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The Last Express: plus ça change…

The Last Express: plus ça change…

  • Edoardo Fumo

  • 21 aprile 2023
  • noninteragire

Parigi, primi anni novanta. Un giovane newyorkese si gode un periodo sabbatico studiando cinema, girando documentari e innamorandosi dell’Europa. Un’amica e collega, raggiungendolo dopo un viaggio notturno in treno da Berlino, interrompe il suo idillio con queste parole:

Tomi […] suggested to me the idea of doing a game that was set on a train. […] She evoked the idea of a train standing in a station at night and said: Look, that’s European 20th century history at a glance1.

Jordan Mechner

Se si potesse racchiudere in un unico aneddoto un’opera complessa come un videogioco, questo appena citato sarebbe la perfetta rappresentazione di ciò che è The Last Express: un’intuizione avuta in uno stato di particolare grazia, macchiata però da una hybris spensierata.

Prince of the Lost 48K

Jordan Mechner comincia a realizzare videogiochi da giovanissimo e in completa autonomia, come tanti altri esponenti della scena garage del periodo. Apple II, la sua piattaforma di riferimento, sarà al tempo stesso casa e maestra: le limitazioni hardware gli insegneranno il game design.

Quelle, e i film.

Il suo desiderio è infatti di riuscire a trasporre il dinamismo del racconto cinematografico nelle proprie opere e Prince of Persia, il titolo che lo porterà al successo, nasce proprio da quest’esigenza. Trovando soluzioni derivative ma geniali e costretto a lavorare di sottrazione, Mechner è tra i pochi designer dell’epoca capaci di utilizzare i verbi del gameplay per raccontare una storia. A testimoniare l’unicità del gioco sarà la nascita di un filone detto “cinematic platform” che però produrrà pochissimi equivalenti (Another World di Érich Chahi e, solo a distanza di molti anni, Limbo e Inside di Playdead).

“I took the videotape of my brother and put that on a TV screen in darkened room. Put a 35mm camera on a tripod, aimed it at the TV screen and then took a picture, did a frame advance on the VCR, took another picture, frame advance, frame advance, frame advance. Then I took that roll of film containing about 35 frames down to the local Photomat […] (2)”

Finito il college e forte dei guadagni e delle royalties ricevute Mechner decide di staccarsi dal mondo dello sviluppo, che lo ha tenuto impegnato nei dieci anni precedenti, per dedicarsi ad altre sue passioni. Questo fino a quando non verrà coinvolto nel “fatal incontro” citato nell’introduzione, una spinta ricevuta in un momento preciso della sua vita che lo porterà ad azzardare su tutto, dai temi al design alla produzione.

Smoking Car

Con i fondi rimasti a disposizione Mechner e pochi collaboratori cominciano a dedicarsi in modo ossessivo al nuovo progetto, un gioco ambientato sull’Orient Express durante la sua ultima corsa avvenuta a pochi giorni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Si decide di essere il più possibile fedeli nella ricostruzione ambientale, riuscendo a mettere le mani su tantissimo materiale che si pensava fosse andato distrutto ma che viene invece recuperato tramite un gruppo di ferrovieri in pensione. Si renderizzano mappe originali, menu e suppellettili del vagone ristorante, lo stesso treno sarà ritrovato in un deposito ad Atene e catalogato in ogni sua parte con centinaia di fotografie.

Questa meticolosità costringe il team a cercare molto presto dei finanziatori e a dover aumentare l’organico fino a sessanta elementi, un numero decisamente importante rispetto alla media degli studi coevi.

The Last Express (1997). A sinistra i dipinti di Alphonse Mucha usati come riferimento per disegnare i personaggi, a destra le prime prove di trucco (immagine di Veronika Zýková, “Story was of first importance”, 25fps.cz, 2012)

La lavorazione è caotica ma salvata da felici intuizioni e colpi di fortuna. Basti pensare che prima ancora di avere un impianto di gioco definitivo vengono effettuate due settimane di riprese, con circa trenta attori, per realizzare tutte le animazioni e le scene d’intermezzo. Questo approccio decisamente inusuale viene però gestito con maestria. Scegliendo per la rappresentazione dei personaggi uno stile Art Nouveau ispirato tanto a Mucha quanto a Toulouse-Lautrec, nonché a disegnatori di Bande Dessinée come Schuiten o Giardino, si opta per una soluzione ibrida.

