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Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?
Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?
Elden Ring è senza dubbio il fenomeno del momento, un titolo che è stato in grado di far avvicinare un gran numero di nuovi giocatori a questo genere considerato hardcore.
L’elevato numero di vendite raggiunte ha generato anche numerose discussioni riguardo alla sua struttura. Si sono susseguite analisi e lunghi wall of text relativi alla grossa novità introdotta da From Software rispetto ai vecchi capitoli: ovvero, l’open world.
Moltissimi si sono lanciati in lodi sperticate verso l’open world proposto in Elden Ring, arrivando anche a definirlo rivoluzionario e in grado di settare un nuovo standard. Ma è davvero così?
In questa sede analizzeremo le scelte di level e game design di From Software, per capire se effettivamente si può parlare di rivoluzione o meno.
Elden Ring ha senza dubbio convinto la critica, ma è davvero rivoluzionario?
Un Souls a mondo aperto
Possiamo essere d’accordo nel definire Elden Ring “un Dark Souls a mondo aperto”: ma questo non può certamente essere una frase sminuente. L’introduzione dell’open world in una formula consolidata come quella dei Soulslike, non è cosa da poco. Anzi, la scelta di inserire una struttura simile, in un genere così fortemente identitario, non poteva che comportare delle modifiche. Essere un Dark Souls a mondo aperto è un cosa seria e From Software ha accolto molto bene la sfida, introducendo diversi cambiamenti.
Sebbene la cara vecchia struttura del level design, tipica dei Souls, sia forte e pulsante nei cosiddetti “Legacy Dugeon”, il vero stravolgimento di Elden Ring risiede nella struttura del mondo aperto.
L’open world, infatti, si è tirato dietro una serie di modifiche al game design che rendono l’esperienza di gioco assai differente nel genere. Queste modifiche hanno il preciso compito di alleggerire la navigazione della mappa rendendo il gioco molto più accessibile e fluido rispetto al passato. Le numerose differenze sono capaci di fornire un vero e proprio parco giochi al giocatore più smaliziato che potrà sbizzarrirsi con l’incredibile varietà delle build, mai così ricche e personalizzabili.
Mai prima d’ora un Souls aveva avuto un così alta varietà di possibili build, è semplicemente impressionante.
Proprio questa è la chiave della filosofia di Elden Ring: la costruzione di un level design aperto, variegato, enorme e ricco di luoghi stracolmi di ricompense utili ad arricchire le nostre possibili build. Senza, ovviamente, dimenticare di enfatizzare l’anima archeologa dei più curiosi, i quali avranno una quantità smodata di elementi unici e narrativi che permettono di ricostruire la “storia” di quei luoghi affascinanti e antichi.
Le novità strutturali che rompono col passato
Elden Ring presenta una moltitudine di piccole aggiunte o modifiche alla vecchia formula di From Software, ma le basi di tutte queste micro-novità le possiamo riassumere in quattro macro-scelte di design che hanno, in qualche modo, creato una rottura più o meno forte con l’esperienza tipica dei Soulslike:
- La presenza della mappa
Per la prima volta in un Soulslike il giocatore potrà visualizzare una mappa del mondo di gioco. Nonostante non sia dettagliatissima, rimane comunque un elemento che permette al giocatore di non sentirsi quasi mai sperduto, isolato e senza una via di fuga. A questo si aggiunge anche la presenza di una bussola nella parte superiore dello schermo che fornisce sempre dei punti di riferimento personalizzabili ed extra diegetici, una grossa differenza nell’approccio all’esplorazione.
- Il viaggio rapido attivo fin da subito
Rispetto al capostipite della serie, in Elden Ring abbiamo accesso al viaggio rapido appena riusciamo a sbloccare uno dei numerosissimi checkpoint. Questa scelta precisa permette al giocatore di non dover ripercorrere più e più volte le stesse aree come invece accadeva in Dark Souls o Demon Souls. Il viaggio rapido cambia totalmente il nostro rapporto con il level design, ora non sarà più necessario imparare i vari anfratti ed i passaggi più veloci tra un falò e l’altro, basterà arrivarci solo una volta senza memorizzare i pattern dei nemici e le varie strade e shortcut.
