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Tag: Horror

Io e Dracula siamo amici

Che ci crediate o meno, sono passati più di cento anni dalla prima proiezione a Berlino di Nosferatu eine Symphonie des Grauens (1922) di Friedrich W. Murnau, ben trenta da quella del capolavoro di Francis F. Coppola Dracula di Bram Stoker (1992), ormai molto più di un secolo dalla prima pubblicazione del romanzo. E sembra ieri.

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Metti l’orrore, togli l’orrore

Metti l’orrore, togli l’orrore

  • Luca Rungi

  • 31 ottobre 2022
  • noninteragire

Quando ripensiamo a un videogioco horror che ci ha colpiti o coinvolti, tra ciò che può rimanere con noi dopo la fruizione ci sono anche quei momenti che sono riusciti a inquietarci o spaventarci in maniera particolarmente efficace. Tuttavia, si tratta talvolta di piccoli frammenti, erosi ferocemente dal passare del tempo; al contrario, sono gli eventi, i fatti, a catturarci e rimanere fissati nella memoria. E forse questo non è un caso.

Nel documentario scritto e presentato da Slavoj Žižek, “Guida perversa al cinema” (A Pervert’s Guide to Cinema, Sophie Fiennes, 2006), il celebre filosofo e politologo sloveno, nel suo fiume impetuoso di considerazioni psicoanalitiche o di altra natura, a un certo punto sfodera una chiave di lettura alquanto intrigante e promettente riguardo il genere horror, attinente quindi anche al videogioco:

The first key to horror films is to, say, let’s imagine the same story but without the horror element. This gives us, I think,  the background.

Slavoj Žižek, A Pervert’s Guide to Cinema

Un’affermazione che potrebbe dapprima lasciare un po’ spiazzati, ma la sua applicazione sul film trattato in quel momento nel documentario, ovvero “Gli Uccelli” (The Birds, Alfred Hitchcock, 1963) ne dimostra già un piccolo assaggio del potenziale. Ed è proprio da questa considerazione che è scaturita la scintilla per questo pezzo.

Ma non è tutto. Le cose si fanno infatti ancora più interessanti non appena subentrano i film di David Lynch, dove Žižek inquadra in una maniera precisa e sorprendente tutte quelle figure maschili prive di redini e imprevedibili come Frank, interpretato da Dennis Hopper, in “Velluto Blu” (Blue Velvet, 1986). Queste sono le parole usate:

It’s not simply that they possess phallus, that they have phallus as the insignia of their authority. In a way, they immediately are phallus. […] This is the most terrorizing experience you can imagine: directly being the thing itself. […] The provocative greatness of these Lynchian obscene paternal figures is that not only they don’t have any anxiety, not only they’re not afraid of it. They fully enjoy being it. They are truly fearless entities beyond life and death […]. And then, in the end, [they] are sacrificed.

Ibidem

Ed è qui che giunge l’epifania di questa introduzione, la luce che filtra dal vetro della chiesa e investe John Belushi in The Blues Brothers in tutta la sua forza rivelatrice: come si fa ad ascoltare questa descrizione senza andare subito col pensiero a una delle figure più perturbanti (ma anche morbosamente affascinanti) uscita dalla mente di Masahiro Ito? Stiamo parlando, naturalmente, del ben noto Pyramid Head presente nel famoso videogioco horror Silent Hill 2 (Konami, 2001).

In “Velluto Blu”, Frank in realtà non punta la mano verso il protagonista (non sa di essere spiato), ma i due gesti sono molto simili.

A questa considerazione ne è seguita subito un’altra, quasi prepotente un po’ come queste figure paterne deviate appena descritte. Se David Lynch è stato in grado di dare corpo a queste entità fuori dal comune semplicemente incanalando il talento dei suoi attori in carne e ossa, di conseguenza l’approccio estetico dei Silent Hill, così “sboccato” e sopra le righe, è da considerarsi un espediente maturo dell’horror psicologico a tutti gli effetti?

Questo interrogativo è volutamente provocatorio e, per ora, verrà lasciato in un cassetto. Torniamo invece alle premesse dell’articolo: togliere l’horror dal videogioco, o meglio da quei titoli da esso contraddistinti, per vederci più chiaro e, chissà, magari ricavare qualcosa di più da ciò di cui si è discusso e ridiscusso fino a oggi. E perché non cominciare proprio… da Silent Hill?

In effetti, per gran parte di questo articolo saranno affrontati i primi capitoli di Silent Hill. Essendo un filone piuttosto importante abbiamo ritenuto che adottare quest’ottica curiosa proprio sui primi tre titoli (molto simili e diversi al tempo stesso), poteva mostrarne le potenzialità creando anche una base coesa per il discorso. Le vicende rispettive saranno richiamate quanto basta a sostenere il discorso per non allungare il brodo in maniera superficiale.

Crescita, identità, separazione e ricongiunzione

[DISCLAIMER: Oh, va da sé che ci saranno pure i cosiddetti SPOILER qua e là. Pronti? Si parte]

Il primo capitolo della saga1 è stato un fulmine a ciel sereno per la community degli appassionati del videogioco survival horror (e non) dell’epoca, un genere che proprio in quel periodo stava ancora forse costruendo il suo linguaggio nel medium, sondando il terreno riguardo la possibilità di muoversi liberamente in un ambiente totalmente tridimensionale. Il primo Silent Hill è molto importante in questo e molti altri sensi, e anche se ne ribadissimo in questa sede tutte le ragioni (come meriterebbe), difficilmente aggiungeremmo qualcosa rispetto ai molti contributi e dibattiti che si sono sviluppati in seno a questo capitolo fondamentale negli anni.

Sì Cheryl ora parliamo anche di te, non ti preoccupare.

Cominciamo invece la nostra “Cura Alfredo” proprio su questo titolo di culto (il nostro direttore non stravede per tutte le manifestazioni del perturbante, soprattutto lato videogioco horror, da cui il nome goliardico). Via l’orrore. Al bando le presenze striscianti, saltellanti, gorgoglianti e poco sensibili al nostro spazio personale. Le grate arrugginite che si affacciano sull’abisso non ci sono più. Il comune ha riparato le voragini delle strade e disinfestato il vicinato. Via persino gli orrori non riconducibili al soprannaturale (stiamo parlando, naturalmente e purtroppo, delle vessazioni subite da Alessa Gillespie). Ecco fatto.
Che rimane? Che ci crediate o no, moltissimo.

Tutto comincia con la scelta di un viaggio. A scegliere la destinazione, tuttavia, non è il protagonista Harry Mason, ma sua figlia Cheryl. Quest’ultima sente il richiamo della sua altra metà, Alessa Gillespie, che la (ri)conduce a Silent Hill. Questo fattore tuttavia fa già parte innegabilmente della sfera del soprannaturale ed è quindi da accantonare ai fini della “Cura Alfredo”. Teniamo presente invece, semplicemente, il fatto che Cheryl abbia detto al padre dove voleva andare. Questa bambina ha sette anni e, solitamente, le vacanze vengono organizzate dai genitori e non dai figli. Ma non questa volta.