Per ricreare un effetto pittorico le animazioni sono composte da singoli frame, in modo da poter usare il girato a seconda delle esigenze. Altra accortezza è quella di non aver previsto nessun lip synch, così da non essere costretti dal doppiaggio e lasciandosi la possibilità di cambiare elementi di trama in ogni momento. Gran parte dello sviluppo prosegue costantemente su questo delicato equilibrio, tra ingegno e sregolatezza.

A stranger in every seat

Tanta attenzione nel riprodurre il contesto è una precisa scelta artistica di Mechner che vuole mettere in scena, citando Dumas come ispirazione3, una base credibile e storica per rafforzare una narrazione fictionale.

The Last Express inizia in medias res con il giocatore che si trova, senza nessun punto di riferimento o conoscenza del proprio ruolo, a interpretare un personaggio di cui non sa neanche il nome e che è subito coinvolto nella risoluzione di un omicidio. È in questo modo che si introduce una delle meccaniche principali, cioè l’investigazione. Anche se ascrivibile al genere delle avventure grafiche TLE non ne presenta le caratteristiche ritenute canoniche fino a quel momento, come enigmi ambientali o legati alla gestione dell’inventario, ma fa dell’osservazione logico deduttiva degli altri passeggeri e il confrontarsi con loro, oltre che al frugare tra i loro beni personali, il fulcro del gameplay.

Il principale antagonista è la gestione del tempo, che scorrerà indipendentemente dalle azioni compiute. Tutti gli NPC hanno specifiche routine di comportamento legate all’orario, così come il treno proseguirà la sua corsa in modo inevitabile. Sarà quindi compito del giocatore capire, ricominciando più volte o utilizzando una funzione di rewind (che avrà importanza ancora maggiore nell’opera successiva di Mechner, Prince of Persia: The Sands of Time), dove e quando farsi trovare per ottenere il finale più soddisfacente o per scoprire tutti i segreti dell’Orient Express.

La signora scompare

Tale impostazione prevede quindi una grande attenzione nella scrittura dei comprimari ed è qui che si incontra il principale difetto del titolo. Trovandosi a tre giorni dallo scoppio della Grande Guerra, il treno viene utilizzato come metafora sociale di classe e come rappresentazione di un destino ineluttabile. I suoi occupanti non sono altro che l’espressione della situazione europea prebellica: un industriale tedesco diventato ricco con il commercio di armi, un nobile russo che ha ripudiato tutto per abbracciare l’ideale anarchico e in aperto contrasto con un Conte filo-zarista, un gruppo di rivoluzionari serbi appartenenti alla Crna Ruka coinvolti nell’attentato all’Arciduca Francesco Ferdinando, e molti altri.

A fare da collante a tutte queste storie sarà Robert Cath, il nostro avatar: medico statunitense, poliglotta, un “agente del cambiamento” che con le sue capacità porterà ordine in questo microcosmo composto non esattamente da stereotipi ma più da visioni distorte attraverso un inconsapevole orientalismo.

The Lady Vanishes, directed by Alfred Hitchcock

Pur volendo trovare delle attenuanti, dato che il gioco non vuole essere altro che un giallo con richiami ad Agatha Christie o Alfred Hitchcock, la scelta di creare una cornice così complessa lo trasforma inevitabilmente in un’opera politica che però viene banalizzata da un filtro di esotismo contrapposto al pragmatismo occidentale.

One Way

[Attenzione, questo paragrafo contiene spoiler]

La semplificazione dei valori e delle motivazioni che muovono gli attori della vicenda è ben rappresentato dalla storia che coinvolge Alexei Pyotrevich Dolnikov, l’anarchico, e il suo rivale Vassili Alexandrovich Obolensky. La loro faida resta marginale rispetto alla trama principale, almeno fino a quando Alexei non rischia di far saltare tutti in aria con una bomba. Il suo piano viene sventato da Robert, il quale ne deride anche gli ideali e la dedizione a una causa, mentre nel frattempo si prodiga a curare lo zarista con un magico infuso indiano. La tranche narrativa si chiude con un monito alla Russia che:

“[…] must open up to the world if she wants to survive”

George Abbot, “The Last Express”

sottolineando come debba abbandonare ogni cosa per abbracciare, forse, il capitalismo. Tutto si risolve a suon di slogan, in maniera caricaturale.

