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Tag: Rivoluzione

Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?

Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?

  • Vito Carluccio

  • 25 maggio 2022
  • noninteragire

Elden Ring è senza dubbio il fenomeno del momento, un titolo che è stato in grado di far avvicinare un gran numero di nuovi giocatori a questo genere considerato hardcore.
L’elevato numero di vendite raggiunte ha generato anche numerose discussioni riguardo alla sua struttura. Si sono susseguite analisi e lunghi wall of text relativi alla grossa novità introdotta da From Software rispetto ai vecchi capitoli: ovvero, l’open world.

Moltissimi si sono lanciati in lodi sperticate verso l’open world proposto in Elden Ring, arrivando anche a definirlo rivoluzionario e in grado di settare un nuovo standard. Ma è davvero così?

In questa sede analizzeremo le scelte di level e game design di From Software, per capire se effettivamente si può parlare di rivoluzione o meno.

Elden Ring ha senza dubbio convinto la critica, ma è davvero rivoluzionario?

Un Souls a mondo aperto

Possiamo essere d’accordo nel definire Elden Ring “un Dark Souls a mondo aperto”: ma questo non può certamente essere una frase sminuente. L’introduzione dell’open world in una formula consolidata come quella dei Soulslike, non è cosa da poco. Anzi, la scelta di inserire una struttura simile, in un genere così fortemente identitario, non poteva che comportare delle modifiche. Essere un Dark Souls a mondo aperto è un cosa seria e From Software ha accolto molto bene la sfida, introducendo diversi cambiamenti.

Sebbene la cara vecchia struttura del level design, tipica dei Souls, sia forte e pulsante nei cosiddetti “Legacy Dugeon”, il vero stravolgimento di Elden Ring risiede nella struttura del mondo aperto.
L’open world, infatti, si è tirato dietro una serie di modifiche al game design che rendono l’esperienza di gioco assai differente nel genere. Queste modifiche hanno il preciso compito di alleggerire la navigazione della mappa rendendo il gioco molto più accessibile e fluido rispetto al passato. Le numerose differenze sono capaci di fornire un vero e proprio parco giochi al giocatore più smaliziato che potrà sbizzarrirsi con l’incredibile varietà delle build, mai così ricche e personalizzabili.

Mai prima d’ora un Souls aveva avuto un così alta varietà di possibili build, è semplicemente impressionante.

Proprio questa è la chiave della filosofia di Elden Ring: la costruzione di un level design aperto, variegato, enorme e ricco di luoghi stracolmi di ricompense utili ad arricchire le nostre possibili build. Senza, ovviamente, dimenticare di enfatizzare l’anima archeologa dei più curiosi, i quali avranno una quantità smodata di elementi unici e narrativi che permettono di ricostruire la “storia” di quei luoghi affascinanti e antichi.

Le novità strutturali che rompono col passato

Elden Ring presenta una moltitudine di piccole aggiunte o modifiche alla vecchia formula di From Software, ma le basi di tutte queste micro-novità le possiamo riassumere in quattro macro-scelte di design che hanno, in qualche modo, creato una rottura più o meno forte con l’esperienza tipica dei Soulslike:

