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Tag: Luis Antonio

Racconti dal loop videoludico

Racconti dal loop videoludico

  • Alfredo Savy

  • 10 dicembre 2021
  • noninteragire

“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che riportano a tre, precise, parole. 

UCCELLI DI MERDA!

È già ieri, Giulio Manfredonia, 2004.

L’eccidio di cicogne perpetrato da Filippo Fontana (Antonio Albanese) in È già ieri (Manfredonia, 2004), è figlio di una crisi che va avanti da un po’. Filippo rivive sempre la stessa giornata, un caldo 13 Agosto; e non potrebbe essere altrimenti, visto che parliamo del remake tricolore di Ricomincio da capo (Groundhog Day, Ramis, 1993), film per eccellenza sul loop temporale.
Il tema non è quindi nuovo all’universo cinematografico e al mondo televisivo: Edge of Tomorrow (Lima, 2014), The Map of Tiny perfect things (Samuels, 2021) e Russian Doll (Lyonne, Pohler, Headland, 2019) ne rappresentano solo alcuni esempi, più o meno validi. 

In alto: Groundhog Day, Edge of Tomorrow, The Map of tiny perfect things.
In basso: Russian Doll.

Il concetto, d’altronde, è semplice. Rivivendo la stessa giornata – o comunque un intervallo definito di tempo – il protagonista può capire cosa gli stia accadendo e cercare di rompere l’anello: insomma, acquisisce conoscenza a ogni riavvio. Conoscenza e memoria sono le due coordinate su cui si sviluppa tutto l’impianto, e le caratteristiche per eccellenza che dividono chi si muove nel loop da tutti gli altri.

Non ci è voluto molto prima che anche i videogiochi decidessero di sedersi a questo tavolo.
La differenza, però, è lampante: mentre nella variante cinematografica abbiamo due fattori, il protagonista – che, come detto, resiste al loop – e il mondo, in quella videoludica ne troviamo tre: mondo, avatar e videogiocatore.
È il videogiocatore che deve conoscere e ricordare, come parte integrante dello stesso gameplay.

Sta poi agli autori dosare sapientemente il rapporto tra avatar e fruitore, rendendo il primo quanto più possibile invisibile nel processo ed evitando spiacevoli situazioni in cui il videogiocatore ha compreso, mentre l’avatar no (o ha dimenticato). Il rischio da allontanare, pertanto, è quello di trovarsi di fronte delle meccaniche non pulite. Di interfacciarsi con un cubo di Rubik che all’inizio affascina ma, su lungo, diventa uno scattoso “fai uscire il colore” a forza di provare e riprovare dialoghi e azioni, fino a quando l’avatar non capisce quello che il giocatore ha già capito.1

La copertina di Twelve Minutes.
Rimanda a Vertigo (Hitchcock, 1958).

In ogni caso, il 2021 è stato un anno di fondamentale importanza per questo genere di videogiochi. Nel giro di pochi mesi sono stati lanciati Returnal, Deathloop, The Forgotten City, Twelve Minutes ed Echoes of the Eye, espansione di Outer Wilds (Mobius Digital, 2019), tutti con il tema del loop al centro dei propri percorsi. Mentre dell’ultimo abbiamo già parlato in passato, tra The Forgotten City e Twelve Minutes è possibile trovare alcune analogie e molte differenze.

La prima cosa che salta agli occhi è che sono giochi sviluppati da team microscopici.
The Forgotten City nasce come una mod di The Elder Scrolls V: Skyrim (Bethesda, 2011), creata da un solo tizio, poi ultrapremiata e infine diventata titolo stand-alone con ben tre persone a lavorarci su (incluso appunto Nick Pearce, fondatore e ideatore di Modern Storyteller); Twelve Minutes è un one-man-show di Luis Antonio, ex dipendente Rockstar Games, su cui Annapurna Interactive ha avuto l’indubbio merito di credere e investire. 

Quindi, possiamo trarre un’importante conclusione: se hai poco tempo, poco personale, pochi soldi, la struttura del loop può venirti incontro. Realizzi un mondo piccolo, ma curato e responsivo; crei una struttura sequenziale/non lineare capace di regolarizzare una durata altrimenti troppo compressa. La conseguenza è che si può far ruotare per scelta l’intero gioco sul concetto (in senso onnicomprensivo) di loop, oppure inserirlo per una questione pratica, dovuta alle necessità produttive e di trama del titolo stesso.
Se questo passaggio non è chiaro, non c’è da aver paura; verrà ripreso in seguito, in quanto argomento pivot.

La copertina di The Forgotten City.

The Forgotten City racconta di un ignoto visitatore, cascato (letteralmente) in una città romana fondata attorno a una sola regola; Twelve Minutes compone un intricato thriller psicologico dal sapore vagamente hitchcockiano.
Entrambi, e a questo punto sarà lampante, donano al videogiocatore l’uso del loop.
Ma non allo stesso modo.

