da ispirare a distanza di dieci anni prodotti come la serie televisiva di Apple TV Severance2) e da divertissement postmoderno si modifica in qualcos’altro.

Il Teatro

L’incipit è lo stesso: Stanley, in attesa di svolgere il suo lavoro ripetitivo e, accortosi di essere completamente solo, da spettatore diventa attore: sarà, cioè, controllato dal giocatore e seguito dal Narratore in ogni sua azione.

I ruoli diventano presto sfumati e si notano i primi accenni di rottura nel proceduralismo di Alexander R. Galloway, piccole brecce che conducono a una fondamentale riflessione sull’esistenzialismo.
Galloway, nel suo “Gaming: Essays on Algorithmic Culture”, divide l’azione di un videogioco in compartimenti precisi3. Il fruitore compierà azioni nel modo più naturale possibile secondo il contesto creato dagli autori: tirerà leve, aprirà porte, salirà scale secondo le regole del mondo finzionale in cui si trova, diegeticamente. Eppure, avrà anche interazioni con menu, interfacce, indicatori extra-diegetici che lo renderanno consapevole di trovarsi in un’interpretazione di una realtà.

The Stanley Parable va oltre questo concetto già dalla sua presentazione: ci pone nei panni di un personaggio che preme dei tasti senza sapere perché, semplicemente per “esistere”. Il movimento iniziale della cinematica parte da lontano, mostrandoci Stanley e una sezione del suo ufficio, per poi farci entrare nella sua testa spostando la visuale in prima persona e sostituendoci di fatto a lui. Viviamo direttamente il suo punto di vista, in quanto anche i giocatori, in quel momento, sono di fronte allo schermo di un computer in attesa di un comando, di un input che indichi quali bottoni premere per dimostrare di essere reali.

Ma si può essere davvero reali in una storia scritta da altri? Da qui emerge la natura fortemente teatrale, ispirata tanto dal “teatro nel teatro” pirandelliano quanto dallo psicodramma di Jacob Davi Moreno e dal “teatro dell’assurdo” di Samuel Beckett.

Wreden mostra il dietro le quinte di un videogioco, ne visitiamo sezioni ancora in costruzione come quando in “Ciascuno a suo modo” (Pirandello, 1924) gli attori, a sipario calato, discutono nel foyer e nei corridoi del teatro cosa hanno appena visto e, nella continua finzione dei ruoli, diventano ora critici, ora giornalisti, ora protagonisti di una vicenda ispirata a fatti realmente accaduti. Si può decidere anche di restare immobili, con tanto di Narratore incalzante e dubbioso sull’identità di Stanley, quasi timoroso di dover affrontare non un personaggio scriptato ma una persona che potrebbe diventare variabile ingestibile, rafforzando così il legame tra avatar e giocatore ma subdolamente costringendolo in una struttura narrativa da cui non può fuggire.

L’Ontologia

[DISCLAIMER: da qui in poi seguiranno SPOILER]

The Stanley Parable è quindi un gioco che riflette su se stesso e su come l’utente ne fruisca, sul modo in cui si possa cercare la trascendenza come “essere”, in un microcosmo costruito dove tutte le scelte sono già decise ma che esistono solo tramite il nostro intervento.
Il momento più significativo di questo discorso si raggiunge, probabilmente, in uno specifico finale.

Se si disobbedisce costantemente al Narratore saremo portati in una stanza e sottoposti a delle prove per capire, rompendo la quarta parete, dove il gioco non stia funzionando. A un tratto bisognerà evitare, ovviamente previa la pressione di un bottone, che il cartonato di un bambino in fasce finisca tra le fiamme. Compito non piacevole, dati il pianto assordante del piccolo e il tempo che dovremo investire per salvarlo. Il Narratore ci presenta la sezione come:

[…] un gioco ricco di significati – rappresenta quanto disperato e tedioso sia confrontarsi con le infinite richieste della vita familiare. Non passerà sicuramente inosservato al mondo dell’arte. Ma, ovviamente, il messaggio del gioco diventa chiaro solo dopo averlo giocato per quattro ore. Per cui dovrai giocarci per quattro ore per comprendere appieno il suo significato.