Altro momento emblematico a sostegno di questa analisi è la forte demarcazione tra ciò che accade prima e dopo Budapest. Gli eventi di gioco si risolvono quasi nella loro totalità e la loro incidenza si riduce drasticamente: ci sarà una lotta con gli indipendentisti, si abbandoneranno i personaggi non più necessari sganciando parte del convoglio e si vivrà l’inevitabile storia d’amore.

Ah, l’amour!

Il viaggio fino a Costantinopoli attraverso i Balcani dura due giorni ma viene rappresentato in soli due minuti, stridendo con la più volte sottolineata attenzione ai dettagli. Fino a quel punto si è seguito in modo precisissimo l’originale itinerario dell’Orient Express, il gioco stesso ci informa volta per volta dell’ora e del luogo esatti (24 luglio 1914: 19:39 Parigi, 21:16 Eperney, 21:41 Shalon-sur-la Marne, 03:38 Strasburgo; 25 luglio 1914: 10:18 Monaco, 12:45 Salisburgo, ecc.). Varcato il confine ungherese i serbi, con il loro dirottamento, introducono però una forza irrazionale che in qualche modo cancella tutto questo. Il treno non farà più fermate e il tempo diventa irrilevante, quasi a voler indicare l’Oriente come regno ‘libero” e terra di piaceri esotici, che si contrappone all’ossessione occidentale per la puntualità come segno di modernità e sviluppo4.

Nel suo libro “Inventing Ruritania: The Imperialism of the Imagination” Vesna Goldsworthy ci ricorda le parole di Jonathan Harker, l’eroe di “Dracula”, che mentre attraversa lo stesso territorio confida in una precisione degli orari tipicamente vittoriana chiedendosi:

It seems to me that the further east you go the more unpunctual are the trains. What ought they to be in China?5

Jonathan Harker

TLE presenta un’analogia simile, con i Balcani visti come luogo in cui la logica scompare e in cui ci si può lasciare andare liberamente all’amore. I sentimenti prendono spazio e per un breve momento si può fingere di essere qualcun altro.

L’omicidio trova una soluzione “realistica” tra Monaco e Vienna, mentre il finale a Costantinopoli introduce ulteriore esotismo facendo sconfiggere l’ultimo nemico attraverso l’ipnosi e inserendo un elemento esoterico fuori contesto. Se l’omaggio a “Indiana Jones and the Raiders of the Lost Ark” e alla scena dell’Arca dell’Alleanza è evidente, essendo questo un film a cui Mechner è molto legato e fonte di ispirazione anche per il precedente Prince of Persia6, i richiami alla novella russa del Principe Ivan alla ricerca dell’uccello di fuoco non fanno che rimarcare la convinzione di Est come terra del fantastico.

Golden Age

C’è però un ulteriore tematica degna di attenzione, quella della nostalgia. Si percepisce infatti un’affezione verso un’idealizzata età dell’oro prebellica, intesa non come periodo di megalomania o grandeur, ma come momento di globale tendenza verso il Modernismo. Il treno/microcosmo ci ricorda infatti di un momento in cui tutti l’umanità si è trovata insieme, percorrendo una strada inevitabile ma ancora piena di speranza nei confronti del futuro.

L’atomizzazione dei nostri giorni non ci fa rendere conto di quanto la felicità sia collettiva e non individuale, come decenni di dogmi neoliberisti ci hanno insegnato7. Ce ne accorgiamo solo quando un cataclisma, che sia una guerra, una pandemia o una crisi ambientale, sta bussando alla porta.

E allora, per quanto possano essere naif, i personaggi diventano in alcuni momenti persone verso le quali si prova una naturale empatia perché a loro, come a noi, è stato tolto qualcosa.

