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Tag: Red Dead Redemption

The Last of Us, un videogioco di Cormac McCarthy

Ci sono delle storie che si ripetono, in varie forme, per l'eterna importanza che possiedono; e, soprattutto, lo fanno in media diversi. La strada, The Last of Us: opere figlie dello stesso padre, ovvero quel senso di solitudine dovuto alla dissoluzione della comunità e alla ripresa di una certa feralità, propria dello stato di natura.

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Red Dead Redemption II e il problema della modernità

Red Dead Redemption II e il problema della modernità

  • Vincenzo Vecchio

  • 21 gennaio 2022
  • noninteragire

[DISCLAIMER: questo articolo contiene anticipazioni sull’esperienza di Red Dead Redemption II.]

L’alba. Morire, guardando l’alba nascere, è un’immagine simbolicamente perfetta. Talmente ben congegnata, nella sua estrema semplicità, da riuscire a racchiudere in sé buona parte del senso di Red Dead Redemption II.
Arthur Morgan, il personaggio che interpretiamo, termina proprio così la sua avventura: sul crinale di una montagna, guardando il sole che sorge.

[…] son visage mal géré par la nuit

Mort à l’aube di Aimé Césaire

Morire, all’alba.

Muore così il nostro personaggio, a tre quarti scarsi della storia, alla fine di una folle corsa che punta dritto verso l’alto. Arthur Morgan non sale sulla montagna a morire perché affetto da tubercolosi in fase terminale – come farebbe un qualsiasi amerindio, portando compitamente con sè la consapevolezza della fine – ma scala la montagna spinto letteralmente dall’ultimo impeto, sospinto dal torrente di violenza che ne ha accompagnato l’intera vita. È una differenza di approccio rivelatrice, non fosse altro per la sua capacità di descrivere il sanguinoso conflitto tra colonizzatori e colonizzati, tra americani e nativi americani. 

Ma tornando sul piano naturalistico della questione, la vita è notoriamente un ciclo. Proprio in senso biologico. È, infatti, così che in natura si fa spazio al nuovo, al moderno. Morendo.
Il punto focale di Red Dead Redemption II si potrebbe ridurre a questo unico momento. Come in un romanzo dall’epica polverosa di inizio Novecento ambientato nel Selvaggio West – dove l’intero paesaggio si potrebbe sintetizzare in poche assi di legno, ossa invecchiate dal sole ed un continuo movimento stremato di cavalli su spazi infiniti da percorrere – anche in Red Dead Redemption II la natura è protagonista e maestra. Cattiva, persino perfida.
Ed è dunque la natura stessa che pone il problema fondamentale alla banda con a capo Dutch van der Linde: il problema della modernità. 

“We can’t always fight nature, John. We can’t fight change, we can’t fight gravity, we can’t fight nothin’. My whole life, all I ever did was fight…”

Dutch van der Linde

L’horror vacui della natura tende a riempire immediatamente i vuoti del vecchio mondo con il nuovo: ed è in quello spazio sempre più ristretto che una banda di fuorilegge inizia a percepire di essere ormai di troppo. Usurati e usati dalla loro stessa epoca si ritrovano a corto di terreno, a corto di spazio di esistenza, a corto di tempo, senza alcuna argomentazione precisa da opporre allo spaventoso avanzamento della modernità. È lo scontro generazionale tra padri e figli, per chi di figli naturali non ne ha, ma solo una vita di cattività e sopravvivenza da difendere. È lo scontro tra padri e figli all’interno dello scontro delle epoche che si avvicendano. 

Per sottolineare questa incombente e fatalista visione della natura, Rockstar sceglie di utilizzare una costruzione narrativa adattata, estremamente lenta e calcolata, che porta il videogiocatore ad entrare di forza nei meccanismi utili alla comprensione di uno stile di vita talmente diverso dal nostro. Una lentezza narrativa che forza il videogiocatore ad una consapevolezza davvero poco comune nei prodotti di intrattenimento recenti, che allo stesso modo lo risucchia lentamente nelle vite sospese nel tempo dei vari personaggi che abitano l’accampamento. Rockstar riesce in tal modo a catturare l’attenzione autentica del videogiocatore, che non assiste solo ad una serie di episodi di vita western, ma ad una vera e propria epopea raccontata per gradi. 

Il treno è il primo sintomo di conquista della modernità.

Il problema del padre.

La banda dei van der Linde è immersa in un trauma che riguarda padri putativi e bisogno di appartenenza. Dutch van der Linde non fa altro che intercalare ogni frase con la parola figlio quando parla ad Arthur o John. Non fa altro che sottolineare disperatamente quel legame fittizio, che lo rende non solo il capo indiscusso della banda, ma anche la figura paterna di riferimento.