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Continuando stoicamente per due ore questo topos del salvataggio dell’innocente, subiremo ulteriori commenti, anche piccati, riguardanti l’eventuale uso di qualche script per premere automaticamente i pulsanti sottolineando che se così fosse si toglierebbe tutta l’arte dal gioco stesso. La ripetizione del gesto porta inevitabilmente all’esistenzialismo, in una sorta di crasi tra quello di Kierkegaard e quello di Heidegger dove, per dimostrare di essere, l’uomo deve cercare costantemente la propria autenticità nella ripetizione.

Per il primo ciò può avvenire solo attraverso il suo rapporto con Dio, in questo caso assimilabile alla figura di Autore/Narratore. Sul secondo ci arriveremo in seguito, ne avremo sprazzi nello stesso segmento ma sarà approfondito davvero solo nove anni dopo, nel 2022.

Terminato questo compito viene inserita un’altra variabile, un cartonato di un cucciolo di cane che lentamente sta cadendo in vasca piena di piranha, e il tutto sarà introdotto da queste parole:

Sei qui per il gioco! Per l’arte! per l’infinito senso vertiginoso di inutilità e disperazione! Sì, questo è ciò che guida ogni tua azione! Continua a fare clic su quel pulsante! Per la speranza! Per la libertà! Per la scienza! Per amore! Non fermarti mai, mai! Eccoci Stanley, è arte! Ce l’ho fatta! I videogiochi sono arte! Ah, ma hai almeno altre due ore per finire, quindi ti lascio al tuo compito.

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Arrivati quasi alla fine di questa estenuante maratona, saremo pronti per l’immortalità spirituale.

[…] la trascendenza e l’unità con la bellezza e l’essenza di tutte le cose? Solo pochi secondi, eccola che arriva.

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Uno stacco repentino ci porterà in un ambente vuoto, occupato solo da un monolite nero presentato come la ”essenza dell’arte divina” e che, quando moriremo, trasporterà personalmente il nostro spirito in un giardino costruito dalle emozioni di un fiore. Lì potremmo vivere insieme, ballare e mangiare e peccare, facendo improvvisazioni teatrali e, quindi, psicodrammi, basate però su suoi suggerimenti per tutta l’eternità. Ecco di nuovo l’ontologico, ecco di nuovo il confronto del non poter essere, se non in una gabbia decisa da qualcuno di superiore.

Wreden si chiede quindi se i videogiochi, con la loro volontà di rappresentazione di potenza, non siano altro che un premere in modo costante dei pulsanti per avere l’illusione di essere. Questa si può chiamare arte o, per utilizzare un termine che erroneamente l’ha sostituita in termini recenti, capolavoro? Non siamo in realtà solo degli impiegati chiamati a ripetere sempre la stessa azione in contesti diversi per darci l’illusione di aver appreso qualcosa di più su di noi? Forse no, ma trasformare questo concetto in performance crea un cortocircuito e trasforma The Stanley Parable stesso in arte.

Il gioco è un successo di critica e pubblico ma non come l’autore probabilmente si aspettava. Si era nel boom dei primi influencer su Youtube e per i format dell’epoca The Stanley Parable era perfetto. Permetteva di montare clip di pochi minuti ma questo portava due problemi: il disvelamento dell’aspetto meta del gioco e il fatto che venisse ridotto prosaicamente a parodia, concentrandosi solo sull’aspetto weird e non sui sottotesti pur ben evidenti. 

Excursus: The Beginner’s Guide

Anno 2015. Wreden, continuando la sua ricerca su cosa sia arte, rilascia The Beginner’s Guide, un “mockugame” dove invita i giocatori a seguirlo nella scoperta di un misterioso programmatore chiamato Coda, conosciuto a una Game Jam qualche anno prima e che, per sua stessa ammissione, ha influenzato molto il suo lavoro. Questa volta è proprio lui il Narratore che accompagna i fruitori in una serie di demo mai rilasciate chiedendo a se stesso e agli altri, con tanto di indirizzo email comunicato dopo il primo livello per discuterne insieme, se sia possibile ricostruire la personalità di un individuo solo tramite questi frammenti.