Ironico che queste sensazioni si trovino nelle storie secondarie che lambiscono marginalmente il percorso del protagonista, in fondo anche lui una vittima di se stesso e della sua “way of life”.

… plus c’est la même chose

The Last Express esce nel 1997, dopo cinque anni di lavoro. Per una serie di contingenze, tra cui la pessima situazione finanziaria del publisher Brøderbund, il gioco non viene pubblicizzato e le copie distribuite sono pochissime. L’investimento di $ 5.000.000, molto alto per l’epoca, rientra solo in minima parte.

Nonostante i limiti, veniali e attribuibili più a delle specifiche influenze culturali tipiche di quel periodo che a mancanze autoriali, è uno degli ultimi esperimenti a grosso budget di un’industria allora ancora capace di prendersi dei rischi. Pochi titoli hanno una così forte impronta espressiva, una precisa direzione artistica tanto cocciuta da sfiorare l’autolesionismo e questo non può che farne un’opera da provare, a prescindere dai gusti.

Come delle scatole cinesi, per continuare a guardare a oriente, giocarlo oggi è come fare un viaggio nel tempo dentro un viaggio nel tempo. Passeggeri affacciati a un finestrino che ci mostra, come nella sequenza dei credits in cui ci vengono fatti vedere su una mappa i cambiamenti geopolitici europei dal 1914 in poi, che più le cose cambiano più restano le stesse.

EF


NOTE:

1, 3, 6 “The Last Express – A conversation with Jordan Mechner”, Stay Forever Podcast, 2019

2 “How Prince of Persia Defeated Apple II’s Memory Limitations | War Stories”, Ars Technica, 2020

4 Vesna Goldsworth,”Inventing Ruritania, The Imperialism of the Imagination”, Hurts, 2013

5 Ibid., pp 97

7 Marcello Tarì, “Non esiste la rivoluzione infelice: Il comunismo della destituzione”, Derive e Approdi, 2017


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INSIDE, tra sogno lucido e sogno ludico

INSIDE, tra sogno lucido e sogno ludico

  • Alfredo Savy

  • 22 ottobre 2021
  • noninteragire

Per raccontare il sogno di INSIDE bisogna partire da qualcosa che non è INSIDE.

We are like the dreamer who dreams and then lives inside the dream.
But who is the dreamer?

Twin Peaks, Part 14, We are like the dreamer.

“Chi è il sognatore?”, chiede Monica Bellucci a un Gordon Cole (David Lynch) in bianco e nero, nella quattordicesima puntata di Twin Peaks (2017, nota anche come terza stagione).

Il tema del sogno – d’altronde – è ricorrente nella cinematografia del regista americano, che molto spesso in carriera ha affrontato il dilemma riguardo i piani della realtà, l’immaginario, la coscienza di sé. Non è il solo specialista della materia; eppure lo scomoderemo come input analitico, utilizzando la sua riflessione per illuminare il lavoro di Playdead, software house danese e creatrice di INSIDE.

Muovendoci per analogia, “Chi è il sognatore?” è una domanda forse ricorrente anche per chi gioca, o ha giocato, INSIDE. Il videogiocatore attraversa le dimensioni e lo spazio del sogno, un ambiente orrorifico, l’inconscio. Ma di chi?

Anche durante la prima esperienza con il titolo Playdead, in uno stato di ingenuità e ignoranza, è facile sentirsi parte di quei luoghi, di quelle paure, di quel sentimento di angoscia e frustrazione che sembra quasi estratto da qualcosa di antico, di conosciuto.
Come se fosse il cuore del terrore di un uomo. O degli uomini.

Per dirla con le parole di un pittore che non ha bisogno di presentazioni,

Se il sogno è una trasposizione della vita da svegli, anche la vita da svegli è una trasposizione del sogno.

René Magritte.

Il rapporto tra sogno e vita è, d’altronde, qualcosa di noto al moderno, il quale ha accettato il collegamento tra due spazi diversi, spesso comunicanti in maniera atrocemente fragile. Il riferimento accademico è sicuramente Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni, Sigmund Freud, 1899), base di larga parte della psicanalisi; e di sogno si parlava anche nel precedente lavoro di Playdead, Limbo (2010). Un sogno in bianco e nero, quello di un bambino. 