In seguito all’incidente d’auto ritratto nella scena introduttiva, Cheryl fugge improvvisamente dal padre mettendosi tra l’altro, per un attimo, in una posa molto curiosa e difficilmente riconducibile all’indole di una bambina. Sembra già adolescente, quasi indisposta e distante.

Questa breve cutscene serve proprio a far intendere al giocatore che Cheryl non è già più la stessa.

Il cambiamento avviene all’improvviso e forse, con un poco di fantasia, persino l’automobile in cui stanno Harry e Cheryl può essere interpretata come un nucleo protetto in cui a guidare c’è il padre (la moglie di Harry è morta qualche anno prima dell’inizio della vicenda). L’incidente quindi potrebbe rappresentare una rottura del patto, unita al desiderio della futura adulta di essere più indipendente. Di lì a poco, infatti, verrà assorbita da una ragazza che ha il doppio dei suoi anni (e quindi adolescente a tutti gli effetti).

Cheryl non conosce Alessa: è una sconosciuta, ma percepisce che c’è un legame tra loro indissolubile, che la richiama. Volendo, si potrebbe leggere questa dinamica come il processo in cui si va a formare la propria personalità crescendo: sai che diventerai qualcosa di diverso, ma non esattamente cosa.

Silent Hill, insomma, potrebbe avere come tematica centrale e sullo sfondo (il background, per usare le parole di Slavoj Žižek citate in apertura) proprio la tematica della crescita. Harry, spiazzato da questo cambiamento in Cheryl, continua a cercare sua figlia inseguendo ciò che conosce di lei, forse in un’iniziativa alimentata dal suo rifiuto di accettare la realtà: la cerca nella scuola elementare, all’ospedale, in giro per la città inseguendo e servendosi, tra l’altro, di oggetti legati all’infanzia. Ma senza successo, perché Cheryl non è più una bambina e, forse, quella figura che grida aiuto, che si vede brevemente nei tubi catodici del centro commerciale, è nient’altro che un imbroglio: la Cheryl fanciulla a quel punto, probabilmente, non esiste già più.

Alcuni criticarono l’aspetto tecnico del primo Silent Hill, nonostante abbia, di fatto, ambientazioni spesso più dettagliate dei fondali pre-renderizzati del primo Resident Evil, un altro famosissimo videogioco horror.

L’adolescenza è un’età turbolenta, un ricettacolo di cambiamenti profondi e non solo fisici e Alessa, completamente bendata a causa delle ferite che si incontra a fine gioco, potrebbe, volendo, essere interpretata come un bozzolo pronto a schiudersi (il gioco dà ampio credito a questa lettura, in uno dei finali). Se continuiamo ad applicare questo approccio alla storia, la migliore conclusione ottenibile ci restituisce una lettura interessante e, forse, più positiva di quella offerta da Silent Hill stesso, se preso alla lettera.

La nuova figlia di Harry, frutto dell’unione tra Cheryl e Alessa2, è una congiunzione, una “fusione completa” (come quella che avviene tra Motoko Kusanagi e il puppet master in Ghost in the Shell, se vogliamo), tra la sua indole fanciullesca e quella adolescenziale. Il risultato di questo processo non è del tutto l’una o l’altra metà, ma, appunto, qualcosa di completamente nuovo. E se questa “nuova Cheryl” prende la forma di una bambina appena nata, beh, con un piccolo sforzo di fantasia si potrebbe spiegare in una maniera molto semplice: per quanto noi cresciamo e cambiamo, i nostri genitori ci vedranno sempre come i loro pargoli.

Poi chissà, magari il Team Silent voleva proprio omaggiare le nuove fattezze di Kusanagi (seppur alla lontana) rappresentata nella trasposizione in film di animazione (Mamoru Oshii, 1995).

Col senno di poi, è quasi assicurato che il Team Silent abbia reso omaggio anche
a questo film di animazione, nella loro opera prima.

È chiaro come questa interpretazione ignori o reinterpreti volutamente molti elementi legati al sovrannaturale, come anticipato, ma l’obiettivo non è snaturare la vicenda, bensì provare a offrire una lettura ulteriore interpretando la storia basandosi sull’essenziale.

Liberarsi dello strato nero e appiccicoso dell’orrore dai capitoli successivi fino al terzo (un limite scelto arbitrariamente per motivi di continuità e logistici), produce effetti molto diversi tra loro. Questo strumento di interpretazione, forse, ha quindi un’altra peculiarità che vedremo proprio ora.

Togliere l’orrore, uno strumento critico

Silent Hill 2, il “gigante in casa” non solo della serie ma all’interno del videogioco survival horror, reagisce molto bene a questa operazione di “disorrorizzazione” (sarà l’ultima volta che leggerete questa parola, promesso) e per un motivo molto semplice. Banalmente, tutto ciò che è perturbante e disturbante è costruito creativamente – e fedelmente – sulle premesse narrative, insieme ai background dei compagni di sventura che ne compongono il cast. Levare l’orrore in Silent Hill 2 non è un’operazione distruttiva per la trama, in quanto questa carica serve quasi esclusivamente come sovrastruttura atta, come suggerito, a poter collocare quest’opera sotto il genere del videogioco survival horror.

Tuttavia, certi elementi perturbanti in Silent Hill 2 creano scene anche toccanti: come dimenticare il dialogo tra James e Angela, poco prima che quest’ultima salga su per una scala circondata dalle fiamme? “Lo vedi anche tu? Per me è sempre così”. Escludere l’orrore da Silent Hill 2, riflettendoci, è un po’ come adottare il punto di vista di un personaggio molto speciale: Laura. Questa bambina può infatti girare per la città indisturbata e interagire con tutti i personaggi vedendoli semplicemente per ciò che sono, così come è possibile per noi utenti parlare del dramma di James Sunderland senza citare una sola creatura. La parola “amore” potrebbe lasciare stupiti trattandosi di un videogioco survival horror, ma è tutt’altro che fuoriluogo: Silent Hill 2 è, a tutti gli effetti, anche una storia d’amore.

Questo approccio, a conti fatti, forse non offre interpretazioni ulteriori quando un’opera è stata realizzata in maniera così competente, così conscia del fatto che l’orrore certe volte non è altro, in fondo, che un buon trucco applicato su un attore talentuoso. Per tornare all’interrogativo provocatorio posto a inizio articolo, se Pyramid Head fosse stato semplicemente un doppio disinibito di James Sunderland in tutto e per tutto, il gioco avrebbe avuto forse qualche problema in più con la censura e ci saremmo persi nel frattempo un’entità irripetibile (e purtroppo poi riproposta fuori contesto per motivi squisitamente commerciali), ma non sarebbe stato violato il “patto tematico” con il fruitore.

Se non conoscete la storia di Silent Hill 2 non sta a noi raccontarvela: giocatelo e fatela vostra.

La città di Silent Hill non ha orrori in serbo per Laura, ma Laura non ha peli sulla lingua per James e Eddie. Questo è tutt’altro che casuale.