  • La presenza della mappa
    Per la prima volta in un Soulslike il giocatore potrà visualizzare una mappa del mondo di gioco. Nonostante non sia dettagliatissima, rimane comunque un elemento che permette al giocatore di non sentirsi quasi mai sperduto, isolato e senza una via di fuga. A questo si aggiunge anche la presenza di una bussola nella parte superiore dello schermo che fornisce sempre dei punti di riferimento personalizzabili ed extra diegetici, una grossa differenza nell’approccio all’esplorazione.
  • Il viaggio rapido attivo fin da subito
    Rispetto al capostipite della serie, in Elden Ring abbiamo accesso al viaggio rapido appena riusciamo a sbloccare uno dei numerosissimi checkpoint. Questa scelta precisa permette al giocatore di non dover ripercorrere più e più volte le stesse aree come invece accadeva in Dark Souls o Demon Souls. Il viaggio rapido cambia totalmente il nostro rapporto con il level design, ora non sarà più necessario imparare i vari anfratti ed i passaggi più veloci tra un falò e l’altro, basterà arrivarci solo una volta senza memorizzare i pattern dei nemici e le varie strade e shortcut.
  • Il cavallo
    In continuità con il viaggio rapido e con la presenza della mappa, il cavallo ci permette di vivere lo spazio del level design in maniera molto più rilassata: i nemici riusciranno molto raramente ad accerchiarci e il nostro destriero ci darà quasi sempre un via di fuga. Inoltre, la presenza di un mezzo di spostamento così veloce rende la morte molto meno punitiva: perdere le nostre preziose rune non è più un dramma, la bussola nella parte superiore dello schermo ci mostrerà addirittura il punto esatto in cui trovare le nostre rune cadute. Non sarà più necessario ricordare il level design per poter tornare nell’ultimo posto in cui siamo morti, basterà salire in groppa a Torrent, puntare le rune utilizzando la bussola e correre verso le nostre rune perdute.
  • Mancanza di massicce barriere architettoniche
    Nei vecchi capitoli era sempre molto difficile orientarsi e trovare i passaggi giusti per procedere nell’avventura (finestra rotta di Anor Londo parlo proprio di te), ora invece avremo molto spesso la strada spianata davanti a noi e sarà estremamente più semplice farsi un’idea della conformazione della mappa e della dislocazione dei punti di interesse. Inoltre, ci sarà segnalata anche la direzione vaga degli snodi principali dell’avventura grazie alla scia che fuori esce da alcuni luoghi di grazia.

Tutte queste nuove aggiunte collaborano tra loro per fornire un’esperienza di gioco più accessibile, fluida e non troppo punitiva.

La morte non fa più paura, Torrent ci porterà a recuperare le rune in batter d’occhio.

Il viaggio rapido non ci permetterà più di rimanere incastrati a Petit Londo, accerchiati da fantasmi invincibili per chi è appena arrivato al santuario del legame del fuoco, come poteva avvenire in Dark Souls. Il cavallo ci aiuterà a fare del platforming pericoloso in scioltezza e, in caso di morte, nessun problema: torno subito. La mappa, la bussola e la mancanza di barriere non ci faranno mai sentire sperduti e disorientati come in Old Yharnam. Ora siamo spinti ad esplorare, provare una strada nuova e, se incontriamo dei nemici troppo forti, potremo aggirarli o potremo aprire la mappa, selezionare un altro luogo di grazia e provare un’altra via o un’altra area dalla parte opposta del continente. Non ci sono vincoli stretti.

Niente di nuovo, tanto di tutto e grande maestria

Queste fondamentali modifiche strutturali sorreggono un fine ben preciso e ben pensato: dare al giocatore la libertà di sperimentare, sbagliare, riprovare ed esplorare l’immenso mondo di gioco.

Un game design costruito intorno a questo obiettivo diventa degno di nota grazie alla quantità e alla qualità degli elementi che lo compongono; proprio qui Elden Ring si fa capolavoro e diviene qualcosa in più che “un souls open world”.

Elden Ring ha centinaia di Boss Fight, a volte simili tra loro ma mai davvero identiche. La conformazione dell’arena può cambiare in modo sostanziale uno scontro e durante il corso dell’avventura non mancheranno sorprese in questo senso. La quantità del tutto è spaventosa e senza eguali: armamenti, armature, infusioni, ceneri di guerra, potenziamenti, bombe, oggetti per il crafting, talismani, oggetti unici con abilità attive e passive e chissà cos’altro stiamo dimenticando di citare.