Il bianco e nero di Limbo fa tornare all’altro bianco e nero; quello di Twin Peaks, con cui abbiamo aperto questa riflessione e che si lega, tematicamente, al lavoro di Playdead. Come un uroboro.
D’altronde, la domanda ossessiva è la stessa: 

In INSIDE,“Chi è il sognatore?”.

Mutismo, in INSIDE, significa consapevolezza.

[NDA: SPOILERARE INSIDE È PRESSOCHÈ IMPOSSIBILE, DATO CHE È UN TITOLO APERTO A UN NUMERO VASTISSIMO DI INTERPRETAZIONI. QUESTA DELL’ARTICOLO RAPPRESENTA SOLO UNA DELLE TANTE. PERÒ, SE NON L’AVETE GIOCATO E SIETE SUSCETTIBILI, FERMATEVI QUI.]

Il bambino ruzzola dalla montagna sulla sinistra, e il videogiocatore si ritrova improvvisamente nell’incubo. Immediatamente, dall’altra parte dello schermo, viene percepita la sensazione di minaccia, la necessità di correre verso destra.
A guidare le azioni dell’avatar è solo l’istinto: non c’è nulla di detto, in INSIDE. Non esiste un’indicazione a schermo che accompagni il videogiocatore nel tragitto, non una parola per aiutarlo a superare gli enigmi, un tutorial. Non viene mai esplicitato cosa vogliano gli altri. 

La scelta delle caratteristiche del personaggio giocabile non è casuale. La vulnerabilità di un ragazzino contribuisce a spingere l’acceleratore dell’autoconservazione, creando un legame psicologico tra il guidatore e guidato. Bisogna preservarsi, preservarlo. Bisogna sfuggire. Bisogna andare dentro, quasi in preda a una nevrosi da scoperta.

Interminati spazi e sovrumani silenzi.

Insomma, INSIDE è un’esplosione di “show, don’t tell”. Eppure il videogiocatore, passato l’iniziale senso di smarrimento, riesce a sentirsi pienamente a proprio agio all’interno della struttura ideata da Playdead, imperniata attorno al concetto di design sottrattivo. Ogni meccanica è ridotta all’essenziale e strettamente funzionale alla curvatura del racconto, nel senso più ampio del termine: si salta, ci si sposta in grafica bidimensionale, si muovono piccoli oggetti o interruttori, si nuota, si aprono botole, si rimuovono assi di legno. Si gioca con le dimensioni: lo spazio da percorrere, il tempo per evitare i fasci di luce, la velocità da imprimere a certi oggetti per risolvere i rompicapi.
È davvero tutto qui.

Il design sottrattivo non accompagna solo le meccaniche, ma si allarga anche al suono. INSIDE è minimalista in tutto e per tutto. All’interno della miniera, ascolteremo un cuore pulsante capace di smembrare con delle onde d’urto; in quel caso, non esiste segnalazione visiva che avverta del pericolo, ma solo un calcolo basato sul ritmo del luogo.
Ancora, muovendosi tra fluidi diversi, si avverte il passaggio dall’ovattato all’ampio, allo spazioso; anche il solo attraversamento dell’acqua diventa così un’esperienza significativa. 

La curva della difficoltà delle meccaniche di INSIDE è inversamente proporzionale al numero di esperienze in videogiochi simili. Un’obiezione, anticipabile, potrebbe essere che questa è una banalità. In effetti non è che sia proprio una novità; ogni titolo è tanto più semplice quanto più si è fruito di prodotti affini. Esisterebbe, insomma, un ciclo del gameplay strutturalmente condiviso tra parenti, la cui riconoscibilità – e innovatività – sarebbe connaturata al semplice bazzicare l’ambito. E, dopotutto, INSIDE non si discosterebbe da questo paradigma.

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Eppure, la scelta di Playdead appare di straordinaria consapevolezza. Il minimalismo e l’approccio sottrattivo sembrano basarsi sul conoscere le caratteristiche di chi avrebbe fruito del videogioco. L’assenza di una spiegazione delle meccaniche affonda le proprie radici nell’interiorizzazione delle stesse a fronte di interazioni passate. Lo sviluppatore danese sembra quasi urlare, a tratti, “se hai giocato Luigi’s Mansion (o simili) avrai idea di cosa sta accadendo, a maggior ragione nella sua versione stilizzata”. 

