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Tag: Road 96

Kentucky Road 96: di prospettive su viaggio e libertà

Kentucky Road 96: di prospettive su viaggio e libertà

  • Francesco Farina

  • 22 luglio 2022
  • noninteragire

Kentucky Route Zero e Road 96 sono due videogame profondamente diversi. A onor del vero, esiste un dibattito sulla legittimità stessa dell’attribuzione del termine “videogame” a Kentucky Route Zero, che può più propriamente essere definito un’opera di ludonarrativa1, essendo fornito di un gameplay scheletrico. Ciononostante, è possibile rilevare alcuni tratti comuni ai due titoli, a partire dal fondamentale tema del viaggio. Proviamo allora ad esplorare questi tratti, capendo al contempo come è possibile, forse come è facile, raccontare storie così tanto diverse a partire da elementi associabili.

Il viaggio, la libertà e la dissoluzione dell’American Dream

[DISCLAIMER: l’articolo contiene moderati spoiler su Kentucky Route Zero e Road 96]

Dovrebbe essere già sufficientemente chiaro dai titoli, con il termine Route/Road a fare da trait d’union. Nell’immaginario statunitense (e di riflesso, per forza di cose, un po’ anche nel nostro), il termine Route è quello delle grandi strade che collegano il Paese, ed è dunque metonimia per viaggio, esplorazione, scoperta.

La celebre Route 66, a cui senz’altro anche la Road 96 fa riferimento, è per antonomasia la strada dei sogni e della speranza. È anche, però, la strada di chi scappa e cerca una meta, della fuga per la libertà e di chi è alla ricerca di un fine proprio:

66 is the path of a people in flight, refugees from dust and shrinking land, from the thunder of tractors and shrinking ownership, from the desert’s slow northward invasion, from the twisting winds that howl up out of Texas, from the floods that bring no richness to the land and steal what little richness is there. From all of these the people are in flight, and they come into 66 from the tributary side roads, from the wagon tracks and the rutted country roads. 66 is the mother road, the road of flight.

John Steinbeck, The Grapes of Wrath, Cap. XII.

La Route 66 è anche però nota per il suo declino, sostituito dalle più efficienti Interstate Highways, comportando così il tracollo delle economie delle città che avevano la loro raison d’être proprio nei servizi che potevano offrire al costante flusso dei viaggiatori in transito. Tracce di questo sono riscontrabili addirittura in Cars, il film Pixar del 2006 che ruota intorno alle fortune ormai perse di Radiator Springs, piccolo centro (probabilmente) situato in Arizona, che trova nell’arrivo del famoso protagonista un’occasione di rinascita proprio dopo il crollo della propria economia in seguito al decomissioning della Route 66.

La Route americana è, quindi, sinonimo di speranza e dolore, scoperta ed abbandono, in un dualismo senza fine che è lo stesso delle città che attraversa: dai grattacieli e il degrado di Chicago, fino alla sfavillante California, passando per il decadente Midwest e le polveri degli Stati del sud. La Route è quindi contraddittoria: contiene, insieme alla possibilità di riscatto, il ricordo di una passata grandeur, ma al contempo profuma di sogni infranti e di un futuro scuro. È in questa ambivalenza, in questo mescolio di libertà e fallimento, di salvezza e di agonia – il tutto sotto la lente del viaggio di speranza in una terra desolata e abbattuta dagli eventi – che possiamo trovare il vero punto di contatto tra Kentucky Route Zero e Road 96.

La Route 66 ha colpito profondamente la cultura popolare USA, anche nella musica.

La libertà non è un pranzo di gala

Road 96 è un gioco odiosamente imperfetto. Fortunatamente, è quel tipo di imperfezione che, fra ingenuità di scrittura e approssimazione nel gameplay2, incastona momenti di rara grandiosità. Il gioco tratta di un manipolo di giovani senza nome che, assoggettati a un distopico regime totalitario, provano a fuggire dal Paese d’origine, passando proprio dalla salvifica Route 66 del titolo. Che assurge, quindi, al ruolo di crocevia di tutti i loro percorsi, e di porta della libertà.

Il regime è descritto con pochissimi dettagli di merito: corruzione, campi di lavoro, stampa asservita. La descrizione di Petria, il Paese in cui tutto si svolge, è pensata per non dare indicazioni chiare sulla weltanschauung che anima il feroce dittatore Tyrak. L’assenza di un’evidente ideologia politica non è casuale, ma funzionale alla creazione di un non-luogo summa di tutte le storture di un totalitarismo; l’escamotage è funzionale a porre l’enfasi sulle esperienze personali dei piccoli “senzanome”, i ragazzini in fuga che ci troveremo a comandare.