- Il cavallo
In continuità con il viaggio rapido e con la presenza della mappa, il cavallo ci permette di vivere lo spazio del level design in maniera molto più rilassata: i nemici riusciranno molto raramente ad accerchiarci e il nostro destriero ci darà quasi sempre un via di fuga. Inoltre, la presenza di un mezzo di spostamento così veloce rende la morte molto meno punitiva: perdere le nostre preziose rune non è più un dramma, la bussola nella parte superiore dello schermo ci mostrerà addirittura il punto esatto in cui trovare le nostre rune cadute. Non sarà più necessario ricordare il level design per poter tornare nell’ultimo posto in cui siamo morti, basterà salire in groppa a Torrent, puntare le rune utilizzando la bussola e correre verso le nostre rune perdute.
- Mancanza di massicce barriere architettoniche
Nei vecchi capitoli era sempre molto difficile orientarsi e trovare i passaggi giusti per procedere nell’avventura (finestra rotta di Anor Londo parlo proprio di te), ora invece avremo molto spesso la strada spianata davanti a noi e sarà estremamente più semplice farsi un’idea della conformazione della mappa e della dislocazione dei punti di interesse. Inoltre, ci sarà segnalata anche la direzione vaga degli snodi principali dell’avventura grazie alla scia che fuori esce da alcuni luoghi di grazia.
Tutte queste nuove aggiunte collaborano tra loro per fornire un’esperienza di gioco più accessibile, fluida e non troppo punitiva.
La morte non fa più paura, Torrent ci porterà a recuperare le rune in batter d’occhio.
Il viaggio rapido non ci permetterà più di rimanere incastrati a Petit Londo, accerchiati da fantasmi invincibili per chi è appena arrivato al santuario del legame del fuoco, come poteva avvenire in Dark Souls. Il cavallo ci aiuterà a fare del platforming pericoloso in scioltezza e, in caso di morte, nessun problema: torno subito. La mappa, la bussola e la mancanza di barriere non ci faranno mai sentire sperduti e disorientati come in Old Yharnam. Ora siamo spinti ad esplorare, provare una strada nuova e, se incontriamo dei nemici troppo forti, potremo aggirarli o potremo aprire la mappa, selezionare un altro luogo di grazia e provare un’altra via o un’altra area dalla parte opposta del continente. Non ci sono vincoli stretti.
Niente di nuovo, tanto di tutto e grande maestria
Queste fondamentali modifiche strutturali sorreggono un fine ben preciso e ben pensato: dare al giocatore la libertà di sperimentare, sbagliare, riprovare ed esplorare l’immenso mondo di gioco.
Un game design costruito intorno a questo obiettivo diventa degno di nota grazie alla quantità e alla qualità degli elementi che lo compongono; proprio qui Elden Ring si fa capolavoro e diviene qualcosa in più che “un souls open world”.
Elden Ring ha centinaia di Boss Fight, a volte simili tra loro ma mai davvero identiche. La conformazione dell’arena può cambiare in modo sostanziale uno scontro e durante il corso dell’avventura non mancheranno sorprese in questo senso. La quantità del tutto è spaventosa e senza eguali: armamenti, armature, infusioni, ceneri di guerra, potenziamenti, bombe, oggetti per il crafting, talismani, oggetti unici con abilità attive e passive e chissà cos’altro stiamo dimenticando di citare.
Questa impressionante quantità ci spinge all’esplorazione del mondo di gioco, mai così veloce e accessibile, assumendo un connotato assuefacente proprio grazie alla varietà delle ricompense che possono cambiare totalmente la nostra build e quindi anche il nostro modo di giocare. Ma non solo: la quantità è anche nelle ambientazioni. Ci sono tantissimi luoghi, dungeon, rovine, villaggi, caverne e intere regioni variegate, dettagliate e visivamente impressionanti.
Il gioco presenta oltre 100 boss fight, alcune si ripetono ma ognuno di loro ha una particolarità che aiuta a non sentire il peso della ripetizione.