Playdead ha optato quindi per una via precisa, diretta, di game design: sottraggo, perché so che sai. Una via che sottende la visione di un tipo di videogiocatore. Forse, si può partire da qui e spingersi anche oltre, utilizzando quest’osservazione per arrivare più in profondità. Dentro. Magari utilizzando una chiave di lettura capace di invadere e svelare l’intera concezione che Playdead ha del proprio mezzo di espressione, e che inevitabilmente ricade anche sul modello di racconto e sul tipo di messaggio che desidera veicolare. 

C’è un filo rosso che unisce Limbo e INSIDE, e su quel filo rosso vale la pena di insistere; d’altronde, il punto è sempre svelare chi sia, questo maledetto sognatore.

Sogno lucido, sogno ludico.

È necessario tornare indietro per andare avanti. Per la precisione, all’inizio di INSIDE, e al momento in cui si assume il controllo del bambino. Esiste pertanto un attimo precedente che non è conosciuto, rappresentato dalla discesa dell’avatar sul fianco della roccia.
INSIDE parte “in medias res”, catapultando il videogiocatore in un’allucinazione.

L’impressione è, quindi, di una presa di coscienza all’interno di un flusso pre-esistente; il che chiama in causa il concetto di sogno lucido.1
Banalmente, un sogno lucido è un sogno in cui il sognatore sa di stare sognando. In questo senso, non teme di scomparire e resiste alle leggi della fisica, tra cui la morte. L’atto di resistere al game-over si avvicina terribilmente al mancato risveglio dal sogno come difesa, che quindi può continuare secondo la volontà e le esigenze del sognatore/videogiocatore.

La partita non si conclude, ma continua perché lo si desidera e si ha coscienza che quella morte non è la morte, ma anzi va vinta per capire il significato più intimo del sogno. E cioè, per vedere i titoli di coda del videogioco.

In questo senso, Playdead potrebbe considerare il videogiocatore come un onironauta, un viaggiatore del sogno lucido; o meglio, del sogno ludico, un sogno che si esprime attraverso le strutture tipiche del videogioco. Per collegarci al discorso del paragrafo precedente, la consapevolezza di Playdead è proprio nell’orchestrare tutto l’impianto di INSIDE sulla similitudine tra sognatore e videogiocatore, con quest’ultimo che avrebbe avuto già altre esperienze di sogno e quindi saprebbe come muoversi attraverso di esso. 

Surrealismi. Golconda di Magritte, in alto; INSIDE, in basso. Il tema è la depersonalizzazione.

Dal punto di vista formale, si spiegherebbe perciò perché lo sviluppatore danese non si senta in dovere di esternare le meccaniche o fornire suggerimenti: non sarebbe una scelta di stile, ma qualcosa di più profondo.

Anche uno dei momenti più belli di INSIDE, quello in cui la “sirena” rende il bambino/avatar capace di respirare sott’acqua, diviene un test: se si è capaci di non morire annegati si è in pieno controllo, vincendo le ultime resistenze della realtà e abbracciando la prospettiva del sogno.

In questo senso, la concezione del Laberge del sogno lucido come senso di liberazione e completamento non può che legarsi intimamente a quella del videogioco quale mezzo di arricchimento e di espansione culturale, in grado di migliorare chi ne fruisce e di indurlo alla riflessione. Più specificamente, si potrebbe anche vedere al termine di INSIDE, con il raggio di sole che finalmente “bagna” il corpo della massa quasi-tumorale.