Questa impressionante quantità ci spinge all’esplorazione del mondo di gioco, mai così veloce e accessibile, assumendo un connotato assuefacente proprio grazie alla varietà delle ricompense che possono cambiare totalmente la nostra build e quindi anche il nostro modo di giocare. Ma non solo: la quantità è anche nelle ambientazioni. Ci sono tantissimi luoghi, dungeon, rovine, villaggi, caverne e intere regioni variegate, dettagliate e visivamente impressionanti.

Il gioco presenta oltre 100 boss fight, alcune si ripetono ma ognuno di loro ha una particolarità che aiuta a non sentire il peso della ripetizione.

Questa quantità e questa qualità sono il carburante che rende le quattro macro-scelte di design descritte sopra una macchina perfetta. Un videogioco in grado di offrire un sense of wonder eccezionale che poi sfocia nella concretezza dei numeri delle statistiche della propria build, un lavoro pazzesco.

Arrivando al nocciolo della questione, possiamo dire che sono queste quattro macro-aggiunte, in relazione alla quantità e alla qualità dei vari elementi che rivoluzionano la struttura tipica dei souls like.
Ma davvero possiamo parlare, in Elden Ring, di rivoluzione dell’open world in toto o addirittura di un nuovo standard?

Rivoluzione si o no?

Senza nessun dubbio la struttura open world di Elden Ring ha portato delle sostanziali differenze dalla classica formula dei Soulslike. L’esperienza di gioco ricorda tanto il passato ma le novità nel game design sono talmente profonde da stravolgere l’approccio che il giocatore ha sempre avuto con questo genere. La morte fa meno paura, il level design è più aperto, gli spostamenti molto più veloci e la navigazione delle aree molto meno punitiva.  L’introduzione dell’open world è stata gestita in maniera egregia da From Software la quale è riuscita, anche grazie ad un massiccio riutilizzo di asset e di animazioni, a inserire una quantità impressionate di ogni singola componente che costituisce il core gameplay. Questa stupenda fusione degli elementi è in grado di creare un costante senso di scoperta e di progressione, sia dal punto di vista della lore che dal punto di vista dell’evoluzione del personaggio.

La mappa di gioco è enorme e densa di luoghi, boss, tesori e segreti di ogni sorta, non ci sarà certamente da annoiarsi.

È bene, però, precisare che tutti questi elementi non hanno un valore rivoluzionario nell’approccio all’open world. La quantità del tutto, la bellezza degli scenari, la cura riposta nella progressione e nel senso di scoperta non possono essere parametri capaci creare nuovi standard o di stravolgere la struttura dei mondi aperti. Sono elementi unici, pensati bene e legati ancora meglio in modo magistrale, ma di certo niente di “nuovo” o “mai visto prima”.

The Elder Scrolls: Oblivion introdusse il Radiant IA: un sistema innovativo di routine e intelligenza artificiale per tutti gli NPC che popolavano un RPG open world 3D, ormai sedici anni fa. Assassin’s Creed nel 2007 cambiò per sempre l’approccio spaziale che il giocatore aveva sempre avuto con il level design, grazie ad un sistema di movimento completamente libero e senza nessun ostacolo. L’anno prima Gears Of War rivoluzionava gli shooter in terza persona con un game design costruito intorno ad un sistema di coperture innovativo e sorretto da un enemy design ad hoc. Zelda Breath Of The Wild nel 2017 immise un approccio all’open world stravolgente, basato sui sistemi, con elementi di gameplay emergente, sistema chimico e di progressione totalmente aperto.

Una rissa scatenatasi in completa autonomia grazie al Radiant IA di Oblivion.

Ecco, sono i sistemi che rivoluzionano il videogioco e settano nuovi standard: non è la quantità, la varietà e il bilanciamento di quegli elementi che abbiamo già visto e rivisto.

Elden Ring fa proprio questo: prende alcuni elementi tipici di altri giochi con struttura open world, li utilizza in modo equilibrato, pensato e preciso, e riesce a costruire un vero e proprio capolavoro, che però non rivoluziona nulla.