Questa quantità e questa qualità sono il carburante che rende le quattro macro-scelte di design descritte sopra una macchina perfetta. Un videogioco in grado di offrire un sense of wonder eccezionale che poi sfocia nella concretezza dei numeri delle statistiche della propria build, un lavoro pazzesco.
Arrivando al nocciolo della questione, possiamo dire che sono queste quattro macro-aggiunte, in relazione alla quantità e alla qualità dei vari elementi che rivoluzionano la struttura tipica dei souls like.
Ma davvero possiamo parlare, in Elden Ring, di rivoluzione dell’open world in toto o addirittura di un nuovo standard?
Rivoluzione si o no?
Senza nessun dubbio la struttura open world di Elden Ring ha portato delle sostanziali differenze dalla classica formula dei Soulslike. L’esperienza di gioco ricorda tanto il passato ma le novità nel game design sono talmente profonde da stravolgere l’approccio che il giocatore ha sempre avuto con questo genere. La morte fa meno paura, il level design è più aperto, gli spostamenti molto più veloci e la navigazione delle aree molto meno punitiva. L’introduzione dell’open world è stata gestita in maniera egregia da From Software la quale è riuscita, anche grazie ad un massiccio riutilizzo di asset e di animazioni, a inserire una quantità impressionate di ogni singola componente che costituisce il core gameplay. Questa stupenda fusione degli elementi è in grado di creare un costante senso di scoperta e di progressione, sia dal punto di vista della lore che dal punto di vista dell’evoluzione del personaggio.
La mappa di gioco è enorme e densa di luoghi, boss, tesori e segreti di ogni sorta, non ci sarà certamente da annoiarsi.
È bene, però, precisare che tutti questi elementi non hanno un valore rivoluzionario nell’approccio all’open world. La quantità del tutto, la bellezza degli scenari, la cura riposta nella progressione e nel senso di scoperta non possono essere parametri capaci creare nuovi standard o di stravolgere la struttura dei mondi aperti. Sono elementi unici, pensati bene e legati ancora meglio in modo magistrale, ma di certo niente di “nuovo” o “mai visto prima”.
The Elder Scrolls: Oblivion introdusse il Radiant IA: un sistema innovativo di routine e intelligenza artificiale per tutti gli NPC che popolavano un RPG open world 3D, ormai sedici anni fa. Assassin’s Creed nel 2007 cambiò per sempre l’approccio spaziale che il giocatore aveva sempre avuto con il level design, grazie ad un sistema di movimento completamente libero e senza nessun ostacolo. L’anno prima Gears Of War rivoluzionava gli shooter in terza persona con un game design costruito intorno ad un sistema di coperture innovativo e sorretto da un enemy design ad hoc. Zelda Breath Of The Wild nel 2017 immise un approccio all’open world stravolgente, basato sui sistemi, con elementi di gameplay emergente, sistema chimico e di progressione totalmente aperto.
Una rissa scatenatasi in completa autonomia grazie al Radiant IA di Oblivion.
Ecco, sono i sistemi che rivoluzionano il videogioco e settano nuovi standard: non è la quantità, la varietà e il bilanciamento di quegli elementi che abbiamo già visto e rivisto.
Elden Ring fa proprio questo: prende alcuni elementi tipici di altri giochi con struttura open world, li utilizza in modo equilibrato, pensato e preciso, e riesce a costruire un vero e proprio capolavoro, che però non rivoluziona nulla.
C’è un valore in tutto questo, c’è maestria nel fondere così bene questi elementi, nel costruire un videogioco così grande e così dettagliato con un piglio autoriale e uno story telling atipico e riconoscibile. C’è tanto di in Elden Ring, ma non c’è la rivoluzione. E va bene così.
VC
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Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?
Elden Ring è senza dubbio il fenomeno del momento, un titolo che è stato in grado di far avvicinare un gran numero di nuovi giocatori a questo genere considerato hardcore.
L’elevato numero di vendite raggiunte ha generato anche numerose discussioni riguardo alla sua struttura. Si sono susseguite analisi e lunghi wall of text relativi alla grossa novità introdotta da From Software rispetto ai vecchi capitoli: ovvero, l’open world.