Quindi, muoversi in INSIDE significa muoversi in un sogno. In effetti, analizzando l’opera di Playdead secondo la concezione freudiana del lavoro onirico, è possibile individuarne i (quattro) meccanismi onirici che la governano. Quelli di condensazione e spostamento, in cui l’iconografia dei lavoratori senz’anima richiama il concetto di sfruttamento e più specificamente il terrore di un mondo grigio e senza arte, composto unicamente da catene produttive; quelli di rappresentazione plastica ed elaborazione secondaria, realizzati da un’immagine che riporta a un concetto astratto, restituendo alla memoria il significato più gradevole possibile al termine del sogno. In effetti, INSIDE si conclude (e dunque si conclude il sogno) proprio con la sensazione del tepore e della libertà, dimenticandosi dell’angoscia precedente.

Respirare.

Stabilito dunque che il videogioco è un sogno e il videogiocatore vive dentro il sogno, è arrivato il momento di capire chi è il sognatore, interrogativo posto fin dal principio. La risposta a questo punto non può che essere scontata: è l’Autore del videogioco. Il videogiocatore si muove coscientemente nel sogno di un altro, accettandone le regole e i compromessi; perde il libero arbitrio, pur di raggiungere il significato positivo del sogno ludico. 

In INSIDE, scorrono davanti agli occhi del videogiocatore le paure più profonde di Playdead che potrebbero essere interpretate, estensivamente, come il terrore (metanarrativo) di uno scadimento dell’industria specificamente videoludica.

Il che solleva un ulteriore quesito: “come reagisce il sognatore/Autore all’onironauta/videogiocatore?”

Post-modernità, sottovoce.

In un breve e interessante articolo di Matteo Sarlo su Globus, viene fatto notare che INSIDE potrebbe essere (anche) un inganno di prospettiva. E se il bambino fosse colpevole, e per questo inseguito? Legando questo spunto alle dinamiche del sogno, è possibile rinvenire tracce del conflitto tipicamente post-moderno tra Autore e Uomo (maiuscolo, perché collettivo).

In effetti, il sogno riceve in maniera negativa la presenza dell’elemento estraneo. Lo invita a uscire, a desistere, mentre il fruitore vuole andare dentro (inside). Lo conduce a fondersi con altri corpi in una massa informe e rovinosa, mentre gli scienziati osservano da fuori. 

Raccontare, raccontarsi, esprimere le proprie paure più profonde, comporta dolore e introduce un meccanismo premiale (cfr. con Nier Automata, di Yoko Taro): solo chi soffre può arrivare al termine del percorso. Anche il finale alternativo di INSIDE si conclude, dopotutto, con l’espulsione dell’onironauta dal sogno, che quindi torna a essere altro e diverso da chi l’ha navigato.

In questo senso, l’immagine precedentemente proposta dell’Ammasso e degli Scienziati, richiama quella dell’Autore che guarda il soggetto (anzi: la moltitudine di soggetti) cui l’opera è destinata. Una moltitudine gommosa e distruttiva, che cerca (inutilmente?) di emanciparsi dal racconto che gli è destinato. 

Gradi di separazione in BioShock (al centro) e INSIDE.

Il grado di separazione costituito dal vetro e dal tema del videogiocatore come esperimento, ricorda in effetti tantissimo la costruzione adottata da BioShock (Levine, Irrational, 2007). In quest’ultimo, l’interazione con gli altri personaggi avveniva sempre in maniera mediata, mai vis a vis: una metafora del rapporto che esiste tra chi il videogioco lo fa e chi il videogioco lo subisce. In maniera non dissimile, Playdead guarda la propria creatura, conduce il proprio sogno, costringendo i Videogiocatori a fuggirne.

Alla fine di INSIDE al sognatore rimane una sensazione morbida, un ricordo etereo, un momento di pace. Dopo aver attraversato miniere pericolanti, fogne spettrali, fattorie malsane è finalmente pronto a tornare alla realtà, alla propria vita, immerso nel verde e nel calore del sole. Muore, sapendo di morire; e stavolta, è pronto a risvegliarsi.
Eppure, in quell’attimo finale si avverte, sorrentinianamente parlando,

L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo.

Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza, 2013.

Era dentro. 

È uscito fuori.

AAS


NOTE:

1Al sogno lucido molto spesso si contrappone il “sogno a occhi aperti”, in cui si è immersi nella realtà ma non si ha consapevolezza totale della stessa. Un esempio? Questo tizio che guida per Tokyo ascoltando Paradise Warfare, dei Carpenter Brut.


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