C’è un valore in tutto questo, c’è maestria nel fondere così bene questi elementi, nel costruire un videogioco così grande e così dettagliato con un piglio autoriale e uno story telling atipico e riconoscibile. C’è tanto di in Elden Ring, ma non c’è la rivoluzione. E va bene così.

VC


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Ci siamo dimenticati troppo presto di Deathloop

Ci siamo dimenticati troppo presto di Deathloop

  • Alfredo Savy

  • 1 aprile 2022
  • noninteragire

La religione dell’istante è un problema della modernità. E pure piuttosto serio.
Ormai almeno una volta al mese fagocitiamo un videogioco, un libro, una serie, un fumetto, un film che viene trattato a destra e a manca come se fosse l’opera definitiva, quella che può avere un lascito fondamentale sia all’interno delle rispettive industrie che nell’immaginario collettivo. Sorpresa: non accade praticamente mai, eppure la società continua a rimanere intrappolata in questo circolo vizioso di subitanea glorificazione e altrettanto repentino abbandono.
Come dite? È un modo più elegante di affermare che siamo tutti bloccati in un loop di consumo? Beh, sì. Ed è piuttosto ironico che a farne le spese – tra i tanti – ci sia finito proprio un titolo che del loop fa la sua meccanica portante: Deathloop, di Arkane Studios (2021).

Fermiamoci un momento. Questa parte dell’articolo va ben ponderata perché è un attimo e si perde il lettore al suono di un poderoso OK BOOMER, con tanto di furioso click in alto a destra (o a sinistra, dipende dal sistema operativo). Un click di disappunto.
Siccome ricevere quest’accoglienza drastica sarebbe un colpo al cuore, puntualizziamo da subito che il tema non è darci di gomito a vicenda rivangando i bei tempi di una volta in cui usciva un capolavoro all’anno ma era veramente un capolavoro mica come oggi. Anzi a dire la verità non ce ne può fregar di meno, ed è un bene che l’industria dell’intrattenimento sia in forma e che sforni prodotti validi con una buona frequenza. 

88/100, altissimo. Persone che ne parlano dopo sei mesi? Quasi nessuna.

Il j’accuse riguarda, invece, i danni che ha portato questo modo di vendere, di commercializzare, che viene ben tollerato dalla stampa di categoria. Ci si aggrappa violentemente al fenomeno di turno, ne si attende messianicamente la venuta, lo si celebra per un lasso di tempo piuttosto ristretto e poi si passa a mangiare l’hamburger successivo. Così è stato anche per Deathloop, appunto. Che ha ricevuto una grossa accoglienza dalle testate nazionali e internazionali, eppure solo qualche mese dopo sembra totalmente sparito dalla discussione, senza che si sia potuta formare una vera critica e un dibattito sui punti di forza (e di debolezza) di questo videogioco.

Eppure ci sarebbe parecchio da dire, su Deathloop. Innanzitutto che è un titolo incredibilmente furbo1, che ha sfruttato la congiuntura di inizio generazione come un’arma affilata e non come un malus, ribaltando il tavolo e rendendo ciò che poteva sembrare un limite un grosso pregio. Poi, che la struttura adottata ha incidentalmente esaltato pure tutte le qualità positive di Arkane, che non sono poche. Infine, che al netto di un modo di raccontare molto traballante, trasmetta un messaggio potente ma con alcune difficoltà nel mostrarsi.

Ah, è pure artisticamente meraviglioso. Vi pare poco?

Friggere il pesce con l’acqua

Qualche tempo fa su questi schermi è comparso un contributo sull’utilizzo di una struttura ciclica all’interno del videogioco, e a cui rimandiamo per le considerazioni generali e i paragoni tra media diversi. Quello che preme sottolineare nuovamente in questa sede, è che tale scelta di Game Design sia particolarmente acuta quando, nel momento di decidere un budget per lo sviluppo di un titolo, si deve tenere in conto che quest’ultimo sarà lanciato su un mercato piccolino qual è quello di inizio generazione. Pur essendo uscito dopo una decina di mesi dal lancio delle nuove console, è impossibile evitare di pensare che la dimensione della base installata (o meglio: la previsione della dimensione della base installata) non abbia influito nella realizzazione di Deathloop. 