The Beginner’s Guide, 2015.

Come in The Stanley Parable, anche qui si vede il dietro le quinte, si attraversano spezzoni di giochi incompleti utilizzando glitch e modifiche ad hoc per scavare nel codice e trovare un significato.  Questo fino a quando, superando ostacoli quali labirinti invisibili, porte invalicabili o navigando nei sottomappa non si giunge ad un messaggio lasciato da Coda personalmente a Wreden, in cui viene ringraziato per l’interesse ma anche accusato di aver voluto, per un bisogno personale, attribuire a delle opere non sue dei simbolismi e delle sovra-interpretazioni improprie, commettendo di fatto l’errore che i critici avevano compiuto con i giudizi su The Stanley Parable. Il tutto per colmare il bisogno di trovare sollievo dalla crisi emotiva e creativa in cui si trovava in quel momento. 

Durante l’epilogo, Wreden ammette di avere problemi di validazione sociale e di “Sindrome dell’Impostore” e decide di farsi da parte, facendo concludere lo stralcio finale senza nessun commento, ormai sopraffatto dal tormento che lo ha investito e dall’accettazione di aver coinvolto un’altra persona in qualcosa che non voleva, solo per sentirsi partecipe e vivo.

Unity

Anno 2022. Dopo una campagna pubblicitaria cominciata nel 2018 – e che meriterebbe un approfondimento a parte – esce, per la prima volta su tutte le piattaforme e non solo su PC, una versione riveduta e ampliata di The Stanley Parable chiamata Ultra Deluxe.

Come pochi autori di videogiochi prima di lui Wreden riesce a ingannare il pubblico sui suoi reali scopi. Perché sì, The Stanley Parable: Ultra Deluxe è effettivamente quello che il marketing ha fatto credere fino al momento della sua pubblicazione, ma in realtà è molto altro. Già dall’inizio i conoscitori del gioco originale troveranno alcuni elementi, apparentemente innocui, che presagiscono un ulteriore livello di interazione, genialmente nascosti nei menu di calibrazione. I quali assurgono, di fatto, al compito di fondere il diegetico con l’extra diegetico, portando a termine un lavoro iniziato anni prima. Tali menu diventano, a ogni riavvio, sempre più bizzarri, fino a trasformarsi da semplici aggiustamenti di luminosità e orario in una sorta di dialogo con l’autore.

Si ha la possibilità di rigiocare interamente l’originale, anche per permettere ai neofiti di apprenderne le meccaniche, fino a quando non si sbloccherà il tanto famigerato “nuovo contenuto”. Nuovo contenuto dove, restando fedele al precedente lavoro di decostruzione, verranno messe alla berlina tutte le contraddizioni e le evoluzioni che il videogioco, ma anche l’industria dell’intrattenimento tutta, ha avuto dal 2011 a oggi.

Non si tratta però di gatekeeping o di nostalgia dei bei vecchi tempi, anzi. Nonostante l’umorismo caustico su come una riedizione non sia che un modo spesso utilizzato per aggiungere delle sciocchezze marginali atte solo ad appropriarsi del tempo (e dei soldi) di chi ne fruisce, la svolta vera e propria si ha proprio quando si guarda al passato ed è lì che Wreden si fa carne, si mostra reale e affronta a viso aperto i suoi demoni.

Il Narratore, rimasto deluso dalla pochezza delle nuove idee, ci porta nel suo rifugio che lui chiama la “Zona dei Ricordi” dove rivivere tutti i gloriosi momenti del passato. In questo luogo, una baita situata in un paesaggio bucolico, si ritroveranno le reali recensioni positive e i premi ricevuti dal gioco nel corso negli anni fino a giungere a una zona abbandonata, una discarica, dove sono nascosti i pareri negativi degli utenti lasciati su Steam. Questo lo porterà a commettere l’errore di dare ragione ai suoi detrattori (vero Mass Effect 3?) e a effettuare modifiche inutili che renderanno sì il giocatore libero come desidera, ma in un ambiente desolato e distrutto.