L’orrore nasconde le criticità, ma non i protagonisti

La “Cura Alfredo”, invece, mette in luce alcune debolezze del terzo capitolo della saga di Silent Hill. Lungi dall’essere un brutto gioco, opera però uno squilibrio pesante tra elementi soprannaturali e una controparte tangibile, per noi, su cui lavorare. Questo probabilmente è dovuto al fatto che l’intera vicenda poggia e si sviluppa su una base prevalentemente irrazionale, in quanto seguito diretto del primo capitolo. Proviamo a stilare un elenco di queste criticità per poi passare, invece, a un tentativo di interpretazione capace di elevare questo videogioco il quale, seppur forse non all’altezza dei suoi predecessori horror in toto, rimane comunque più che degno di essere affrontato.

Che poi Silent Hill 3, col tutto che gira su una PS2, è uno spettacolo.

Prima di partire con la lista, è curioso notare come l’esistenza della protagonista Heather tecnicamente non sarebbe plausibile3, in quanto creata da un miracolo perpetrato dalla “fusione completa” di Cheryl e Alessa. Ma non è questo il modo corretto di applicare questa chiave di lettura e quindi ciò rimarrà solo una postilla leggera leggera. Partiamo, invece, con le reali criticità:

  1. Molte creature che fungono da nemici non corrispondono a un’elaborazione meta-referenziale di traumi o complessi della protagonista o altri personaggi, creando quindi un vuoto strutturale una volta rimossi dall’equazione. Le elucubrazioni dei fan, per quanto interessanti, non possono concretamente fare testo e sopperire a queste mancanze.
  2. Un’attenzione ed espansione eccessiva di tutto ciò che riguarda il culto segreto presente nel primo capitolo, un elemento che non mai avuto veramente peso e che è destinato a non apportare nulla in questa sede.
  3. Infine, Silent Hill 3 comincia forse a mostrare tutti i limiti di un approccio estetico troppo diretto, volutamente morboso e votato all’eccesso per quanto concerne le creature che fungono da ostacoli e nemici (ma anche le ambientazioni raggiungono vette mai viste in SH3). Un limite, per metterla giù in maniera forse un po’ brusca, probabilmente legato al fatto che i tipi di genitali umani sono due e non dieci (i riferimenti visivi alla sessualità e alla gravidanza si sprecano in questo capitolo). Ciò è riscontrabile sia quando esista o meno un background (di nuovo questa parola) per le fattezze di questi esseri.

Masahiro Ito esprime in questi tweet una delle criticità. E chi meglio di lui?

Se è vero che escludere l’orrore da Silent Hill 3 non lascia granché su cui elaborare rispetto ai predecessori per i motivi sopracitati, sicuramente non esclude la centralità della sua protagonista. I colori scelti per i suoi vestiti hanno tanto da dire e, forse, tale discorso impatta anche sull’antagonista Claudia, se presa nella sua essenza.

In primis, di Heather si nota una giacca smanicata bianca su cui torneremo a breve. Subito sotto, invece, una magliettina a collo alto senza maniche e di colore arancione. Questo tonalità è tutt’altro che casuale e si ottiene attraverso l’unione di altri due colori (chiaro, no?), cioè il giallo (Cheryl) e il rosso (Alessa). Questo abbinamento è perfettamente coerente con le personalità del primo capitolo. Abbiamo, infatti, una Cheryl solare, allegra, spesso sorridente; al tempo stesso, un’Alessa legata a sentimenti impulsivi e a elementi quale il sangue e la ruggine.

A onor del vero, il rosso ha naturalmente anche connotazioni positive e, forse, anche queste traspaiono nel finale canonico del primo Silent Hill che dà luogo alle vicende del terzo capitolo: non è forse un atto di amore quello di dare al povero Harry Mason la possibilità di crescere una nuova figlia? Il colore arancione, inoltre, è presente in ben due braccialetti indossati da Heather, un modo forse per simboleggiare il fatto che la ragazza non reprime completamente se stessa, ma è semplicemente estremamente cauta per cause di forza maggiore.

Non abbiamo l’arroganza di pensare di essere stati i primi a proporre questa interpretazione basata sui colori, ma possiamo garantire sulla spontaneità dell’intuizione.

Questi due tratti si traducono in una Heather tecnicamente pronta ad amare, già molto affezionata a suo padre e capace di dimostrarsi sia premurosa che pronta a tirare fuori le unghie per difendersi da chi ha intenzioni poco chiare. Ciò si riassume nell’arancione, acceso e quindi vitale ma che, inoltre, può sottintendere una certa difficoltà nell’aprirsi agli altri. Non è un caso che questa tonalità sia nascosta, quasi del tutto, da una giacchetta di colore bianco che suggerisce sì purezza ma, al tempo stesso, forse negazione e un celarsi a scopo protettivo: le tasche piene danno quasi l’impressione di cuscinetti anti-urto. Anche questa è una scelta non casuale, come se Heather volesse nascondere con una maschera incolore la sua identità – per proteggersi anche dal culto che le dà la caccia, senza dubbio.

Claudia, antagonista del titolo, rappresenta (forse banalmente) la parte più istintiva e negativa di Heather e, non a caso, fin dall’inizio del titolo cerca di risvegliare in lei istinti violenti4 che, non a caso, porteranno al possessed ending nel caso il giocatore faccia strage delle creature nel corso della partita. La presenza di un boss ulteriore che è, in tutto e per tutto, una metà oscura della protagonista, potrebbe risultare quasi didascalico proprio alla luce di queste considerazioni.

Un ultimo dettaglio degno di menzione, sempre riguardo gli indumenti, potrebbe essere la gonna verde scuro di Heather, quasi a simboleggiare l’equilibrio (o un desiderio dello stesso).

Oltre la siepe della collina silenziosa

Dopo aver affrontato i primi tre esponenti della saga di Konami, proviamo ad adottare questo metodo anche per altri titoli ma senza perdere però d’occhio il director del primo capitolo: stiamo parlando di Keiichiro Toyama. Nonostante non fosse particolarmente devoto al genere horror all’inizio della sua carriera, dopo il primo Silent Hill andrà a realizzare un titolo forse ancora più spaventoso e opprimente, ovvero Forbidden Siren (2003).

A long time ago, when I was getting materials from the foreign press for [sic] Silent Hill, they would ask me things like, “You’re Japanese – why are you making a game that sounds like a Hollywood movie?” (laughs). But I guess they were [sic] right. Also, […] the movie version of The Ring and Kiyoshi Kurosawa’s “Cure” had achieved worldwide popularity… It was also around the time I read Fuyumi Ono’s horror novel “Shiki”, which left a strong impression on me. I guess you could summarise the phenomenon as a “J-horror” boom. That’s when I decided I wanted to try showing the world original Japanese horror.

Keiichiro Toyama, riportata su Siren Maniacs

Siren  (サイレン, titolo originale giapponese), per chi non lo sapesse, si svolge nel villaggio fittizio di Hanuda che viene improvvisamente colpito da una pioggia rossa insistente. Questa pioggia, oltre a circondare il villaggio di montagna con un lago cremisi, converte la quasi totalità della popolazione in shibito (屍人, letteralmente “persone morte”), contraddistinte da lacrime di sangue che però conservano, almeno in uno stadio iniziale, tutte le fattezze originarie delle vittime di questa trasformazione. Solo una manciata di abitanti conserva la sua umanità e sarà controllata, di volta in volta, dal giocatore per cercare di portarli tutti in salvo. Una peculiarità del titolo è il fatto che i sopravvissuti hanno un’abilità detta sightjacking che permette loro di vedere attraverso gli occhi degli shibito circostanti, vero motore delle meccaniche stealth dell’opera.