Moltissimi si sono lanciati in lodi sperticate verso l’open world proposto in Elden Ring, arrivando anche a definirlo rivoluzionario e in grado di settare un nuovo standard. Ma è davvero così?
In questa sede analizzeremo le scelte di level e game design di From Software, per capire se effettivamente si può parlare di rivoluzione o meno.

Un Souls a mondo aperto
Possiamo essere d’accordo nel definire Elden Ring “un Dark Souls a mondo aperto”: ma questo non può certamente essere una frase sminuente. L’introduzione dell’open world in una formula consolidata come quella dei Soulslike, non è cosa da poco. Anzi, la scelta di inserire una struttura simile, in un genere così fortemente identitario, non poteva che comportare delle modifiche. Essere un Dark Souls a mondo aperto è un cosa seria e From Software ha accolto molto bene la sfida, introducendo diversi cambiamenti.
Sebbene la cara vecchia struttura del level design, tipica dei Souls, sia forte e pulsante nei cosiddetti “Legacy Dugeon”, il vero stravolgimento di Elden Ring risiede nella struttura del mondo aperto.
L’open world, infatti, si è tirato dietro una serie di modifiche al game design che rendono l’esperienza di gioco assai differente nel genere. Queste modifiche hanno il preciso compito di alleggerire la navigazione della mappa rendendo il gioco molto più accessibile e fluido rispetto al passato. Le numerose differenze sono capaci di fornire un vero e proprio parco giochi al giocatore più smaliziato che potrà sbizzarrirsi con l’incredibile varietà delle build, mai così ricche e personalizzabili.

Proprio questa è la chiave della filosofia di Elden Ring: la costruzione di un level design aperto, variegato, enorme e ricco di luoghi stracolmi di ricompense utili ad arricchire le nostre possibili build. Senza, ovviamente, dimenticare di enfatizzare l’anima archeologa dei più curiosi, i quali avranno una quantità smodata di elementi unici e narrativi che permettono di ricostruire la “storia” di quei luoghi affascinanti e antichi.
Le novità strutturali che rompono col passato
Elden Ring presenta una moltitudine di piccole aggiunte o modifiche alla vecchia formula di From Software, ma le basi di tutte queste micro-novità le possiamo riassumere in quattro macro-scelte di design che hanno, in qualche modo, creato una rottura più o meno forte con l’esperienza tipica dei Soulslike:
- La presenza della mappa
Per la prima volta in un Soulslike il giocatore potrà visualizzare una mappa del mondo di gioco. Nonostante non sia dettagliatissima, rimane comunque un elemento che permette al giocatore di non sentirsi quasi mai sperduto, isolato e senza una via di fuga. A questo si aggiunge anche la presenza di una bussola nella parte superiore dello schermo che fornisce sempre dei punti di riferimento personalizzabili ed extra diegetici, una grossa differenza nell’approccio all’esplorazione.
- Il viaggio rapido attivo fin da subito
Rispetto al capostipite della serie, in Elden Ring abbiamo accesso al viaggio rapido appena riusciamo a sbloccare uno dei numerosissimi checkpoint. Questa scelta precisa permette al giocatore di non dover ripercorrere più e più volte le stesse aree come invece accadeva in Dark Souls o Demon Souls. Il viaggio rapido cambia totalmente il nostro rapporto con il level design, ora non sarà più necessario imparare i vari anfratti ed i passaggi più veloci tra un falò e l’altro, basterà arrivarci solo una volta senza memorizzare i pattern dei nemici e le varie strade e shortcut.
- Il cavallo
In continuità con il viaggio rapido e con la presenza della mappa, il cavallo ci permette di vivere lo spazio del level design in maniera molto più rilassata: i nemici riusciranno molto raramente ad accerchiarci e il nostro destriero ci darà quasi sempre un via di fuga. Inoltre, la presenza di un mezzo di spostamento così veloce rende la morte molto meno punitiva: perdere le nostre preziose rune non è più un dramma, la bussola nella parte superiore dello schermo ci mostrerà addirittura il punto esatto in cui trovare le nostre rune cadute. Non sarà più necessario ricordare il level design per poter tornare nell’ultimo posto in cui siamo morti, basterà salire in groppa a Torrent, puntare le rune utilizzando la bussola e correre verso le nostre rune perdute.