Di affinità e divergenze del loop tra Twelve Minutes e The Forgotten City

[DISCLAIMER: SPOILER]

Andiamo direttamente al punto: la principale differenza tra i due giochi è che in The Forgotten City il loop afferisce al racconto, mentre in Twelve Minutes è parte integrante del concetto. 

L’opera di Luis Antonio tratta il tema del rimorso. E cos’altro è il rimorso, se non una sensazione che insegue una persona, alienandola dal quotidiano? Un uroboro, come quello dipinto in un quadro dell’appartamento del protagonista; uno stato d’animo ricorrente che attanaglia chi ne soffre e impedisce di muoversi in avanti. Il rimorso, quindi, potrebbe essere raffigurato proprio come un loop, un eterno ritorno di una verità che si cerca – inutilmente – di sopprimere.

In questo caso, la rottura del loop acquisisce un significato specifico, e che lavora sul lato simbolico della faccenda (che, d’altronde, appartiene all’intera produzione): quello dell’ammissione di colpevolezza, raggiungendo così una pace interiore rappresentata dalla casa vuota di giorno, con il vociare dei bambini alle finestre. Twelve Minutes consente infatti di spezzare l’anello temporale solo nel caso in cui il videogiocatore porti il protagonista a prendere atto di quanto accaduto, e che avrebbe dovuto fare diversamente. E cioè di aver amato e sposato la sua sorellastra contro il volere del padre, di non averle rivelato della parentela, di aver taciuto della fortuita uccisione del genitore (lasciando che la moglie si disperasse, assumendosi la colpa), di averla infine ingravidata. 

Il loop è concluso, la casa è vuota.

Qualsiasi altra scelta del videogiocatore porta a una continuazione del loop, che riparte dal punto zero (nel caso in cui si decida, nuovamente, di reprimere il passato), oppure prosegue in eterno.

E dunque, ecco che l’impasto diventa coerente. Il videogioco ha la forma di un loop perché il protagonista vive un loop sul piano squisitamente psicologico, restituito iconograficamente con la suggestiva immagine del protagonista braccato dal poliziotto/padre (simboli di Autorità), con a carico una figlia malata di cancro (un terribile male: metafora della gravidanza incestuosa?).
Il game design si accompagna perciò perfettamente con la scelta del topos; le iterazioni successive del videogiocatore lo definiscono quale coscienza del suo avatar, la quale mette in azione i meccanismi analitici necessari a far emergere la verità. 

L’identificazione del videogiocatore come coscienza del personaggio, permette forse di giustificare perfino l’evidente macchinosità del ciclo realizzato da Luis Antonio, da eseguire esattamente in un certo ordine in un determinato lasso temporale. Un passaggio necessario per portare alla luce, come in un processo psicanalitico, ciò che era sapientemente nascosto.
Non basta che la coscienza/videogiocatore, piano piano, acquisisca contezza di quanto accaduto: serve che lo faccia anche l’avatar. 

In Twelve Minutes, la morte del protagonista conduce al riavvio del loop…

Ciò crea una frattura voluta tra le due componenti – descritte in apertura del pezzo – di videogiocatore e avatar; e tale frattura acquisisce un significato notevole soprattutto alla luce dell’impostazione à là Hitchcock della camera, con i personaggi in guisa di burattini mossi da un burattinaio dai fili invisibili, che prova a risolvere l’enigma acquisendo conoscenza e memoria uscendo ed entrando dal loop.

Dicevamo che, in The Forgotten City, la dimensione del loop appartiene a quella del racconto.
Nel gioco di Modern Storyteller, l’anello temporale è strettamente legato ai fatti, come escamotage di Proserpina per condurre l’Avatar/Videogiocatore nella città romana sospesa tra spazio e tempo, rompendo il disegno del suo minaccioso consorte. A differenza di Twelve Minutes, però, non si collega al tema principale del gioco, che è e rimane quello della concorrenza tra giusnaturalismo e giuspositivismo. Un tema esploso tra l’età greca e quella romana (vd. paragrafo successivo).

L’evidenza maggiore che il loop si “aggiunga a” e non sia “il centro di” è rappresentata dalla presenza del game over. Probabilmente a causa della sua origine moddistica, in The Forgotten City esiste una barra della vita e una quantità di danno sostenibile prima che l’avatar muoia sotto i colpi degli NPC ostili. In molti altri giochi sul loop, tra cui appunto Twelve Minutes, alla morte dell’avatar si collega un riavvio del ciclo; al contrario, qui non accade nulla di questo ma semplicemente viene ricaricata la partita. 

…al contrario di ciò che accade in The Forgotten City.