E se levassimo tutto l’orrore, quali letture si potrebbero avanzare? Senza dubbio più di una: per esempio, si potrebbe mettere sul tavolo il fatto che una manciata di individui, improvvisamente, si ritrova a essere la minoranza di una piccola società la quale, per sopravvivere, è costretta ad adottare letteralmente il punto di vista della nuova maggioranza per passare inosservati e confondersi con gli altri. A questo punto possiamo applicare a questa base diverse letture ulteriori, come il fantasma di regimi totalitari se non addirittura il timore xenofobo di ritrovarsi improvvisamente circondati da stranieri. E come non dimenticare il detto giapponese sul “battere i chiodi che sporgono”, che richiama il concetto per cui il gruppo viene prima dell’individuo?

La tecnologia usata per creare i volti dei personaggi è terribilmente efficace. Siamo sempre su PS2 e questa è una cattura a risoluzione originale.

A questo punto potrebbe essere interessante, e forse persino divertente, applicare questo processo un po’ a tutti i nostri titoli horror preferiti – siano essi un videogioco o meno – e scoprire se il perturbante serve a celare qualcosa di più oppure è un semplice divertissement5. Qualche rapido esempio in soldoni:

  • Danganronpa (Spike Chunsoft), tolti gli omicidi e con una spintarella in questa lista, non è forse la riproposizione volutamente marcata dell’individualismo che ci costringe, seppur indirettamente, a liberarci della concorrenza per realizzare i nostri desideri e ambizioni ogniqualvolta si passa per un processo di selezione?
  • The Missing: J. J. Macfield and the Island of Memories (White Owl Inc, 2018), tolte le automutilazioni volte alla risoluzione di enigmi e l’entità che ci perseguita, è nella sua essenza una storia molto toccante di cui non vogliamo privarvi del piacere di scoprire.
  •  In Ghostwire: Tokyo (Tango Softoworks, 2022) troviamo un nemico che che racchiude un po’ tutti i timori e ansie del periodo liceale. La cosa particolare e parecchio brillante è il modo in cui può annunciare la sua posizione nell’ambiente: la suoneria di un cellulare, simile a quella udita quando si riceve un messaggio. Informazione di gameplay e sottotesto in un unico pacchetto.

Ma stiamo cominciando a perdere il fuoco della questione ed è meglio fermarsi qua. Dopotutto, è impossibile fare esempi davvero validi e approfonditi senza affrontare in maniera dettagliata altri videogiochi e questo articolo è già abbastanza “longevo” così com’è. Come dite? Pensate che questo aggettivo sia fuori luogo? Non avete torto, ma non è neppure così azzeccato anche per i videogiochi che vantano una durata eccessiva se ci si riflette bene. Ma questa è un’altra storia.

Rimuovere l’orrore per vederci più chiaro, in fondo, non è poi affatto diverso dal rimuovere anche quegli elementi spiccatamente di fantasia o fantascientifici in modo da percepire gli eventi sotto una lente che ci restituisca uno scenario purificato e raffinato da quei dettagli costruiti intorno alla struttura portante di un’opera. Talvolta, come nel caso dei fratelli e autori di fantascienza russi Boris e Arkady Strugatksy6, il punto di affidarsi proprio a questo genere era quello di distrarre i censori.

Per fare un esempio classicissimo e forse scontato: che cos’è l’anello del potere di Tolkien se non altro che un oggetto che finisce per possedere le persone? E questo oggetto non ne abbiamo ora uno tutti in casa? Stiamo parlando, naturalmente, dei telefoni cellulari. Ma la lista sarebbe infinita, e non solo relativa all’unica casistica del videogioco horror.

LR


NOTE:

1 Pur essendo, senza per questo voler essere riduttivi, una rielaborazione di Carrie (1974, trasposizione cinematografica del 1976 di Brian de Palma) di Stephen King. E, forse, pure con una spruzzatina di Phantoms (1983, trasposizione cinematografica del 1998) di Dean Koontz, autore tra l’altro omaggiato in una delle vie della città.

2 Nel gioco, in realtà, l’entità creata tramite il rituale crea una nuova bambina prima di perire con le ultime forze, ma che probabilmente è una copia di se stessa. Ciò è confermato dal finale del terzo capitolo.

3 È corretto però precisare come la stessa esistenza di Cheryl sia, di fatto, frutto di un fenomeno paranormale. La giovane è infatti il risultato della scissione avvenuta in Alessa per preservare la sua parte più buona e, probabilmente, evitare che venisse contaminata dai preparativi del rituale operati dalla madre Dahlia. Tuttavia, siccome la sua esistenza è data per assodata per gran parte del gioco si è forse più portati a inquadrarla come tale anche a seguito della rivelazione.

4 Chi ha giocato al videogioco horror Silent Hill 3 ricorderà molto bene la scena non interattiva dove Heather spara diversi colpi di pistola a un Closer nel negozio di abbigliamento del centro commerciale. Questa scena in realtà è una farsa, in quanto il nemico non cade a causa dei proiettili ma in maniera arbitraria (e probabilmente per intervento diretto di Claudia) dopo diversi secondi dall’ultimo colpo esploso. Il suo scopo è raggiunto: risvegliare in Heather istinti violenti. Non è un caso che chi scrive ha rinunciato ad attaccare qualsiasi nemico per tutta la partita, quasi per ripicca (a eccezione dei boss, ovviamente). In un certo senso, Claudia interviene fin dalla prima schermata di avvertimento sui contenuti, presente all’avvio del gioco: l’immagine, infatti, mostra Heather che finisce un nemico atterrato con un tubo di acciaio. Come a dire che i contenuti violenti del videogioco horror non sono le creature, ma un giocatore che accetta di farne una strage.

5 E teniamo a precisare che non abbiamo assolutamente nulla in contrario. Dopotutto, i titoli brillanti e caciaroni come Lollipop Chainsaw sono più che i benvenuti!

6 Il loro romanzo più famoso è probabilmente “Picnic sul ciglio della strada” (Пикни́к на обо́чине, 1972), ma noi consigliamo vivamente anche “Lunedì inizia sabato” (Понедельник начинается в субботу, 1965).


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Orrore e rifiuto, ovvero Suehiro Maruo

Orrore e rifiuto, ovvero Suehiro Maruo

  • Vincenzo Vecchio

  • 29 aprile 2022
  • nonleggere

Suehiro Maruo è un mangaka poco comune nel panorama fumettistico contemporaneo.
Riconosciuto generalmente come uno dei maestri del manga horror – il di cui debutto su carta risale agli anni Ottanta – al contrario di molti suoi colleghi non si è limitato al solo fumetto: spesso ha spaziato dall’illustrazione alla pittura, per arrivare anche alla creazione di artwork per altri oggetti pop, come copertine per dischi, per romanzi e locandine.