- Mancanza di massicce barriere architettoniche
Nei vecchi capitoli era sempre molto difficile orientarsi e trovare i passaggi giusti per procedere nell’avventura (finestra rotta di Anor Londo parlo proprio di te), ora invece avremo molto spesso la strada spianata davanti a noi e sarà estremamente più semplice farsi un’idea della conformazione della mappa e della dislocazione dei punti di interesse. Inoltre, ci sarà segnalata anche la direzione vaga degli snodi principali dell’avventura grazie alla scia che fuori esce da alcuni luoghi di grazia.
Tutte queste nuove aggiunte collaborano tra loro per fornire un’esperienza di gioco più accessibile, fluida e non troppo punitiva.

Il viaggio rapido non ci permetterà più di rimanere incastrati a Petit Londo, accerchiati da fantasmi invincibili per chi è appena arrivato al santuario del legame del fuoco, come poteva avvenire in Dark Souls. Il cavallo ci aiuterà a fare del platforming pericoloso in scioltezza e, in caso di morte, nessun problema: torno subito. La mappa, la bussola e la mancanza di barriere non ci faranno mai sentire sperduti e disorientati come in Old Yharnam. Ora siamo spinti ad esplorare, provare una strada nuova e, se incontriamo dei nemici troppo forti, potremo aggirarli o potremo aprire la mappa, selezionare un altro luogo di grazia e provare un’altra via o un’altra area dalla parte opposta del continente. Non ci sono vincoli stretti.
Niente di nuovo, tanto di tutto e grande maestria
Queste fondamentali modifiche strutturali sorreggono un fine ben preciso e ben pensato: dare al giocatore la libertà di sperimentare, sbagliare, riprovare ed esplorare l’immenso mondo di gioco.
Un game design costruito intorno a questo obiettivo diventa degno di nota grazie alla quantità e alla qualità degli elementi che lo compongono; proprio qui Elden Ring si fa capolavoro e diviene qualcosa in più che “un souls open world”.
Elden Ring ha centinaia di Boss Fight, a volte simili tra loro ma mai davvero identiche. La conformazione dell’arena può cambiare in modo sostanziale uno scontro e durante il corso dell’avventura non mancheranno sorprese in questo senso. La quantità del tutto è spaventosa e senza eguali: armamenti, armature, infusioni, ceneri di guerra, potenziamenti, bombe, oggetti per il crafting, talismani, oggetti unici con abilità attive e passive e chissà cos’altro stiamo dimenticando di citare.
Questa impressionante quantità ci spinge all’esplorazione del mondo di gioco, mai così veloce e accessibile, assumendo un connotato assuefacente proprio grazie alla varietà delle ricompense che possono cambiare totalmente la nostra build e quindi anche il nostro modo di giocare. Ma non solo: la quantità è anche nelle ambientazioni. Ci sono tantissimi luoghi, dungeon, rovine, villaggi, caverne e intere regioni variegate, dettagliate e visivamente impressionanti.

Questa quantità e questa qualità sono il carburante che rende le quattro macro-scelte di design descritte sopra una macchina perfetta. Un videogioco in grado di offrire un sense of wonder eccezionale che poi sfocia nella concretezza dei numeri delle statistiche della propria build, un lavoro pazzesco.
Arrivando al nocciolo della questione, possiamo dire che sono queste quattro macro-aggiunte, in relazione alla quantità e alla qualità dei vari elementi che rivoluzionano la struttura tipica dei souls like.
Ma davvero possiamo parlare, in Elden Ring, di rivoluzione dell’open world in toto o addirittura di un nuovo standard?
Rivoluzione si o no?