Insomma: se sai che i tuoi acquirenti potenziali saranno pochi, puoi fare qualcosa di abbastanza insignificante (sia sul lungo che sul medio periodo) come mascherare una tech demo da titolo completo per mostrare i muscoli dei nuovi hardware, o cercare una soluzione molto intelligente per cavare il ragno dal buco.
Bene, Arkane ha cercato – e trovato – una soluzione molto intelligente.

Letteralmente lo scopo di Deathloop.

La realizzazione della struttura a loop consente, infatti, di riciclare asset e ambientazioni, dando però una consistenza narrativa all’intero impianto. Mediante cambiamenti relativamente importanti nelle mappe – condizioni meteo, ora del giorno, posizione dei nemici, dei boss e del loot – e non particolarmente onerosi da realizzare, si possono costruire degli scenari diversi, la cui staticità è giustificata dall’eterno ritorno dell’uguale. Se si aggiunge a questo disegno il principio dei vasi comunicanti dove i cambiamenti apportati nello scenario A influenzano anche B, C e D, all’interno dei quali è presente una forte espressione del concetto di videogioco sistemico, si capisce perché la ricetta di Deathloop sia quantomeno efficace.

Il level design di Arkane si esprime nella sua forma migliore proprio nel momento in cui è abbinato al concetto di loop. La ripetizione delle mappe permette di acquisire una conoscenza sempre più precisa dei modi di affrontare l’obiettivo, dalle scorciatoie per entrare e uscire dai punti di interesse fino alla posizione degli Eternalisti da affrontare e dei Visionari da eliminare. Il senso di progressione costante è dato dall’infusione delle tavolette e delle armi, che varia l’approccio consentendo di incrociare le meccaniche, con lo scopo di ottenere degli output capaci di andare anche oltre quelli espressamente previsti dagli sviluppatori (caratteristica dei cd. system games, appunto). 

La mappa di Updaam, una delle zone di Blackreef.

Pertanto, la trovata di un Game Design ciclico ha rafforzato i punti di forza della software house francese, rendendo Deathloop un gioco incredibilmente riuscito nel flusso generale e nella costruzione di una curva di crescita coerente, permettendo al fruitore di smussare – loop dopo loop – le proprie debolezze, arrivando a compiere degli omicidi coreografici nel momento in cui la conoscenza gli permette una padronanza perfetta dei sistemi ludici. In effetti, Deathloop riesce in modo così convincente a soddisfare gli obiettivi che si è posto, da indurre a pensare se non sia questa la forma per eccellenza in cui i giochi Arkane trovino la loro massima realizzazione; ed è proprio in Mooncrash di Prey che ne abbiamo altresì apprezzato una forma embrionale.

Paradossalmente, per ottenere questo pacing, lo sviluppatore tende a minimizzare proprio la penalità dell’anello temporale, il cui aspetto negativo consiste nel “temere” la morte quale riavvio e che spinge a giocare in maniera conservativa. Al contrario, la presenza di un numero finito di vite prima del game over, che addirittura si rigenerano a ogni cambio di orario (e quindi di livello), lo avvicina alla frenesia di un arcade game. Questo diventa ancora più evidente nelle fasi avanzate dell’avventura, quando ormai si dispone di un arsenale notevole e di perk che assecondano lo stile che il videogiocatore si è auto-imposto (perché più consono alle sue abilità o più appagante): il muoversi attraverso la mappa con un certo ritmo, conoscendo a memoria ogni anfratto e posizione, rende praticamente impossibile morire e totalmente irragionevole preoccuparsi di questa possibilità. 

Spezza o proteggi il loop. Deathloop contiene una modalità PvP.