Possiede uno stile molto riconoscibile derivato dall’illustrazione tradizionale giapponese ukiyo-e del periodo Edo, di cui ne conserva ancora, almeno in parte, alcune tematiche. Le stesse visioni delle famose “stampe insanguinate” di Yoshitoshi, propriamente rielaborate, ritornano infatti come vividi ricordi nelle opere del maestro Maruo.

Diversi suoi tankōbon possono essere considerati, a buon diritto, dei veri e propri manifesti dell’illustrazione. La sua è un’estetica parecchio ricercata, che poggia su anatomie incredibilmente accurate, corpi magnificamente definiti, simbologie di stampo europeo rielaborate in patria, situazioni ottocentesche riportate alla modernità. Sessualità distorte, omicidi, soprannaturale. 

Serrer les dents pour resister à l’effroi.
La sofferenza è la principale manifestazione nel manga ero-guro.

Suehiro Maruo, in tankōbon come Inugami Hakase (1994), mischia in modo sfrontato forme prese di peso dal neoclassicismo e dall’estetica nazista al folklore giapponese degli yokai, saccheggiando continuamente culture diverse, ma fondendole comunque in un unico contenitore kitsch riconoscibilissimo e propriamente giapponese. Il maestro Maruo è un inventore di ucronie visive, non tanto in senso storico, quanto culturale. Un collezionista ossessionato che trova nella psico-rigida cultura del Giappone post-imperiale l’ambiente ideale per mettere in mostra, uno accanto all’altro, i suoi feticci.

Non a caso, si respira una sorta di zeitgeist sopito e forse addirittura nascosto nel tratto denso e sicuro del mangaka. Si tratta di un sentimento evidentemente proibito, proprio nel senso auto-censorio del termine. Proibito, oscuro e nascosto. È forse, in un certo modo, simile all’orrore esotico e seducente scoperto dal colonnello Kurtz in Cuore di Tenebra di Joseph Conrad e in seguito reimmaginato da Francis Ford Coppola e Marlon Brando in Apocalypse Now

Yoshitoshi – La casa solitaria sulla Brughiera di Adachi (1885)

L’orrido è metaforizzato grazie all’immagine di una lumaca che striscia lenta ma sicura sul filo del rasoio tagliandosi essa stessa nella marcia; la bava si disperde inevitabilmente sulla lama e si mischia al sangue in una innaturale e sinistra soluzione di liquidi corporei. La stessa sostanza, conosciuta ma estranea, che si trova nel profondo dell’animo umano, addirittura geneticamente presente ovunque vi sia componente antropica. Uno zeitgeist dunque, proprio perché legato ad un profondo senso comune del sinistro, dell’inquietante, del nascosto tra le pieghe della normale quotidianità. Che, proprio in quanto comune e quindi per definizione vicino a tutti, inquieta a livello personale il lettore. 

Gli elementi di predilezione di Suehiro Maruo.

Il tratto di Suehiro Maruo è netto, preciso, conciso, completo. Ombra nera, luce bianca, nessuna incertezza, come se ogni tavola fosse una stampa su legno. Ogni gesto, ogni movimento è una posa, una messa in scena di gusto teatrale che riporta inevitabilmente al teatro Kabuki del XIX secolo e alla letteratura giapponese di Edogawa Rampo. Tutto è netto, tutto è chiaro sulla tavola, tranne di sovente i significati, che al contrario sono spesso celati o dietro dialoghi ermetici, o dietro simbologie appannate di matrice pagana. Le storie nelle opere del maestro Maruo, rimangono generalmente semplici, con intrecci abbastanza lineari, che lasciano quasi tutto lo spazio alla messa in scena. Quasi che il mangaka si senta in dovere di creare il vuoto adeguato ad accogliere così tanta saturazione visiva.

Per capire bene l’immaginario di Suehiro Maruo è necessario pensare un contenitore di contenitori, ognuno dei quali è incrostato di materia rubata: Histoire de l’œil (1928) di Georges Bataille, la mitologia germanica del Nazismo, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene e l’espressionismo tedesco nel suo insieme, il surrealismo, il fantastico e l’orrorifico di Edgar A. Poe, le storie brevi di Edogawa Rampo, i rapporti tra uomo e uomo, uomo e animale, la sessualità nella sua interezza e impalpabilità, le incisioni su legno di Yoshitoshi, la Repubblica di Weimar attraverso le pitture di Otto Dix, la decadenza borghese, il culto del sangue, i tarocchi e l’esoterismo di fine ottocento, il paganesimo, il teatro Kabuki e la sua versione più elevata , tutto ciò che in natura si manifesta come deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile.

L’animale civilizzato

Al contrario del vampiro animalesco di Shuzo Oshimi (Happiness – Panini Comics, Planet Manga 2015 – 2019), l’eterno adolescente vestito di stracci, che salta di tetto in tetto alla ricerca spasmodica e disordinata della sua preda, quello di Suehiro Maruo (Il Vampiro che ride – Coconino Press 2014) è un animale che ama le divise studentesche, in un mondo che fa della nostalgia dell’atmosfera anni quaranta e cinquanta il suo ambiente naturale. 

Il vampiro di Maruo ha un codice morale ben definito sebbene infinitamente perverso; o forse, la causa stessa della sua perversione è da ricercarsi proprio nell’agiatezza borghese delle società ben impiantate. Proprio parlando di borghesia, i tipici temi del genere erotico-grotesque non sono altro che i passatempi preferiti della borghesia annoiata e benestante del ventesimo secolo. Perversione morale, sessuale, ipocrisia di classe, che come ricorda Pier Paolo Pasolini vengono generate da madri vili

Cimiteri, mutilazioni, amore, simbologia.

In Il Vampiro che ride, la genitrice è proprio una vecchia madre affetta da vampirismo da diverse decine di anni. Il punto di partenza sentimentale ideale per questo tipo di perversioni. E anzi, come si accennava in precedenza, le madri che Pier Paolo Pasolini definisce “vili, mediocri, servili, feroci” 1 sono per Suehiro Maruo la vera origine del mondo.

È interessante notare che anche il concetto di tempo per un vampiro non è altro che una netta metafora del privilegio borghese, quello di poter gestire il proprio tempo in funzione dei propri gusti personali e non costretti ad una vita in funzione del proprio lavoro come poteva esserlo quella delle classi più umili. La noia borghese, nelle opere del mangaka giapponese, diventa quasi il prerequisito con cui preparare il terreno e renderlo fertile per la nascita di malumori e comportamenti che inevitabilmente sfuggono alla sfera morale normalmente accettata. I protagonisti delle storie del maestro Maruo, divorati dalla noia, distorcono il proprio rapporto con la realtà, rendendola soprannaturale, surreale per l’appunto.

L’animale erotico

I personaggi di Suehiro Maruo si dipanano in atteggiamenti ai limiti della condizione clinica. Personaggi novecenteschi che scivolano nel vampirismo, liceali perversi che non conoscono altri limiti se non quelli imposti dalla coerenza della propria follia. Giovani, per lo più adolescenti, che hanno con la propria sessualità un rapporto a dir poco malsano. Protagonisti consapevoli di una crescita malata, ammantata di normalità. Donne borghesi che scoprono nell’orrore un nuovo afflato sessuale, come nel caso di Tokiko, la moglie dell’ufficiale mutilato di guerra ne Il bruco (Coconino Press – 2012). 