Senza nessun dubbio la struttura open world di Elden Ring ha portato delle sostanziali differenze dalla classica formula dei Soulslike. L’esperienza di gioco ricorda tanto il passato ma le novità nel game design sono talmente profonde da stravolgere l’approccio che il giocatore ha sempre avuto con questo genere. La morte fa meno paura, il level design è più aperto, gli spostamenti molto più veloci e la navigazione delle aree molto meno punitiva. L’introduzione dell’open world è stata gestita in maniera egregia da From Software la quale è riuscita, anche grazie ad un massiccio riutilizzo di asset e di animazioni, a inserire una quantità impressionate di ogni singola componente che costituisce il core gameplay. Questa stupenda fusione degli elementi è in grado di creare un costante senso di scoperta e di progressione, sia dal punto di vista della lore che dal punto di vista dell’evoluzione del personaggio.

È bene, però, precisare che tutti questi elementi non hanno un valore rivoluzionario nell’approccio all’open world. La quantità del tutto, la bellezza degli scenari, la cura riposta nella progressione e nel senso di scoperta non possono essere parametri capaci creare nuovi standard o di stravolgere la struttura dei mondi aperti. Sono elementi unici, pensati bene e legati ancora meglio in modo magistrale, ma di certo niente di “nuovo” o “mai visto prima”.
The Elder Scrolls: Oblivion introdusse il Radiant IA: un sistema innovativo di routine e intelligenza artificiale per tutti gli NPC che popolavano un RPG open world 3D, ormai sedici anni fa. Assassin’s Creed nel 2007 cambiò per sempre l’approccio spaziale che il giocatore aveva sempre avuto con il level design, grazie ad un sistema di movimento completamente libero e senza nessun ostacolo. L’anno prima Gears Of War rivoluzionava gli shooter in terza persona con un game design costruito intorno ad un sistema di coperture innovativo e sorretto da un enemy design ad hoc. Zelda Breath Of The Wild nel 2017 immise un approccio all’open world stravolgente, basato sui sistemi, con elementi di gameplay emergente, sistema chimico e di progressione totalmente aperto.

Ecco, sono i sistemi che rivoluzionano il videogioco e settano nuovi standard: non è la quantità, la varietà e il bilanciamento di quegli elementi che abbiamo già visto e rivisto.
Elden Ring fa proprio questo: prende alcuni elementi tipici di altri giochi con struttura open world, li utilizza in modo equilibrato, pensato e preciso, e riesce a costruire un vero e proprio capolavoro, che però non rivoluziona nulla.
C’è un valore in tutto questo, c’è maestria nel fondere così bene questi elementi, nel costruire un videogioco così grande e così dettagliato con un piglio autoriale e uno story telling atipico e riconoscibile. C’è tanto di in Elden Ring, ma non c’è la rivoluzione. E va bene così.
VC
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L’open world come obiettivo ultimo dei videogiochi
L’open world come obiettivo ultimo dei videogiochi
L’open world come obiettivo ultimo dei videogiochi
Un open world? Ancora oggi non è chiaro cosa dovesse veramente essere, almeno nelle menti di Hello Games, il progetto No Man’s Sky.
Fiumi e torrenti di inchiostro sono stati scritti difatti, migliaia e migliaia di parole per cercare di decifrare un universo teoricamente quasi infinito – perché generato da un algoritmo – ma che, alla prova dei fatti, risultava sorprendentemente semplicistico, al limite minimale: la sintesi in tre righe di un libro di mille pagine.
Ebbene, anche in questo ennesimo caso, ricorrendo la storia e la genesi di Sean Murray e di Hello Games, si potrebbe fare una lezione universitaria sul funzionamento distorto della cultura dell’hype; sul marcio meccanismo di marketing aziendale che ingoia qualsiasi progetto che mostra il potenziale minimo dello stupore; sulle aspettative che tradiscono la realtà; sul funzionamento stesso della nostra società e, in ultima analisi, su quello straordinario specchio deformante che è l’immenso – questo sì, stavolta – agglomerato digitale familiarmente chiamato Internet.
In sintesi, è lecito pensare che l’ambiente intorno allo sviluppo dei videogiochi e del suo cosiddetto mercato – la stampa di settore, la fantomatica community degli appassionati, le figure opache degli insider, fino ad arrivare ai veri e propri addetti ai lavori – sia ormai sproporzionatamente presente nel processo di sviluppo, tanto da consentirne, in casi come quello di No Man’s Sky, di deviarne persino l’essenza stessa del progetto.