Gli NPC del gioco ne saranno la croce e delizia, per via delle possibilità narrative che aprono ma anche di una scrittura spesso deludente.

Questa particolare scelta di design ha i suoi pregi. Senza concentrarci sul contrastare l’ideologia del leader, magari mettendoci in mezzo i nostri bias personali, possiamo vivere davvero quello che affrontano i ragazzi: povertà, nostalgia di casa, paura della polizia. Il potere di immedesimazione, in queste circostanze, è ammirevole, tanto da farci davvero interrogare su quanto sia doveroso difendere un giovane sconosciuto con gli stessi sogni di libertà di chi lo controlla, e magari solo un poco più idealista, dagli attacchi di una polizia che, nella realtà, non esiterebbe un secondo a catturare anche il giocatore stesso, mandandolo incontro a morte certa senza possibilità di perdono (né da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, né dal permadeath del titolo).

Il susseguirsi di personaggi diversi permette anche un moderata, ma apprezzabile, spazio di role playing all’interno dei molti scenari generati proceduralmente, tutti svolti all’interno di Petria; la quale, nel suo aspetto esteriore, vuole essere una replica degli USA e della Route 66. Con le sue pompe petrolifere, diner, paesaggi che vanno dal deserto ai boschi di conifere, sembra infatti ricondursi agli USA, in una versione particolarmente decadente.

Da un punto di vista estetico i richiami ad una versione particolarmente decadente degli States.

Se quindi il viaggio è al centro del tema del gioco, e se in ogni circostanza non possiamo che sentire l’anelito di libertà che si nasconde dietro i nostri ragazzi e, probabilmente, dietro i developer, una certa povertà di scrittura corrompe gli svariati tentativi di celebrare la libertà vera e propria, e anzi in più di un passo finisce per minare il messaggio sottostante. Tralasciando le incommentabili sezioni di gameplay, aldilà delle macchiette stereotipate che sono i personaggi principali, addirittura andando oltre certi assurdi siparietti comici probabilmente pensati per alleggerire l’esperienza e che risultano al contrario agghiaccianti3, il problema di Road 96 è l’assoluta, infantile schematicità delle “scelte politiche” possibili.

La totale astrazione del sistema politico di Petria aggrava questa situazione, e tutto finisce per sembrare parossistico, perdendo molto presto ogni possibile mordente. La libertà, così facendo, viene svilita e impoverita, ridotta a reclame da volantino. Un gran peccato, considerando gli spezzoni davvero potenti che Road 96 è in grado di regalare in quegli scenari in cui decide di prescindere dalla politica e concentrarsi sulla pura ricerca di salvezza, solidarietà e amicizia all’interno di un viaggio. Una libertà che finisce per essere quindi in parte ben raccontata, in parte platealmente castrata. Diversamente da quanto accade nell’altro titolo di questo approfondimento, e cioè Kentucky Route Zero.

L’avventuroso viaggio verso il civico di fianco

Kentucky Route Zero è all’opposto dello spettro, rispetto a Road 96. Dove Road 96 è concreto, duro e polveroso, Kentucky Route Zero è invece un continuo mistero, un’opera di realismo magico sempre sollevato di un passo rispetto al nostro mondo, ma ancora capace di raccontare la durezza della realtà. Nel suo incedere episodico, i protagonisti ci mostreranno stralci della loro vita e dei segni che ha lasciato sulla loro persona, mentre il viaggio, in questo caso, si intarsierà di eventi man mano più surreali. Si tratterà di piccole cose, piccole realtà che gravitano intorno alla necessità del primo protagonista di realizzare una consegna, l’ultima della carriera, prima della chiusura dell’antiquario per il quale lavora. A lui presto si accompagnerà una donna in cerca di sé, e via via altri personaggi, in un riuscito misto di semplicità umana e irriducibile complessità dell’essere.

Il primo elemento da sottolineare è proprio questo misto di semplicità e astrazione, di dignitosa povertà e al contempo di infinita poesia, che rappresentano un unicum nel medium videoludico. Vengono in mente le parole di Christian Bobin:

Cerco di raccogliere delle cose poverissime, apparentemente inutili, e di portarle nel linguaggio. Perché credo soffriamo di un linguaggio che è sempre più ridotto, sempre più funzionale. Abbiamo reso il mondo estraneo a noi stessi, e forse ciò che chiamiamo poesia è solo riabilitare questo mondo e addomesticarlo di nuovo.