Il marito Sunaga, privato, a causa della  guerra, di braccia e gambe, ridotto all’immobilità e al più totale mutismo, diventa nient’altro che un oggetto di piacere per soddisfare le nuove voglie della moglie. Un tipo di voglia che si pone esattamente al confine tra disgusto e piacere, tra rifiuto e irrefrenabile curiosità. La vita della donna si consuma così in zone inesplorate tra il distorto e l’immorale. La noia borghese rimane centrale ma non è manifestata in modo chiaro; si presenta all’interno del modo estremamente dimesso di intendere il sentimento in Giappone, e cioè come appartenente alla sfera personale. La pornografia di Maruo, se come tale si vuole definire, è più un problema di solitudine dello spirito piuttosto che una questione carnale. 

Al contrario di Yasujirô Ozu – Viaggio a Tokyo (1953), Il gusto del sakè (1962), Tarda primavera (1949) – che raccontava con il suo cinema in bianco e nero una borghesia mite e dimessa, rinchiusa in una gabbia di regole sociali che era contenta di rispettare, Nagisa Ōshima racconta i privilegi di coppie votate alla sola ed esclusiva ricerca del piacere, fino ad arrivare a cercarne proprio il limite, il confine esatto tra estasi sessuale e morte per soffocamento, come in Ecco l’impero dei sensi del 1976. Il maestro Maruo sceglie invece un approccio diverso: non una definizione morale della dissoluzione, né una semplice descrizione della sessualità distorta della ricerca del piacere; Suehiro Maruo sceglie il grottesco come punto di partenza e raramente come punto di arrivo. Dunque anche la sessualità diventa grottesca, improvvisa, sconosciuta, inaspettata di certo; ma si presenta come tale in modo assolutamente naturale e spontaneo. Insomma, come se si trattasse dell’inevitabile punto d’arrivo di un sistema di valori definito a priori, il culmine dell’esistenza cercato e trovato nella corruzione. Perché in definitiva, tutto è istinto, tutto è violenza, perché tutto riporta alla sfera sessuale. Almeno per come la intendeva Freud quando si riferiva alla teoria della libido

L’erotismo di Suehiro Maruo rimane indissolubile dal macabro, inscindibile dalla morte coesistente al momento stesso dell’estasi. È in definitiva l’inevitabile coabitazione del bello e del brutto nello stesso momento storico. La stessa filosofia che applica David Lynch in Velluto Blu (1986) dove uno studente, ancora una volta uno studente, trova un orecchio mozzato all’interno di un magnifico giardino, che lo porta a scoprire un violento mondo sotterraneo e parallelo alla tranquilla cittadina di periferia che pensava di abitare fino a quell’istante. Il bello e il brutto, per il maestro Maruo e per David Lynch, sono indivisibili. È proprio in quel territorio sconosciuto, al confine tra l’uno e l’altro, che trova terreno fertile il genere érotique-grotesque.

L’animale grottesco

L’autore giapponese mette in scena il suo personale teatro dell’orrore affogato in un romanticismo sfrontato, oggettivato e fuori dal tempo. Solo i giovani e giovanissimi sono generalmente di bell’aspetto; tutti gli altri personaggi infatti, sono corrotti fin nella loro esteriorità. Si tratta di una regola quasi assoluta, che riguarda proprio la condizione di vita dei personaggi-tipo; Per Suehiro Maruo infatti il mostro non è per niente un’eccezione: al contrario, è proprio la condizione umana che mostrifica i suoi personaggi. Li rende depravati all’interno e spesso decrepiti all’esterno (ma possono esistere anche mostri bellissimi).

Paradossali e inspiegabili, i personaggi dell’immaginario del maestro Maruo, si trascinano in un Giappone fantasmatico, senza più alcuna decenza, attinente proprio alla percezione che ognuno di essi ha della propria realtà. In questo senso, Maruo si proietta in una ricerca estetica che rifiuta il normale scorrere del tempo e dello spazio all’interno del manga, delimitato diegeticamente dai quadri che si pongono come confine delle vignette mediante le quali è strutturata la pagina; e ovviamente dallo scorrere delle stesse. In questo modo, si ha come l’impressione che la percezione del tempo sia in un certo senso estranea, sembra che lo scorrere del tempo sia di difficile avanzamento se non che si sia proprio arrestato. Le scene, esattamente come succede in teatro, sembrano cristallizzate e all’esclusivo servizio del lettore. 

Nel Giappone post-imperiale di Suehiro Maruo, non è raro incontrare un pagliaccio che tenta uno stupro su un giaciglio di strada, attorniato da scolopendre e millepiedi attorcigliati in un abbraccio simbolico. Una composizione che, per l’appunto, sembra costruita dall’autore appositamente per arrestarsi alla fine del processo di maturazione e solo così proporsi al lettore. 

Allo stesso modo, le scenografie seguono un criterio di omogeneizzazione costante. Il paesaggio dei manga disegnati da Suehiro Maruo è costituito principalmente da quinte, decori che servono solo a sorreggere la prova d’attore dei propri personaggi. Decadenti, in rovina, brutaliste o barocche, ricercate e romantiche, le scene vertono sempre al racconto unico di Suehiro Maruo, quello surrealista e non-sense.

Divise studentesche, sangue, erotismo.

L’animale-occhio

L’occhio, come elemento ricorrente, ricopre un ruolo di primissimo piano nelle opere del maestro Maruo. Da strumento organico per vedere e interpretare il mondo, diventa oggetto-feticcio da leccare. Da coprire, da accecare, nascondere o mutilare. Un chiaro rifiuto, simbolico, di analizzare la realtà per come si presenta. Il primo passo per costruirne una nuova, adattata allo spirito del tempo e ai voleri dei propri fantasmi. 

Oculolinctus, ovvero gratificazione erotica grazie al feticismo dell’occhio.

L’occhio, non solo come utensile organico ma anche come sinonimo di voyeurismo, diventa il mezzo privilegiato del lettore – ma allo stesso tempo auto-punito, in quanto mutilato, ferito, accecato – per reinventare le proprie pulsioni nei confronti del mondo esterno. Come aveva già spiegato Dziga Vertov con la teoria del cine-occhio, tutto ciò che è visto dall’occhio e che può risultare conosciuto e banale, acquista un valore nuovo se filtrato dal media. Ebbene, il lettore di Maruo diventa, in senso lato, un vero e proprio voyeur piuttosto che un semplice spettatore. 

Suehiro Maruo opera quindi, attraverso il suo disegno, una ricostruzione della realtà che si avvicina più ad una complessa e distorta interpretazione dell’istinto e dell’antropologia dell’animale-uomo, piuttosto che ad un semplice parto della fantasia.

VV


NOTE:

1 P. P. Pasolini – Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964


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Orrore e rifiuto, ovvero Suehiro Maruo

Suehiro Maruo è un mangaka poco comune nel panorama fumettistico contemporaneo.
Riconosciuto generalmente come uno dei maestri del manga horror – il di cui debutto su carta risale agli anni Ottanta – al contrario di molti suoi colleghi non si è limitato al solo fumetto: spesso ha spaziato dall’illustrazione alla pittura, per arrivare anche alla creazione di artwork per altri oggetti pop, come copertine per dischi, per romanzi e locandine.