The Stanley Parable 2 (e 3, 4, 5…)

Non arrendendosi all’evidenza, perché “lo spettacolo deve continuare”, il Narratore decide di “propria” iniziativa di attuare un massiccio rebranding di The Stanley Parable, trasformandolo all’atto pratico in un secondo capitolo con tanto di nuova introduzione, inserendo elementi completamente slegati dal contesto originario solo per accalappiare nuova utenza. È il momento in cui Wreden si scatena e satiricamente si scrolla di dosso la sua ansia sociale, il suo dover piacere a tutti i costi, manifestando quanta sofferenza abbia dovuto processare per il suo essere stato osannato per i motivi sbagliati.

Se volessimo fare un parallelismo con un’opera pop recente la cosa che più gli si avvicina è “Rebuild of Evangelion” di Anno Hideaki. Le reazioni e la misinterpretazione da parte del loro pubblico sono identiche. Entrambi gli autori riprendono gli stilemi che li hanno resi famosi e li sovvertono mettendosi completamente a nudo, nella speranza di far passare il loro messaggio originale.

La similitudine è ancora più evidente nel vero epilogo, sbloccabile solo dopo aver provato le fallimentari nuove meccaniche create per far felici i fan. Accedendo nella parte finale a un terminale si avrà un ultimo scambio con Wreden, scambio che introduce diversi livelli di analisi oltre a richiamare direttamente Coda dal suo gioco precedente.

[…] È bello vederti. Ma è terribile sapere che non ci sarà mai un altro The Stanley Parable. Hai letto cos’hanno detto gli sviluppatori?? “Preservare l’integrità del franchise”?! Che assurdità!
The Stanley Parable non è sacro, non dobbiamo proteggerlo. Al diavolo l’eredità! Creiamo altri Stanley Parable finché non esplode il sole!
Buttiamo questo titolo per terra, trasciniamolo nel fango, sporchiamolo. E se alla gente non piace? Chi se ne frega? Vedi, era quello il problema del Narratore. Lui era ossessionato da quello che pensava la gente del suo lavoro. Non fare il suo errore. Non aggrapparti all’eredità. Lasciala bruciare. Non è difficile. Anzi, ti faccio vedere. Insieme faremo The Stanley Parable 3. È semplice, dobbiamo solo cambiare il numero nella schermata del titolo. Ci serve anche un sottotitolo davvero stupido per il gioco, qualcosa di chiassoso e pacchiano
The Stanley Parable non può finire. Può solo svilupparsi a spirale su sé stesso, per sempre. Devo continuare a far girare la ruota. Io sono pronto, e tu?

Davey Wreden (ma anche Hegel).

Con queste parole l’artista distrugge la sacralità della sua opera, una sacralità mai ricercata e che altri gli hanno imposto. Wreden si sacrifica, chiarendoci una volta per tutte che non c’è uscita da The Stanley Parable se non smettendo di giocare e cominciare a vivere la propria vita. Perché, ed è qui che ritorna prepotentemente Heidegger: basta esserci per diventare coscienza trascendentale in grado di progettare il proprio mondo, ben consci di avere una finitezza sancita solo dalla morte. Insomma, l’immanenza.

E chi vuol capire capisca.

Con la stoccata finale di poter considerare il gioco completato nella sua interezza solo non giocandoci per dieci anni, Wreden non fa che rimarcare ancora di più la necessità di non dover esistere esclusivamente per premere dei bottoni decisi da qualcun altro, ma che la salvezza possa avvenire tramite techne e cioè attraverso la creazione di una propria arte che dia un senso a ognuno di noi.

Questo sacrificio, come le parabole prevedono, è un insegnamento. Balliamo, beviamo e pecchiamo, esperendo solo attraverso noi stessi senza imporre ad altri il nostro vissuto e ciò che ci rende essere.

Sein-zum-Tode. Essere-per-la-morte, Davey.