Christian Bobin, Abitare poeticamente il mondo (Le platrier siffleur).

È questo lo scopo di Kentucky Road Zero: riappropriarsi delle cose più semplici e restituire a noi tutta la loro piena statura, pregna di mistero, significato e bellezza. Il contesto che sceglie, per rivalutare il reale, è proprio quello del viaggio. Un viaggio lungo in prima battuta i paesaggi del Kentucky, compromessi e abbandonati sulle vestigia di una altra grande strada, la Interstate 65 che, con la Route 66, condivide Chicago come capolinea a nord.

Dopo le fasi iniziali, il viaggio si sposterà sulle strade di quella Route 0 che dà il nome all’opera: una strada sotterranea, inesistibile, la cui struttura incomprensibile sembra modificarsi ad ogni nostro passaggio, in un crescendo di surrealtà sempre più marcate, fuori dalle possibilità della fisica e della logica. La pacatezza e semplicità dei protagonisti principali di fronte a tutto, con la ferma ambizione di completare la consegna, non farà altro che rafforzare questo senso di profondo mistero diffuso per tutta la durata del titolo, riempiendoci di immagini evocative e di una bellezza antica.

Il viaggio in Kentucky Route Zero è, quindi, molto più mistico e onirico rispetto a quello di Road 96, pur rimanendo radicato nella realtà. Anche in quest’opera, però, il tema della libertà è fondamentale, sia come orizzonte ultimo che, come vedremo, nelle meccaniche. La libertà in primo luogo è quella del principale protagonista, lo sbiadito Conway.

Nel dipanarsi degli eventi capiremo anche il valore che ha per lui quest’ultima consegna, da realizzare in questa misteriosa ed introvabile Dogwood Drive 5. Non si tratta di semplice senso del dovere: Conway vuole completare il suo lavoro per essere finalmente libero dai suoi demoni, dai suoi errori che sembrano assediarlo.

Con la sua estetica Low-Poly, Kentucky Route Zero accosterà sempre situazioni quotidiane e surreali.

Ex alcolizzato, il nostro fattorino lavora per un negozio di antiquariato gestito da un’anziana, con cui sembrerebbe aver avuto impliciti trascorsi. La donna (Lysette, questo il suo nome) ha ormai ineludibili problemi di senilità, e il suo negozio è prossimo alla chiusura. La sua famiglia è ormai morta, e il figlio Charlie è deceduto cadendo da un tetto su cui stava lavorando in luogo di Conway, probabilmente troppo ubriaco per presentarsi al lavoro quel giorno. Con questi presupposti, è chiaro che completare quest’ultima consegna ha un orizzonte liberatorio e salvifico, per il nostro fattorino.

La centralità attribuita ad una azione così banale, in un contesto di aquile gigantesche, barche-mammut e realtà virtuali semi-coscienti, sembra proprio avere la finalità di rimettere la vita vera, le “cose poverissime” di Bobin, al centro del discorso. Lo scopo ultimo è proprio riappropriarsi del mondo che, anche in questo Kentucky Route Zero come in Road 96, sembra ormai perso e di proprietà della pura “funzione”. Tanto perso che gli immensi apparati burocratici hanno ormai fagocitato tutto all’interno della Route 0, al punto che la cattedrale della zona è stata requisita e resa sede per un improbabile “Bureau of Reclaimed Spaces”.

Questo obiettivo, unitamente alla sua estetica low-poly, giocata tutti su luci e prospettiva, ricordano da vicino l’opera fotografica di Fan Ho, artista cino-hongkonghese:

A Fan Ho non importa raccontare lo sviluppo incontrollato, disumanizzante, a seguito di una crescente sovrappopolazione, a lui interessa recuperare lo spirito di una identità collettiva già compromessa. Nelle sue foto non c’è caos né disordine né, come vedrete, sono affollate: pochi soggetti, a volte uno solo, strade pressoché vuote, come a rimarcare la supremazia dell’uomo sul suo contesto.

Giuseppe Cicozzetti – Scriptphotography

La similitudine estetica non è certamente un caso. Non perché gli sviluppatori di Cardboard Computer si siano ispirati a Fan Ho, quanto perché l’obiettivo comune di ridare centralità all’esperienza umana prende, nelle due opere, le stesse strade, vuole raggiungere gli stessi obiettivi.

Le somiglianze estetiche fra Kentucky Road Zero (a sinistra) e Fan Ho (a destra) derivano dalla medesima passione per l’uomo.