Perciò, si potrebbe credere che Arkane a un certo punto abbia sacrificato il loop sull’altare della progressione e del ritmo, trasformando l’intera Blackreef in un parco giochi dove divertirsi a combinare gli strumenti gentilmente concessi dai creatori. Quest’idea sarebbe addirittura rafforzata dalla presenza di una IA poco scaltra e abbottonata, che fa rassomigliare pericolosamente gli NPC avversari a dei birilli, e una conduzione degli accadimenti un pizzico troppo guidata: entrambi questi fattori hanno senso nell’economia complessiva del titolo, ma sviliscono la circolarità dell’esperienza. Sembra, perciò, che già nella sezione mediana della campagna il loop diventi qualcosa che esiste solo sullo sfondo, e che ha un peso unicamente in virtù della conoscenza acquisita in passato: non sarebbe più, quindi, l’elemento centrale del titolo.

Friggere il pesce con Blaise Pascal

A venirci incontro e – almeno parzialmente – a smentire quest’idea, è proprio la funzione della narrativa. Sebbene lo scheletro di Deathloop sia di una semplicità disarmante (uccidi tutti i Visionari in un unico giorno, spezza il ciclo), è il parzialmente detto, e i temi a cui si accompagna, a presentare un certo fascino e colmare alcune problematiche. 

Qualche tempo fa abbiamo discusso di raccordo ludonarrativo sulle pagine di Pop-Eye, definendolo genericamente come l’insieme di strumenti che legano (o cercano di legare) la componente ludica alla narrazione. Bene: è proprio quando si rafforza l’impressione di avvertire un eccesso – fino a diventare quasi totalizzante – del gioco sulle premesse del titolo, nel momento in cui assurge a solida realtà il dubbio di aver smarrito la centralità del loop per poter fruire di un ingranaggio gameplay-istico così intrigante e bilanciato, tramite l’eredità dei perk e delle armi da un ciclo all’altro, che emerge la natura strettamente narrativa di Deathloop. 

Il fruitore, insomma, inizia a capire che cos’è Blackreef e di che cosa parla questo videogioco.
E scopre che è tremendamente simile a qualcosa già detto sul finire del Seicento:

L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte.

B. Pascal, Pensieri, n. 171.

Non esistono, probabilmente, molte realizzazioni più plastiche del concetto di divertissement pascaliano rispetto all’isola in cui è ambientato Deathloop. Un luogo dove vivere l’eternità smarrendosi in essa, perdendo la capacità di ricordare tra i cicli e in cui ci si abbandona all’unica attività che l’uomo è in grado di produrre per non riflettere sui problemi che lo attanagliano: distrarsi. Blackreef è una perenne festa, si crogiola nella ludopatia più esasperata, nel fine a se stesso. Perfino le attività dei Visionari, i mecenati che dirigono il programma AEON, appaiono ricorsive, inconcludenti, velleitarie. In poche parole, futili. E, come nello spartito del filosofo francese, condurranno tutti – senza allarmi – alla morte.

A questo punto, il videogiocatore che inizia a trattare Blackreef come un luna park perché è diventato grande e forte, che scava nelle sue profondità fatte di bunker segreti a mò di Lost (Abrams, Lindelof, Lieber, 2004), che la rivolta come un calzino cercando di migliorare il suo arsenale e le sue possibilità, che se ne fotte della morte, non si sta allontanando dalle premesse concettuali di Deathloop; anzi, le sta espressamente perorando.

È diventato un edonista del gioco ormai modellato a sua immagine e somiglianza, e si rispecchia in esso per sfuggire dalla noia. Insomma, è un Visionario, esattamente come Colt prima del controllo. Ed ecco il nostro raccordo ludonarrativo.

A chi sta parlando, esattamente?

Ancora, è proprio la noia un altro elemento che caratterizza la gente di Deathloop. Viene quindi naturale il paragone con La noia (Moravia, 1960), in cui viene descritto questo stato d’animo:

La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.