EF


NOTE:

1 Come il modello descritto da Tzvetan Todorov nel suo “Poetica della prosa. Le leggi del racconto” (Milano, Bompiani, 1995)

2“Erickson’s various influences speak to the show’s premise of a workplace keeping dark secrets: films like The Truman Show, Office Space, Brazil, the video game The Stanley Parable, and the Dilbert comic strips.” Eric Francisco, Severance reveals the “scary” and “surreal” underbelly of office work in 2022, (Inverse 2022)

3“Video games are actions. Let this be word one for video game theory…. Consider the form differences between video games and other media: […] One plays a game. And the software runs. The operator and the machine play the video game together, step by step, move by move…. The video game, like the computer, [is] an action-based medium.” Alexander R. Galloway, Gaming: Essays on Algorithmic Culture (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2006)          


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Oltre Evangelion c’è Love & Pop

Oltre Evangelion c’è Love & Pop

  • Alfredo Savy

  • 29 settembre 2021
  • nonguardare

L’anno è il 1997, il giorno il 19 luglio, un placido sabato d’estate. La giovanissima studentessa Hiromi Yoshii (Asumi Miwa) si sveglia in un piccolo appartamento a Tokyo, dove vive con la sua famiglia. Hiromi è ignara della giornata che sta per iniziare. Andrà a Shibuya, dove incontrerà le sue amiche; ed è in quel quartiere che Love & Pop, adattamento cinematografico del racconto Topaz II (Ryū Murakami, 1996), troverà centralità.

Qualche informazione didascalica. Love & Pop è il primo lungometraggio non animato di Hideaki Anno (Gunbuster, Neon Genesis Evangelion, Shin Godzilla). Uscito nel 1998, rappresenta un tassello fondamentale nel percorso di crescita personale del regista giapponese e, allo stesso tempo, ne conferma il marchio di fabbrica. Infatti, partendo dal cosiddetto enjo-kōsai, un fenomeno sociale nipponico della seconda metà degli anni Novanta, Anno è capace di intrecciarsi continuamente con un discorso orizzontale cucito sin dall’inizio della sua carriera e imperniato attorno ai temi dell’incomunicabilità, dell’escapismo e dell’esistenzialismo, al cospetto di crisi individuali e collettive.

Hideaki Anno (al centro). Da sinistra verso destra: Kirari Toyomoto, Yukie Nakama, Asumi Miwa, Hirono Kudo.

Ma andiamo con ordine e torniamo all’enjo-kōsai. Lasciando perdere il manierismo definitorio, parliamo sostanzialmente di prostituzione minorile, praticata spesso da studentesse per poter acquistare beni di consumo e concedersi sfizi vari. Il contesto, ancora una volta, è importante. Siamo nel 1997, in pieno “decennio perduto”: a causa di una profonda contrazione economica, il Giappone ha subito delle grosse ripercussioni sul piano sociale, generando un’umanità crepuscolare e decadente. L’opera – nel termine più vasto possibile – di Hideaki Anno si rivolge proprio all’analisi delle ricadute emotive del periodo sulle fasce più sensibili della popolazione (adolescenti e giovani adulti), a cui lui forse sentiva di appartenere. 

Probabilmente Anno all’epoca non poteva sapere che il senso di instabilità e distacco si sarebbe acutizzato e di lì a poco esploso nell’intero Occidente, rendendo il suo linguaggio universale e apprezzato, quale manifesto non solo di una fascia anagrafica specifica – che arrivava fino agli allora trentenni giapponesi – ma di una generalità di persone. In effetti, la capacità del racconto di Anno di comunicare agli ultimi e di descriverne con minuziosità sensazioni e sentimenti lo rende un autore fondamentale; e Love & Pop si innesta perfettamente nel solco della sua produzione.

Love & Pop tra forma e sostanza

Torniamo alle vicende della nostra Hiromi. Per raccontarle, Hideaki Anno sceglie di impostare il racconto per immagini in maniera particolare: l’intero film è ripreso con delle telecamere digitali portatili, che danno a tratti l’impressione di una falsa amatorialità, sentendosi quasi vicini a un mockumentary nelle fasi più strettamente dialogiche della pellicola. Lo spettatore non si pone come elemento neutro e distaccato ma, nelle intenzioni del regista, sembra quasi un personaggio centrale e fisicamente presente nello svolgimento dei fatti, il cui punto di vista spesso viene sovrapposto a quello di Hiromi, soprattutto nei momenti chiave.