Anche in Kentucky Ruote Zero c’è lo spettro dello sviluppo disumanizzante. Uno spettro che prenderà corpo, sconfiggendo Conway, che ricadrà nel demone dell’alcol divenendone letteralmente schiavo, finendo inglobato nei mostruosi ingranaggi di una azienda che produce whisky.

Conway perderà dunque le sue sembianze umane, divenendo un ibrido spettro/automa, di nuovo in un eterno lavoro senza uscita. Ancora: le grinfie del capitalismo senza scrupoli faranno pesantemente capolino nel racconto del crollo di una miniera e delle relative tragiche conseguenze sulle comunità intorno alla Route Zero. Ciononostante, lungo la sua interezza, Kentucky Route Zero non smette mai di esternare un gusto pieno per la vita, anche nelle sue sfaccettature più dolenti e tragiche, che proprio nella semplicità della quotidianità, all’interno di una comunità sempre più allargata che esplode sul finale, sembra reclamare quel recupero dell’identità collettiva apparentemente compromessa dal disastro avanzare degli eventi.

La regalità sociale della quotidianità

C’è un secondo spiraglio di libertà, che si apre nel procedere dell’avventura. Una libertà più sottile, che si contrappone direttamente alla “castrazione” della libertà descritta per Road 96. In Kentucky Route Zero non c’è una vera e propria “possibilità di scelta”: è possibile, piuttosto, scegliere fra diverse opzioni di dialogo che, anzichè impattare sullo sviluppo della trama, saranno specchio della nostra attitudine all’esperienza.

Fin dal principio, e in misura crescente rispetto all’aggiunta di altri compagni, le nostre scelte di dialogo parleranno di noi, della nostra fretta di arrivare al punto, del nostro desiderio di scoprire Conway o di comprendere i misteri impossibili della Route 0. Spesso, scegliendo l’opzione di dialogo di Shannon – prima compagna ad aggiungersi a Conway e secondo personaggio per importanza – daremo una scossa di pragmaticità al discorso, laddove Conway si perderà spesso in racconti del passato e domande personali all’interlocutore. Junebug, conturbante cantante dallo stile punk, ci permetterà, con il suo black humor, di commentare umoristicamente gli eventi, mentre il piccolo Ezra, nonostante abbia perso i genitori, potrà sempre portare quello sguardo felicemente infantile sulle più assurde situazioni che ci troveremo ad affrontare.

È qui quindi la libertà di Kentucky Route Zero: non si dimostra tanto nella clamorosità delle scelte, ma si manifesta nel primo sottilissimo crepuscolo dell’impatto della coscienza. Non è un semplice gioco di incastri fra cause ed effetti, ma rivela in noi la nostra attitudine al mondo: Kentucky Route Zero ci mette davanti ad ognuno dei suoi piccoli eventi, banali o mistici che siano, e ci obbliga a spalancarci, scegliendo le risposte in base alla nostra indole, alla nostra curiosità, alla nostra percezione di cosa sia più importante. Siamo chiamati a stare di fronte a questo in maniera quasi insensibile, ma è anche tale opacità a garantire la lealtà della nostra risposta.

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È l’esatto contrario della trasparenza di Road 96: lì dove più era cristallino, infatti, Road 96 cade. La tripartizione delle scelte politiche ci metteva di fronte a scelte chiare, con un esito prevedibile, addirittura sottolineate da rispettivi loghi; giusto per evitare fraintendimenti. In questa sua pretesa di perfezione nel rapporto causa-effetto sta anche il suo peccato originale, la frustrazione della libertà promessa. Non è diverso dalle numerose critiche rivolte alla dialogue wheel di BioWare, che nelle sue velleità di semplificazione e dinamicità si costringeva a ridursi spesso a macchietta, troppo prevedibile e limitante.

Per essere davvero liberi serve qualcosa di più, e forse qualche pretesa di meno. Kentucky Route Zero centra sempre questo obiettivo, nella sua fine poetica e nelle sue mistiche peripezie del quotidiano. Road 96, invece, ci riesce solo a tratti. Nella sua pretesa di raccontare la realtà dei massimi sistemi, scambia troppo spesso la libertà per la retorica: una trappola da cui riesce a sfuggire solo quando si focalizza sui suoi piccoli personaggi.

FSF


NOTE:

1 Lo fa per esempio Stefano Calzati su The Games Machine, in questo pezzo.

2 Sarebbe bastato non mettere le sezioni di gameplay action/puzzle e avremmo avuto un’esperienza drammaticamente superiore. Peccato!

3 A titolo di esempio, a quale scopo inserire uno scenario in cui la corrotta giornalista serva del regime cade dal finestrino dell’auto mentre balla ascoltando la radio?


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