No Man’s Sky, infatti, era stato concepito a dir tanto come un doppia A – gestito originariamente da appena sei persone – ma fu percepito fin da subito come tripla A, se non addirittura come il “the next big thing” dei videogiochi. Certo, anche grazie alle poco chiare dichiarazioni degli sviluppatori – roba da lasciar praterie libere alle speculazioni incontrollate – e alle promesse, o vere e proprie bugie, sulle caratteristiche del software in seguito non mantenute.
Il meccanismo che ha inghiottito Sean Murray e Hello Games non era però frutto solo delle falsità dichiarate dallo studio inglese ma anche di una sorta di allucinazione collettiva che, correndo spedita sui binari dell’hype, non sentiva ragioni nonostante avesse già da parecchio tempo deragliato.
Come riassume bene Internet Historian in un magistrale video, spesso sono le circostanze che travolgono le persone ma, altrettanto spesso, si trova il modo di rimediare. Almeno in parte:
The engoodening of No Man’s Sky.
Hello Games, da allora, non ha fatto altro che portare avanti il progetto No Man’s Sky nonostante tutto: dapprima nell’assoluto silenzio stampa e in seguito attraverso la comunicazione di un dettagliato programma di aggiornamenti del software. È bastato questo per arrestare la giostra internettiana.
Quando il mondo intero era Fallout:
La base teorica del progetto era semplice quanto ambiziosa: allargare l’open world ad un intero universo generato casualmente. Non c’è bisogno di spiegare quanto questa operazione possa essere assolutamente relativa parlando di ambienti digitali e luoghi virtuali o in campo simulativo in generale. Quello che è rapportabile alla realtà non è, per forza di cose, riproducibile in una simulazione digitale. Nella prospettiva dell’odierna produzione videoludica tripla A sarebbe assurdo anche solo pensare di realizzare una mappa di gioco di uguale o inferiore estensione al capitolo precedente. Infatti, per dirla con le parole di Todd Howard:
Fallout 76 is four times the size of Fallout 4 […] it allows us to have sixteen times the detail.
Todd Howard
Nell’industria si ragiona solo a forza di fattori moltiplicativi.
Allo stesso tempo, viene elaborata una comunicazione – su questi fattori moltiplicativi – capace di esaltare il pubblico fino a fargli letteralmente urlare la propria approvazione, come se si trattasse delle caratteristiche fondanti del titolo ma senza circostanziare tali aspetti.
Insomma: non vengono fornite informazioni che possano spiegare meglio quali vantaggi si presentino per il videogiocatore nel momento in cui avviene una quadruplicazione dello spazio esplorabile. In questo modello di interazione decontestualizzata, la promessa di un’esplorazione potenzialmente libera e infinita di un intero universo poteva sembrare davvero il passo successivo.
The next big thing, per l’appunto.
Avete una mezz’oretta per esplorare l’universo?
Eppure, la teoria è corretta. L’obiettivo ultimo del videogioco, grazie al progresso tecnologico e alla sempre maggiore possibilità di riproduzione e creazione di mondi virtuali, non è più unicamente quello di raccontare una storia – caratteristica che rimane centrale e inamovibile in altri medium – ma la riuscita nella simulazione di uno spazio virtuale dove il fruitore possa incarnare il ruolo dell’esploratore. In altri termini: la libertà assoluta o, almeno, percepita come tale.
E la storia dei videogiochi lo mostra abbastanza chiaramente in termini di evoluzione.
Intendiamoci, il primo Fallout aveva una mappa immensamente più grande (60,917 miglia quadrate) del suo quarto successore (9,743 miglia quadrate), ma si trattava di un mondo di gioco bidimensionale; non gestiva, infatti, la mole poligonale tridimensionale di Fallout4. Nonostante ciò, la mappa di Fallout4 risultava talmente densa, affollata di attività, di scoperte e di vita virtuale che la percezione in grandezza della stessa superava di gran lunga la propria reale estensione.