Un esempio è quello della violenza sfiorata nell’Hotel, vero climax di Love & Pop. Qui gli accadimenti vengono proposti in prima persona, facendo combaciare la prospettiva di Hiromi con quella dello spettatore, e dunque rivolgendosi direttamente a quest’ultimo, che si suppone possa essere invischiato in un’equivalente spirale degradante. In altri casi, Anno lavora invece sull’aspect ratio, variandolo a seconda delle esigenze comunicative, passando dal 4:3 al widescreen nei momenti più squisitamente riflessivi del film; o, ancora, utilizza il grandangolo e posizioni particolari della macchina per le sottolineature del caso.

1. Tokyo viene presentata come immersa nel deprimente e grigio cemento armato.

Tutta questa forma è messa al servizio di una sostanza che si potrebbe definire quasi neorealistica. L’enjo-kōsai trova come cuore pulsante il quartiere di Shibuya, uno dei più rappresentativi della capitale giapponese. Questa volta, l’occhio cinematografico ce lo restituisce non come un centro dinamico e culturale di un paese moderno, ma come un susseguirsi continuo di grigiore del cemento, apatia, spazi senza identità. Azzardando un paragone forte, queste anime perse che vagano in un centro commerciale alla ricerca di un senso perduto in un anello o in un costume da bagno ricordano vagamente i loro corrispettivi tedeschi di “Noi, ragazzi dello zoo di Berlino”, con l’oggetto che ha funzione di distogliere dal malessere sociale, riempiendo di significato ciò che in quel momento non ne ha.

In effetti, Love & Pop è un film sulle pulsioni. Ciò che spinge Hiromi verso l’anello è il desiderio di colmare istantaneamente una mancanza di prospettiva a lungo termine, dandosi un obiettivo alla portata per gestire la difficoltà del passaggio del tempo. Hiromi è l’anello; tutto quello che serve per colmare la distanza è solo un gesto di concessione, che in effetti lei elabora nel corso di un’unica giornata. 

2. La prospettiva è quella dell’anello, realizzata con il fish-eye.

Dicevamo poco sopra della spirale. Organizzata la struttura del film come un girone dantesco, in cui ci si immerge sempre di più nell’oscurità, gli incontri di Hiromi saranno simbolicamente sette. Iniziano in una cabina telefonica, con la giovane che prende appuntamento senza però rispettarlo; continuano in un ristorante, in un’abitazione privata, al karaoke, in videoteca, in un love motel e, infine, in una caffetteria. Passo dopo passo, la ragazza riduce le proprie resistenze, passando dal non presentarsi all’offrire sesso a pagamento. E non è un caso che, a chiudere il cerchio, ci sia la restituzione del telefono cellulare – vero e proprio strumento di perdizione – allo stesso uomo cui era stata negata la presenza fisica inizialmente. Il primo della lista, in un misto di casualità e metafore.

Grande importanza rivestono i tre incontri centrali, in cui è il cibo a essere posto in risalto. Anche in questo caso, c’è una discesa: ci si muove da un pranzo offerto in un ristorante a uno cucinato in casa, fino al karaoke come esperienza di gruppo, momento in cui le studentesse lasciano all’uomo un chicco d’uva masticato; non solo quindi prendono, ma danno, con la frutta schiacciata che assurge al ruolo di gusto dell’altro. L’ambiente diventa sempre più privato e viene evidenziato il collegamento tra la sessualità e il mangiare, entrambi come atti del corpo e bisogni primari. E si torna quindi alla pulsione, e alla condivisione della pulsione come atto intimo. La sacralità violata del pasto non è che l’anticamera della prostituzione.

3-4. La condivisione del cibo mima la sfera sessuale.

La regia di Anno rende visivamente questo paradigma attraverso la ripresa dei dettagli fisici durante i pasti, concentrandosi sulle gambe o le calze di Hiromi e compagne. Sono sotto lo stesso tavolo dei loro clienti, vicini, in posizioni rilassate e in una tensione costante alla soddisfazione del bisogno altrui, dipinte plasticamente attraverso inquadrature pruriginose.