Lo schema classico che può portare al game over è il seguente:

  • viene infranta la Golden Rule dal giocatore o dagli NPC,
  • il magistrato Sentius corre verso il tempio di Proserpina per pronunciare il rituale che riavvia il loop;
  • le statue dorate iniziano a scoccare frecce;
  • se vengono inferiti troppi colpi prima di raggiungere Sentius, allora si muore.

Oppure, più banalmente, si muore anche per una caduta.
Il motivo per cui la violazione della regola non comporta l’immediato riavvio del loop è legato a comprensibili esigenze narrative e scenografiche (le statue che prendono vita garantiscono un bel colpo d’occhio), ma ne sviliscono il peso nell’economia del design del gioco, chiaramente più incentrata su altro. 

Il fatto che il game over non comporti penalità alcuna – tecnicamente, essendo la città d’oro l’aldilà, morire significherebbe la fine della partita – tranne ricaricare il salvataggio, è in linea con altre scelte di design che semplificano il percorso del videogiocatore, ma banalizzano la forza del loop. La presenza di Galerius all’inizio di ogni loop, a cui si può delegare un numero importante di commissioni che, di fatto, riportano lo status del mondo di gioco a quello desiderato dal giocatore in base alle sue precedenti azioni, se da un lato rende molto più immediato avanzare con gli eventi (vero focus di Modern Storyteller), dall’altro fa percepire il loop come una meccanica utile ma che si mescola a strutture differenti.

La lista della spesa di Galerius velocizza il ritorno a un certo status, ma delegittima la meccanica del loop.

Un altro esempio è il quest design che solo determinate volte prevede che si sbagli e si capisca l’errore o si porti un determinato oggetto in un’iterazione successiva. A missioni come quelle dell’assassino (eliminabile inviandolo in un tempio pericolante, dopo aver visto la struttura crollare in un ciclo differente), delle chiavi o dell’arco d’oro ottenibili in un certo loop e spendibili in uno diverso, si associano quest più classiche che portano a (per fortuna poche) sessioni di combattimento o di ricerca di oggetti lungo la mappa. Pur essendo il tutto ben concatenato e comunicante, l’output è unico, spesso raggiunto solo attivando passivamente tutte le opzioni di dialogo e con l’aiuto dei marker. 

Ancora, il fatto che la giornata sia dilatata nella lunghezza – al contrario dei pochi minuti di cui si compone ogni anello di Twelve Minutes – contribuisce a interpretare più classicamente ogni ciclo, evitando un uso intensivo del loop.

Uroboro. Simbolo del loop e del rimorso.

Di Golden Rule…

Il centro dell’esperienza di The Forgotten City, più che sul loop e sulla concatenazione di eventi in quest diverse, è nella qualità dei dialoghi e nella scrittura. Più specificamente, The Forgotten City è un videogioco giuridico, che indaga un tema molto caro alla filosofia del diritto: il conflitto tra diritto naturale e diritto positivo.2
Si potrebbe dire che quest’argomento è addirittura antitetico a quello di un ripetersi continuo delle cose; a differenza del rimorso di Twelve Minutes, i due concetti di giusnaturalismo e giuspositivismo si sono intersecati più volte nella storia classica, medievale e contemporanea, in continua evoluzione.

Volendo partire da una frase sicuramente radicata nella tradizione cristiana dell’Occidente,

Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro.

Vangelo secondo Luca, 6:31.

possiamo agilmente arrivare alla definizione di Golden Rule, o reciprocità: ogni comportamento verso gli altri dev’essere tenuto in funzione di ciò che vorremmo gli altri facessero a noi. Un equilibrio, derivato direttamente dalla divinità e conosciuto dalla ragione umana. Utilizzando lo schema proposto da Tommaso d’Aquino potremmo osservare che questo tipo di struttura è proprio del diritto naturale, per cui il cielo detta e l’uomo trascrive.

In realtà, le radici sono ancora più antiche. Della Golden Rule troviamo traccia perfino nella società egizia e sumerica, e non è peregrino pensare che si tratti dell’ennesimo travaso alla cristianità. Di giusnaturalismo e giuspositivismo si sente parlare dai tempi dei sofisti greci, che dividevano il dikaton in dikaton physei e dikaton ibisei, giusto per natura e giusto per legge; solo con Aristotele, nel libro V dell’Etica Nicomachea, verrà poi scandita pienamente la distinzione tra un giusto per legge, mutevole, e un giusto per natura, in parte immutabile.

Il principio di precauzione, in pillole.

Con l’età romana, non a caso quella in cui The Forgotten City è ambientato, si arriva alla scissione di ius (diritto) e iustitia (giustizia), separando il diritto dalla morale e donando contorni certi, di giustiziabilità, alle pretese dei cittadini di Roma (che comporranno il nucleo del diritto civile).
E, dunque, si sviluppa la distinzione tra un diritto che deriva dalla natura o dalla ragione umana (il diritto naturale) applicabile a chiunque, e un diritto positivo (dal latino positum, posto) che si deve specchiare proprio in quello naturale per potersi dire giusto. 