Quindi la complessità e la verosimiglianza alla realtà dei due titoli non possono essere in alcun modo paragonabili. La concezione della mappa di gioco del primo Fallout, volendo azzardare un paragone, era molto più vicina a quella di un vero e proprio gioco da tavolo, dove il videogiocatore agisce da autentico deus esterno – non a caso sta letteralmente a guardare dal cielo – spostando pedine, tirando dadi, agendo insomma sulla realtà del mondo simulato con un distaccato e divino cipiglio. Quando si è passati alla visuale in prima persona, il cipiglio è andato via perché bisognava combattere per la propria pelle, perché la diversa prospettiva aveva forzato anche una consapevolezza diversa.
Non si tratta peraltro di una questione di preferenze personali o di capacità di immedesimazione del videogiocatore: si tratta proprio di caratteristiche intrinseche, di diverse modalità di rappresentazione. Con il passaggio al 3D del terzo capitolo della saga di Fallout, si è dunque anche virato ad una diversa percezione, cambiando inesorabilmente anche lo spirito del videogioco.
L’open world fino ad oggi è stato un enorme compromesso, in alcuni casi-limite anche un vero e proprio inganno che è arrivato a produrre spazialità desolate e desolanti. Un compromesso che ha portato al paradosso di riuscire a percepire persino la prevedibilità tipica della ripetizione estenuante della stessa attività, il cosiddetto farming, nelle infinite praterie di bit di certi mondi virtuali. Un modo questo di riempire vuoti evidenti del game design e della gestione del tempo di gioco in termini di libertà esplorativa, di attività e di vere e proprie scelte possibili.
Il recente Jedi Fallen Order ci invita ad esplorare cinque diversi mondi in cui poter viaggiare con la nostra astronave, i quali si rivelano essere né più né meno che cinque diverse mappe: spiazzi, corridoi, qualche foresta, alcune antiche rovine, un’astronave spiaggiata. La scelta dello sviluppatore è quella di costruire una spazialità contenuta ma funzionale all’esperienza: le mappe risulteranno quindi insolitamente giuste in estensione, nonostante per gli standard di un qualsiasi tripla A verrebbero giudicate come assolutamente insufficienti.
Mappa delle zone spaziali civilizzate in NMS.
Di qui ci si è chiesti se etichettare o meno il titolo come open world; anche se ne conserva parecchie caratteristiche e costruzioni di game design, è abbastanza chiaro che le dimensioni siano assolutamente relative e che la distinzione tra linear e open world e sandbox vada cercata sicuramente nella libertà di approccio al videogioco. In questo senso, Minecraft segna una rottura formidabile nel percorso, rendendo comprensibile e plastico in una simulazione virtuale, il sandbox, capace di esprimere una manipolazione quasi assoluta dello spazio di gioco in un ambiente virtualmente quasi infinito nelle dimensioni e nelle possibilità.
Libertà versus Narrazione:
È possibile realizzare nel medium videogioco un’oscillazione capace di spostare il focus dalla narrazione alla messa a disposizione di un open world/sandbox totale? In definitiva, sì. Infatti si tratterebbe di realizzare un videogioco perfetto composto solo da un mondo-universo ben piantato, con una grande libertà di movimento e di interazione, in cui tutto il resto è lasciato alla fantasia del videogiocatore: l’essenza stessa del concetto di simulazione in un mondo virtuale.
In ultima analisi è interessante notare come questo modo di intendere il videogioco sia particolarmente vicino alla concezione di gioco di ruolo da tavolo, dove un master guida i giocatori nello svolgimento nell’avventura dopo aver stabilito delle regole comuni che fanno da struttura e canovaccio narrativo. Perché se è vero che il videogioco è da sempre anche cinema, in senso lato, è altrettanto vero che la componente interattiva è l’unica discriminante che gli permette una netta differenziazione. Ed è in mezzo alle sperimentazioni sul rapporto tra videogiocatore e videogioco – non nella narrazione – che si trovano le giuste coordinate per spingere in avanti il medium.
Forse è ancora troppo presto per poter parlare di assoluta libertà per il settore videoludico, ma la sensazione è che alcune pietre fondamentali di questa strada siano state piantate, alcuni importanti esperimenti siano stati fatti e che in definitiva sia la strada giusta da percorrere.
VV
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