Di affinità e divergenze tra Love & Pop ed Evangelion

[DISCLAIMER: SONO PRESENTI SPOILER DI NGE E REBUILD]

Il primo elemento simbolico che lega Love & Pop ed Evangelion è rappresentato sicuramente dall’immagine del treno, presente in diverse fasi del film. Il padre di Hiromi è intento a costruire un plastico sin dal primo momento della giornata, riversando tutte le attenzioni su quest’attività tanto da non rispondere alla chiamata della figlia; Hiromi incontra il suo ultimo cliente presso un cavalcavia di una stazione ferroviaria, un altro nel sottopassaggio della metropolitana; il film accoglie dei momenti metanarrativi in cui un carrello viene fatto correre nel set cinematografico spoglio, passando tra le gambe delle ragazze e rassomigliando quindi a una locomotiva sui binari. In Evangelion, i momenti maggiormente introspettivi sono spesso visualizzati all’interno di un vagone, in cui l’io del presente si scontra, visivamente, con i conflitti passati, propri e altrui.

Binari e treni vengono immediatamente identificati nel tema del viaggio. Al contrario del trasporto aereo, navale o su strada, quello su rotaia manca però di arbitrio: può andare su e giù, ma muovendosi in un percorso già individuato. Quindi, è predeterminato e comune: tutti ci muoviamo verso certe mete, ma spesso non riusciamo a condividerci durante il percorso.

Insomma, è una metafora della vita e dell’incomunicabilità di chi si muove attraverso essa. Alla luce di ciò, la figura paterna di Hiromi appare concentrata su un simulacro personale di esistenza (il plastico, appunto), totalmente distaccato e insensibile al momento di crescita della figlia. L’incontro tra cliente e prostituta avviene fuori dai binari, in entrambi i casi. Il carrello che si muove tra le gambe delle ragazze non è altro che la restituzione iconografica della vita che perde di significato, sfuggendo dalla disponibilità personale (e diventando quindi finzione).

5. Il papà di Hiromi costruisce un plastico, Shinji aspetta alla stazione ferroviaria.

In un certo senso, il fatto che la conclusione di Evangelion 3.0+1.0 abbia luogo in una stazione ferroviaria, alla luce della presenza di questo tema in una parte consistente della filmografia di Anno, può avere un significato che va oltre quello della rinuncia all’escapismo, e all’ossessione degli appassionati verso Evangelion stesso. È un riappropriarsi della propria vita, fuori anche dai binari che l’autore aveva previsto per il suo spettatore, che quindi torna a guadagnare interezza dopo un percorso condiviso. Shinji non prende il treno, ma lascia la stazione.

Un altro elemento ricorsivo tra Evangelion e Love & Pop è rappresentato dalle mani. Le mani come strumento di connessione per eccellenza, prima parte del corpo altrui che si conosce. Mani sporche di sangue, mani che si toccano, mani che feriscono. A Hiromi non piacciono le proprie mani, e spende parte dei soldi guadagnati con la prostituzione per una manicure. Per presentarsi meglio agli altri. E, in entrambe le opere, sono feticcio sessuale.

6. Binari e finzioni.

La famosa scena di End of Evangelion (1997) in cui Shinji si masturba davanti a una comatosa Asuka è rielaborata in Love & Pop l’anno successivo. Sebbene dal punto di vista visivo le due sequenze siano gemelle, la chiave di lettura è invece opposta: in Love & Pop, Hiromi è forzata all’erotismo dell’altro, in End of Evangelion Shinji compie autoerotismo sull’altro. L’immagine delle mani inondate di liquido seminale ha un valore quindi speculare, quello di violenza subita e violenza prodotta. In questo modo, Hideaki Anno chiude un cerchio che va oltre i concetti espressi nelle singole pellicole.

L’ultimo aspetto di convergenza tra Love & Pop ed Evangelion è sicuramente quello relativo alla scarsa reattività della famiglia e del ruolo dei genitori nell’assorbire le nevrosi dettate dal cambiamento della società intorno al nucleo della stessa. I ragazzi, ovviamente, sono molto più sensibili alla percezione del mutamento delle cose; e, in questo senso, l’immobilismo di tali figure, quelle di riferimento per eccellenza, risulta in un’incomunicabilità di fatto tra le generazioni.