Dutch van der Linde utilizza insomma una mitologia del padre come strumento per creare un inconscio collettivo junghiano che tenga incollata la banda ai propri progetti e voleri. E, considerata la scala di valori personali dei vari componenti, per il quale è lecito rubare, mentire e ammazzare per fare qualche dollaro, si capisce bene che l’operazione messa in atto dal carismatico leader rilevi più sul lato della stregoneria piuttosto che su quello del mero sentimentalismo. 

Arthur Morgan è una sorta di Houellebecq analfabeta, che tenta comunque un’analisi di quello che gli si muove intorno; ma allo stesso tempo non può sottrarsi allo svolgersi degli eventi. Un pessimista, perché consapevole della propria fine, ma anche con una certa voglia di agire. Dutch van der Linde, al contrario, è un pragmatico che scopre la follia. Diversamente dagli altri componenti della banda che hanno un inconscio in comune, quest’ultimo ne possiede uno proprio, ammantato di anarchismo e di rivendicazione permanente.

Il problema del paesaggio.

Come accennato in precedenza, il paesaggio è un affresco sintetizzato di un Selvaggio West figlio del cinema. Non è difficile infatti riconoscere in diverse fasi del videogioco alcuni dei topoï che hanno costruito, nel tempo, l’immaginario che il cinema restituisce del western. La derivazione è presto fatta: Sentieri Selvaggi (1956) per l’essenza, dato che tutto in Red Dead Redemption II parla inevitabilmente con la voce stessa di John Ford, mentre ci fissa con lo sguardo torbido di John WaynePer un pugno di dollari (1964), per i colpi di coda ed alcuni momenti di ciarlataneria, oltre che per l’incredibile gusto per l’estetica del tempo e del ritmo di Sergio Leone. Il buono, il brutto, il cattivo (1966) per definire l’anima stessa dei personaggi, in cui coesistono umanità e brutalità, violenza e cavalleria, stupidità e lealtà.

Klaus Kinski arriva ad affermare che il solo paesaggio veramente affascinante nel mondo è il volto umano1. Rockstar, a malincuore evidentemente, continua a scegliere invece il paesaggio naturalistico come primo e principale luogo dove far cadere lo sguardo, sempre. Una scelta che fa virare l’opera, ancora una volta, verso Sentieri Selvaggi piuttosto che qualunque altro racconto più intimista. Le ragioni sono ovviamente diverse e da ricercare sicuramente anche nell’esigenza di dover realizzare un videogame piuttosto che un film, per l’appunto.

John Wayne e lo sguardo torbido.

E se è vero che Rockstar tende a rendere la natura protagonista, è consequenziale che ne difenda, in tal modo, una posizione quasi conservatrice rispetto al progresso della città. Un progresso che rimane per i fuggiaschi del passato una pareidolia della modernità. La città, Saint-Denis in particolare, diventa dunque agli occhi della banda il boss di fine livello da sconfiggere per arrivare alla conclusione. D’altro canto, se Red Dead Redemption II fosse stato un videogioco arcade degli anni Novanta, si sarebbe sicuramente concluso con un poderoso scontro finale contro un boss-città. 

Per Sergio Leone il paesaggio preferito rimane il volto.

Insomma, quello che Tempi Moderni di Charlie Chaplin cercava di dire con la critica dell’era industriale, Red Dead Redemption lo descrive attraverso un monumentale scontro tra natura e cultura. La violenza infine, di cui è impregnata la quotidianità di tutta la banda, ma punteggiata di momenti di estrema delicatezza, non è altro che una violenza di natura. Come può esserlo quella di un animale selvaggio, una violenza giustificata dalle regole ambientali.

“Yeah, I’ve got violence in me, but no negative violence. My violence is the violence of the free man who refuses to knuckle under. Creation is violent. Life is violent. Birth is a violent process. Tempests and earthquakes are violent movements of nature. My violence is the violence of life. It is not violence against nature, like the violence of the state, which sends your kids to the slaughterhouse, deadens your minds, and drives out your souls!”

Klaus Kinski
The Autobiography of Klaus Kinski (1996), p. 2

Presto o tardi, tutto brucia nel mondo di Red Dead Redemption II.

Non abbiamo nemmeno accennato ad aspetti come gameplay, game design, fisica, insomma a tutto ciò che riguarda l’interazione. L’abbiamo fatto intenzionalmente: nonostante ci interessino anche queste particolarità, volevamo semplicemente focalizzarci su altro. Secondariamente, perché si è già scritto abbastanza su questi aspetti e su Red Dead Redemption II in generale.

In effetti abbiamo preferito, a diversi anni dall’uscita sul mercato del titolo, centrare la nostra attenzione su percorsi normalmente poco battuti.

VV


NOTE:

1 sottintendendo, ovviamente, in particolar modo il suo.


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