A. Moravia, La noia, 1960.

In effetti è proprio il distacco dal reale che genera l’universo di Deathloop, la necessità di separarsi da un mondo probabilmente sul baratro dell’Apocalisse, o che l’ha addirittura superato. Le pedine di Blackreef appaiono come nulla più e nulla meno che annoiati borghesi, la crema di una società finita ma ancora capace di prendersi in giro – almeno nel nostro tempo – fino agli anni Ottanta del volere è potere.

Un ripudio orgiastico (nel vero senso della parola) dell’esistenzialismo, in cui la domanda sul significato dell’esistere è ormai totalmente smarrita. La noia porta con sé addirittura la perdita della memoria; in effetti anche il videogiocatore non sa più cosa ha fatto prima di svegliarsi sulla spiaggia. Solo l’uccisione, intesa come sopraffazione più brutale dell’uomo sull’uomo, permette di ricordare. E, come gli Eternalisti, anche il videogiocatore vuole allontanarsi dalla sua realtà per godere di uno spazio infinito.

Un esempio di narrazione autodiegetica. Divertente.

La stessa estetica di Blackreef, così brillante, positiva e figlia degli anni Sessanta (casualmente il periodo in cui il Moravia rifletteva a sua volta su temi simili) inizia ad apparire presto volutamente dissonante rispetto al cosa si vuole veicolare. Va sottolineato, però, che il messaggio non emerge mai in tutta la sua potenza: Arkane non appare in forma smagliante, e la commistione tra una narrazione fortemente diegetica nei menù e nelle frasi a schermo spesso non comunica bene con lo “show, don’t tell” tipico degli audiolog o dei file di testo. Lo stesso finale si presenta troppo anticlimatico e sintetico, sebbene interessante nei suoi riverberi metanarrativi in cui il gioco viene terminato perché non più divertente.

Friggere il pesce con la Rivoluzione

Il lascito di Deathloop non è, quindi, banale. Non lo è per l’esaltazione di un gameplay perfettamente bilanciato mediante l’uso del loop a cui si accompagnano dei meccanismi sistemici decisamente validi, e men che meno nell’immagine del mondo come luogo ludico dei borghesi annoiati. 

Da questo punto di vista, l’eredità del videogioco di Arkane non può essere sottovalutata: insegna a spezzare una routine, ad assumersi le responsabilità del cambiamento e a reagire. Insegna a fare la Rivoluzione. D’altronde Deathloop, pur mascherandolo abbastanza bene con una narrativa fin troppo diluita e diverse sovrastrutture, rimane un gioco con un certo sottotesto politico.

I Visionari. Artisti, scienziati, imprenditori. Tutti annoiati?

Il termine rivoluzione – dal latino revolutio – indicava inizialmente un movimento degli astri celesti che si concludeva nel punto di partenza, per poi ricominciare: un loop, appunto. È solo nella concezione moderna che ha assunto un significato diverso e antitetico, cioè di rottura dell’ordine delle cose. I concetti di circolarità ed eversione sono legati indissolubilmente; in questo senso, un titolo che parla di rivoluzione, legandola alla rottura di una struttura (anche ludica) ad anello, sembra aver colto decisamente il cuore della questione.

D’altronde non si può non notare come, tra i vari anelli da spezzare, ci sia anche quello del consumo di cui discutevamo in apertura: questo è pur sempre un pezzo sul loop, eh.
Che ha visto proprio in Deathloop una delle ultime vittime di cotanto meccanismo perverso, il quale non permette di focalizzarsi per davvero su qualcosa prima di passare alla successiva. E che ci ha portato troppo presto a dimenticare questo gran lavoro di Arkane.
Adesso, però, è tempo di ricordare.

AAS


NOTE:

1 È talmente furbo da aver riciclato gli asset di Dishonored ponendosi nello stesso universo, come emerge da una presentazione di Bethesda.


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