Possiede uno stile molto riconoscibile derivato dall’illustrazione tradizionale giapponese ukiyo-e del periodo Edo, di cui ne conserva ancora, almeno in parte, alcune tematiche. Le stesse visioni delle famose “stampe insanguinate” di Yoshitoshi, propriamente rielaborate, ritornano infatti come vividi ricordi nelle opere del maestro Maruo.

Diversi suoi tankōbon possono essere considerati, a buon diritto, dei veri e propri manifesti dell’illustrazione. La sua è un’estetica parecchio ricercata, che poggia su anatomie incredibilmente accurate, corpi magnificamente definiti, simbologie di stampo europeo rielaborate in patria, situazioni ottocentesche riportate alla modernità. Sessualità distorte, omicidi, soprannaturale. 

La sofferenza è ovviamente una delle principali manifestazioni nel manga ero-guro.

Suehiro Maruo, in tankōbon come Inugami Hakase (1994), mischia in modo sfrontato forme prese di peso dal neoclassicismo e dall’estetica nazista al folklore giapponese degli yokai, saccheggiando continuamente culture diverse, ma fondendole comunque in un unico contenitore kitsch riconoscibilissimo e propriamente giapponese. Il maestro Maruo è un inventore di ucronie visive, non tanto in senso storico, quanto culturale. Un collezionista ossessionato che trova nella psico-rigida cultura del Giappone post-imperiale l’ambiente ideale per mettere in mostra, uno accanto all’altro, i suoi feticci.

Non a caso, si respira una sorta di zeitgeist sopito e forse addirittura nascosto nel tratto denso e sicuro del mangaka. Si tratta di un sentimento evidentemente proibito, proprio nel senso auto-censorio del termine. Proibito, oscuro e nascosto. È forse, in un certo modo, simile all’orrore esotico e seducente scoperto dal colonnello Kurtz in Cuore di Tenebra di Joseph Conrad e in seguito reimmaginato da Francis Ford Coppola e Marlon Brando in Apocalypse Now

Yoshitoshi – La casa solitaria sulla Brughiera di Adachi (1885)

L’orrido è metaforizzato grazie all’immagine di una lumaca che striscia lenta ma sicura sul filo del rasoio tagliandosi essa stessa nella marcia; la bava si disperde inevitabilmente sulla lama e si mischia al sangue in una innaturale e sinistra soluzione di liquidi corporei. La stessa sostanza, conosciuta ma estranea, che si trova nel profondo dell’animo umano, addirittura geneticamente presente ovunque vi sia componente antropica. Uno zeitgeist dunque, proprio perché legato ad un profondo senso comune del sinistro, dell’inquietante, del nascosto tra le pieghe della normale quotidianità. Che, proprio in quanto comune e quindi per definizione vicino a tutti, inquieta a livello personale il lettore. 

Gli elementi di predilezione di Suehiro Maruo

Il tratto di Suehiro Maruo è netto, preciso, conciso, completo. Ombra nera, luce bianca, nessuna incertezza, come se ogni tavola fosse una stampa su legno. Ogni gesto, ogni movimento è una posa, una messa in scena di gusto teatrale che riporta inevitabilmente al teatro Kabuki del XIX secolo e alla letteratura giapponese di Edogawa Rampo. Tutto è netto, tutto è chiaro sulla tavola, tranne di sovente i significati, che al contrario sono spesso celati o dietro dialoghi ermetici, o dietro simbologie appannate di matrice pagana. Le storie nelle opere del maestro Maruo, rimangono generalmente semplici, con intrecci abbastanza lineari, che lasciano quasi tutto lo spazio alla messa in scena. Quasi che il mangaka si senta in dovere di creare il vuoto adeguato ad accogliere così tanta saturazione visiva.

Per capire bene l’immaginario di Suehiro Maruo è necessario pensare un contenitore di contenitori, ognuno dei quali è incrostato di materia rubata: Histoire de l’œil (1928) di Georges Bataille, la mitologia germanica del Nazismo, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene e l’espressionismo tedesco nel suo insieme, il surrealismo, il fantastico e l’orrorifico di Edgar A. Poe, le storie brevi di Edogawa Rampo, i rapporti tra uomo e uomo, uomo e animale, la sessualità nella sua interezza e impalpabilità, le incisioni su legno di Yoshitoshi, la Repubblica di Weimar attraverso le pitture di Otto Dix, la decadenza borghese, il culto del sangue, i tarocchi e l’esoterismo di fine ottocento, il paganesimo, il teatro Kabuki e la sua versione più elevata , tutto ciò che in natura si manifesta come deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile.

La copertina del primo tankōbon di Il Vampiro che ride
L’animale civilizzato

Al contrario del vampiro animalesco di Shuzo Oshimi (Happiness – Panini Comics, Planet Manga 2015 – 2019), l’eterno adolescente vestito di stracci, che salta di tetto in tetto alla ricerca spasmodica e disordinata della sua preda, quello di Suehiro Maruo (Il Vampiro che ride – Coconino Press 2014) è un animale che ama le divise studentesche, in un mondo che fa della nostalgia dell’atmosfera anni quaranta e cinquanta il suo ambiente naturale. 

Il vampiro di Maruo ha un codice morale ben definito sebbene infinitamente perverso; o forse, la causa stessa della sua perversione è da ricercarsi proprio nell’agiatezza borghese delle società ben impiantate. Proprio parlando di borghesia, i tipici temi del genere erotico-grotesque non sono altro che i passatempi preferiti della borghesia annoiata e benestante del ventesimo secolo. Perversione morale, sessuale, ipocrisia di classe, che come ricorda Pier Paolo Pasolini vengono generate da madri vili

Cimiteri, mutilazioni, amore, simbologia

In Il Vampiro che ride, la genitrice è proprio una vecchia madre affetta da vampirismo da diverse decine di anni. Il punto di partenza sentimentale ideale per questo tipo di perversioni. E anzi, come si accennava in precedenza, le madri che Pier Paolo Pasolini definisce “vili, mediocri, servili, feroci” 1 sono per Suehiro Maruo la vera origine del mondo

È interessante notare che anche il concetto di tempo per un vampiro non è altro che una netta metafora del privilegio borghese, quello di poter gestire il proprio tempo in funzione dei propri gusti personali e non costretti ad una vita in funzione del proprio lavoro come poteva esserlo quella delle classi più umili. La noia borghese, nelle opere del mangaka giapponese, diventa quasi il prerequisito con cui preparare il terreno e renderlo fertile per la nascita di malumori e comportamenti che inevitabilmente sfuggono alla sfera morale normalmente accettata. I protagonisti delle storie del maestro Maruo, divorati dalla noia, distorcono il proprio rapporto con la realtà, rendendola soprannaturale, surreale per l’appunto.