Più che identificarlo nel rapporto tra Shinji e Gendo, che non hanno reali momenti di condivisione degli spazi abitativi, in Evangelion questa dimensione è realizzata dalla relazione tra Misato e il pilota dell’EVA-01. 

7. Violenti, seminali, parallelismi.

Misato è una distorsione della madre, inadatta a difendere il proprio bambino perché bloccata in una dimensione egoriferita e determinata dal rapporto disfunzionale con il padre. E quindi gli usa violenza e arriva – secondo l’interpretazione freudiana di alcuni – addirittura a offrirgli sesso per confortarlo: gli unici modi educativi e comunicativi che conosce.

In Love & Pop questo conflitto è plasticamente descritto dalla staticità della casa: Hiromi, tornando al suo appartamento, trova i suoi coinquilini intenti a svolgere le medesime attività del mattino. Compresa la sorella, che sembra non aver cambiato nemmeno posizione.
E dunque non le resta altro che rifugiarsi nella sua stanza, venendo a patti con la giornata appena vissuta.

Rapporti di genere, rapporti di forza

Tu credi che a nessuno importi se sei nuda. Giusto? Sbagliato! Qualcuno sta male di brutto mentre tu sei nuda per qualcun altro.

Captain EO a Hiromi, al Love Hotel.

Love & Pop ha anche il merito di aprire uno squarcio sulla posizione della donna nella società, offrendo spunti che vanno oltre il perimetro giapponese. Hideaki Anno, da sempre poeta del decennio perduto nipponico, si concentra volutamente sul tema della prostituzione femminile minorile per abbozzare un disegno più ampio; come in ogni crisi economica e sociale della modernità, a pagare uno scotto maggiore è la popolazione femminile. Pertanto l’impatto di una depressione finanziaria è tanto più alto quanto più degrada la condizione delle giovani, vera cartina tornasole.

La raffigurazione degli uomini in Love & Pop è grottesca e caricaturale: vengono dipinti attraverso dei canoni tipici dei personaggi anime, rendendoli stilizzati anche nella gestualità. Abbiamo quindi dei kamidere, uomini d’affari che si sentono nella posizione di elargire consigli a delle studentesse “dell’età della propria figlia” dopo averle pagate per un pranzo; degli yandere, come Captain EO (Tadanobu Asano) che nasconde una vena violenta sotto un’apparente calma e fragilità.

8. Anno utilizza la prima persona nella scena clou al Love Hotel.

Al contrario, l’universo femminile appare complesso e multiforme, con un’apparente nota di nostalgia (l’uso della macchina fotografica di Hiromi per immortalare il passaggio del tempo e cristallizzarlo ne è l’esempio); ma, soprattutto, completamente asservito agli insegnamenti dell’altro sesso. Anche quello di Captain EO con cui si apre questo paragrafo, d’altronde, risulta fortemente legato a una dimensione maschilista e oggettivante delle donne, che non sarebbero libere di determinarsi – a margine di ogni riflessione sulla pratica stessa – perché esiste qualcun altro che ne soffrirebbe. E così rimarrebbero bloccate nella non invidiabile condizione di essere sia l’oggetto del desiderio e della perversione che di subire lo stigma sociale nel caso decidessero di assecondarlo per motivi futili. 

Insomma, quella di Hideaki Anno è un’analisi potente che lascia spazio a tante riflessioni esistenzialiste; riflessioni sul rapporto tra la ricerca della propria identità e le eterodirezioni che vengono subite a seconda della congiuntura economica e delle pressioni di genere. 

9. Solitudini e disperazioni femminili.

Love & Pop, sulla scia di Tokyo Decadence, rimane quindi un contributo interessante e universale, perfettamente inseribile tra le maggiori opere del papà di Evangelion; ma, anche e soprattutto, uno spaccato delle miserie umane.

AAS


Se volete saperne di più sul fenomeno dell’enjokōsai e di come sia stato trattato nella cinematografia giapponese, consigliamo quest’ottima carrellata di vari titoli.


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