Sarà la modernità a mettere in crisi questo meccanismo, tramite l’emancipazione del diritto positivo da quello naturale e considerato giusto non per eteroderivazione ma solo e soltanto perché chi emana il comando normativo è legittimato (in senso weberiano) a farlo. E si arriverà alla costruzione di sistemi autoriferiti, il più famoso dei quali è quello di Hans Kelsen, basato su stufenbau e grundnorm.

Torniamo ai videogiochi. Dopo aver chiarito il concetto, è fondamentale sottolineare come The Forgotten City metta in dubbio lo stesso comando normativo su cui si fonda la città. Si può chiedere a tutti gli abitanti cosa ne pensino; e, nel confronto con il creatore stesso della regola, sconfiggerlo in un dibattito socratico. D’altronde la regola d’oro si attiva se il giocatore sceglie di rubare, ma non se un NPC sceglie di suicidarsi; si scatena se di punto in bianco uccidiamo un personaggio, ma non se inganniamo. La Golden Rule sembra non essere valida in ogni sistema di riferimento e impossibile da codificare, spaziando da un’interpretazione restrittiva e testuale della stessa a una estensiva, con tanto di esimenti e cause di giustificazione.

Giusto e sbagliato rientrano solo in parte nel concetto di diritto.

Riassumendo:

  • se la regola non è valida in ogni sistema di riferimento, dipende dal volere di chi la applica;
  • se il contenuto dipende dal volere di chi la applica, è tirannia;
  • una tirannia, che la cittadinanza non ha legittimato, va sconfitta.

La violazione della Golden Rule conduce infatti a un principio di responsabilità collettiva insostenibile per i moderni, che si confrontano con la personalità della responsabilità penale (art. 27, comma 1, Costituzione della Repubblica Italiana).
A ogni violazione della Golden Rule da parte di un singolo, seguirà la punizione dell’intera cittadinanza: tutti verranno tramutati in statue d’oro, in un processo che ha investito i greci prima dei romani, gli egizi prima dei greci e i sumeri prima degli egizi, per poi arrestarsi. Del peccato di uno risponderanno tutti, in solido: una pratica che richiama quella della decimazione. Il Videogiocatore, quale emblema della sapienza post-illuministica e di una certa evoluzione della dottrina giuridica, è quindi chiamato a testimoniarne il fallimento.

Come detto, è questo discorso, più che il loop, a rappresentare il vero punto di fascino di The Forgotten City: apre anche a riflessioni non banali riguardo il set di regole, decise dallo sviluppatore, a cui il videogiocatore sceglie di sottomettersi. E sul perché lo faccia.
Peccato che il discorso metanarrativo rimanga a livello embrionale, fornendo solo suggestioni e non indirizzi precisi.

…e cubi di Rubik.

In apertura abbiamo paragonato questo genere di titoli a un cubo di Rubik che inizialmente intriga ma, sul lungo periodo, costringe a girare e rigirare fino a quando non esce il colore giusto. Giochi che provocano una frenesia galoppante, per la necessità di svolgere azioni meccaniche ormai senza alcun fascino ma necessarie per arrivare alla conclusione.
La padronanza del loop diviene un tallone d’Achille e la morte del desiderio.

Da questo punto di vista, sia The Forgotten City che Twelve Minutes non brillano. Il primo è, talvolta, eccessivamente verboso, manierista e masturbatorio; il secondo, sebbene più coerente con se stesso, è a tratti deprecabilmente ingessato nella struttura e ingenuo nel legare i loop, con animazioni fuori contesto e reazioni del protagonista scollate dagli eventi.

I primi minuti con Twelve Minutes sono puro amore.

Rimangono, però, due ottimi tentativi. Uno cerca di contestualizzare appieno il loop e unirlo alle tematiche del gioco stesso; l’altro di fondere il loop con meccaniche classiche. Tentativi di dare cittadinanza a questa struttura che vanno oltre il sospetto di averla scelta per mascherare budget e forza lavoro limitati, o per cercare fascino a buon mercato.

In fondo, si potrebbe dire, 

“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che riportano a tre, precise, parole. 
“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che riportano a tre, precise, parole. 
“Twelve Minutes, The Forgotten City, il loop”. Tre temi che… 

AAS


NOTE:

1 È un’ultra-semplificazione. L’Autore può benissimo dare spessore all’avatar in contrasto con il videogiocatore. Twelve Minutes in parte lo fa; l’importante è esserne consapevoli.

2 Per approfondire: “Mauro Barberis, Giuristi e filosofi. Una storia della filosofia del diritto, Ed. Il Mulino, 2011”.


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