Un’affiche teatrale di Suehiro Maruo
L’animale erotico

I personaggi di Suehiro Maruo si dipanano in atteggiamenti ai limiti della condizione clinica. Personaggi novecenteschi che scivolano nel vampirismo, liceali perversi che non conoscono altri limiti se non quelli imposti dalla coerenza della propria follia. Giovani, per lo più adolescenti, che hanno con la propria sessualità un rapporto a dir poco malsano. Protagonisti consapevoli di una crescita malata, ammantata di normalità. Donne borghesi che scoprono nell’orrore un nuovo afflato sessuale, come nel caso di Tokiko, la moglie dell’ufficiale mutilato di guerra ne Il bruco (Coconino Press – 2012). 

Il marito Sunaga, privato, a causa della  guerra, di braccia e gambe, ridotto all’immobilità e al più totale mutismo, diventa nient’altro che un oggetto di piacere per soddisfare le nuove voglie della moglie. Un tipo di voglia che si pone esattamente al confine tra disgusto e piacere, tra rifiuto e irrefrenabile curiosità. La vita della donna si consuma così in zone inesplorate tra il distorto e l’immorale. La noia borghese rimane centrale ma non è manifestata in modo chiaro; si presenta all’interno del modo estremamente dimesso di intendere il sentimento in Giappone, e cioè come appartenente alla sfera personale. La pornografia di Maruo, se come tale si vuole definire, è più un problema di solitudine dello spirito piuttosto che una questione carnale. 

Al contrario di Yasujirô Ozu – Viaggio a Tokyo (1953), Il gusto del sakè (1962), Tarda primavera (1949) – che raccontava con il suo cinema in bianco e nero una borghesia mite e dimessa, rinchiusa in una gabbia di regole sociali che era contenta di rispettare, Nagisa Ōshima racconta i privilegi di coppie votate alla sola ed esclusiva ricerca del piacere, fino ad arrivare a cercarne proprio il limite, il confine esatto tra estasi sessuale e morte per soffocamento, come in Ecco l’impero dei sensi del 1976. Il maestro Maruo sceglie invece un approccio diverso: non una definizione morale della dissoluzione, né una semplice descrizione della sessualità distorta della ricerca del piacere; Suehiro Maruo sceglie il grottesco come punto di partenza e raramente come punto di arrivo. Dunque anche la sessualità diventa grottesca, improvvisa, sconosciuta, inaspettata di certo; ma si presenta come tale in modo assolutamente naturale e spontaneo. Insomma, come se si trattasse dell’inevitabile punto d’arrivo di un sistema di valori definito a priori, il culmine dell’esistenza cercato e trovato nella corruzione. Perché in definitiva, tutto è istinto, tutto è violenza, perché tutto riporta alla sfera sessuale. Almeno per come la intendeva Freud quando si riferiva alla teoria della libido

L’erotismo di Suehiro Maruo rimane indissolubile dal macabro, inscindibile dalla morte coesistente al momento stesso dell’estasi. È in definitiva l’inevitabile coabitazione del bello e del brutto nello stesso momento storico. La stessa filosofia che applica David Lynch in Velluto Blu (1986) dove uno studente, ancora una volta uno studente, trova un orecchio mozzato all’interno di un magnifico giardino, che lo porta a scoprire un violento mondo sotterraneo e parallelo alla tranquilla cittadina di periferia che pensava di abitare fino a quell’istante. Il bello e il brutto, per il maestro Maruo e per David Lynch, sono indivisibili. È proprio in quel territorio sconosciuto, al confine tra l’uno e l’altro, che trova terreno fertile il genere érotique-grotesque.

L’occhio è continuamente martirizzato nelle opere dell’autore giapponese.
L’animale grottesco

L’autore giapponese mette in scena il suo personale teatro dell’orrore affogato in un romanticismo sfrontato, oggettivato e fuori dal tempo. Solo i giovani e giovanissimi sono generalmente di bell’aspetto; tutti gli altri personaggi infatti, sono corrotti fin nella loro esteriorità. Si tratta di una regola quasi assoluta, che riguarda proprio la condizione di vita dei personaggi-tipo; Per Suehiro Maruo infatti il mostro non è per niente un’eccezione: al contrario, è proprio la condizione umana che mostrifica i suoi personaggi. Li rende depravati all’interno e spesso decrepiti all’esterno (ma possono esistere anche mostri bellissimi).

Paradossali e inspiegabili, i personaggi dell’immaginario del maestro Maruo, si trascinano in un Giappone fantasmatico, senza più alcuna decenza, attinente proprio alla percezione che ognuno di essi ha della propria realtà. In questo senso, Maruo si proietta in una ricerca estetica che rifiuta il normale scorrere del tempo e dello spazio all’interno del manga, delimitato diegeticamente dai quadri che si pongono come confine delle vignette mediante le quali è strutturata la pagina; e ovviamente dallo scorrere delle stesse. In questo modo, si ha come l’impressione che la percezione del tempo sia in un certo senso estranea, sembra che lo scorrere del tempo sia di difficile avanzamento se non che si sia proprio arrestato. Le scene, esattamente come succede in teatro, sembrano cristallizzate e all’esclusivo servizio del lettore. 

Nel Giappone post-imperiale di Suehiro Maruo, non è raro incontrare un pagliaccio che tenta uno stupro su un giaciglio di strada, attorniato da scolopendre e millepiedi attorcigliati in un abbraccio simbolico. Una composizione che, per l’appunto, sembra costruita dall’autore appositamente per arrestarsi alla fine del processo di maturazione e solo così proporsi al lettore. 

Allo stesso modo, le scenografie seguono un criterio di omogeneizzazione costante. Il paesaggio dei manga disegnati da Suehiro Maruo è costituito principalmente da quinte, decori che servono solo a sorreggere la prova d’attore dei propri personaggi. Decadenti, in rovina, brutaliste o barocche, ricercate e romantiche, le scene vertono sempre al racconto unico di Suehiro Maruo, quello surrealista e non-sense.

Divise studentesche, sangue, erotismo
L’animale-occhio

L’occhio, come elemento ricorrente, ricopre un ruolo di primissimo piano nelle opere del maestro Maruo. Da strumento organico per vedere e interpretare il mondo, diventa oggetto-feticcio da leccare. Da coprire, da accecare, nascondere o mutilare. Un chiaro rifiuto, simbolico, di analizzare la realtà per come si presenta. Il primo passo per costruirne una nuova, adattata allo spirito del tempo e ai voleri dei propri fantasmi. 

Oculolinctus, ovvero gratificazione erotica grazie al feticismo dell’occhio

L’occhio, non solo come utensile organico ma anche come sinonimo di voyeurismo, diventa il mezzo privilegiato del lettore – ma allo stesso tempo auto-punito, in quanto mutilato, ferito, accecato – per reinventare le proprie pulsioni nei confronti del mondo esterno. Come aveva già spiegato Dziga Vertov con la teoria del cine-occhio, tutto ciò che è visto dall’occhio e che può risultare conosciuto e banale, acquista un valore nuovo se filtrato dal media. Ebbene, il lettore di Maruo diventa, in senso lato, un vero e proprio voyeur piuttosto che un semplice spettatore. 

Suehiro Maruo opera quindi, attraverso il suo disegno, una ricostruzione della realtà che si avvicina più ad una complessa e distorta interpretazione dell’istinto e dell’antropologia dell’animale-uomo, piuttosto che ad un semplice parto della fantasia.

VV

1 P. P. Pasolini – Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964

The House, analisi e significato

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