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Guarda che sapore: Cinema e Gastronomia

Non è un segreto che, nel nostro Paese, al cibo venga data una valenza quasi sacrale. Siamo in grado di parlare di cosa mangeremo fra qualche ora tenendo una forchetta sospesa a mezz’aria, di iniziare faide con estranei oltreoceano per difendere la vera identità della carbonara, di piangere alla vista di una pizza con l’ananas sopra. Cosa mangiamo e come mangiamo, per noi, sono elementi talmente fondanti da essere, non solo terreno fertile per la costruzione di una comune identità culturale, ma anche – e forse ancor più – tasselli indispensabili in quella personale.

Per quanto, però, l’Italia abbia sempre avuto un’identità culinaria più o meno definita, l’ossessione per la gastronomia – stavolta a livello globale – è relativamente recente. In queste righe non parleremo di reality show a tema culinario (sebbene siano una perfetta cartina tornasole del tarlo della gastronomia), né, tantomeno, di documentari sul medesimo argomento. Oggi parliamo della trasposizione cinematografica dell’immaginario intorno al cibo.

La nascita della gastronomia

Complesso delle regole e delle usanze relative all’arte culinaria, che nella preparazione dei cibi privilegia l’aspetto del godimento dei sensi rispetto ai bisogni meramente nutrizionali.

Treccani online – voce “Gastronomia”

La nascita della gastronomia sancisce uno spostamento dalla necessità di nutrirsi al piacere del gustare. La concezione del cibo come oggetto del desiderio – e non come mezzo per placare un bisogno – nasce, ovviamente, nelle corti europee. Era un lusso dei (più) ricchi privilegiare la qualità del cibo sopra la sua qualità. È solamente a inizio Ottocento, complice il periodo di rivoluzioni, che i primi ristoranti iniziano a vedere la luce. I cuochi, dapprima confinati fra le pareti di regge e palazzi e reali, diventano adesso ristoratori alla stregua di artisti.

Scena di cucina con cena in Emmaus, 1580-90 – Villa medicea di Poggio a Caiano

Allo stesso modo, così come vi erano gli esperti d’arte, iniziano a sorgere i primi amatori della buona cucina: i buongustai, figure dotate di uno spiccato gusto sensoriale e in grado di sanzionare positivamente (o meno) i piatti di punta di uno chef e, conseguentemente, indirizzare le opinioni della collettività. Ciò che avviene, in breve, è uno spostamento del potere di chi indica cosa sia il buon gusto comunemente riconosciuto: se prima era un manipolo di (super mega) ricchi a decretarlo, ora sono delle figure che lo fanno con merito e, soprattutto, criterio.

Nascita, revisione e caduta di un mito: il cuoco artista

Se da una parte abbiamo, quindi, qualcuno che decreta cosa sia buono (ma, forse anche meglio, cosa sia geniale), dall’altra abbiamo l’oggetto del giudizio e, dietro di esso, ovviamente chi l’ha ideato e prodotto.

Così come non possiamo pensare a Guernica senza Picasso o a 8 ½ senza Fellini, anche in questo caso, piatto e cuoco sono inscindibili: artista e opera sono intimamente legati l’uno all’altra.

Con la nascita della Gastronomia, il cuoco non è più solo un semplice esecutore ma diviene un vero e proprio artista. Non basta più avere un’ottima manualità e una buona conoscenza di ingredienti e tecniche: lo chef-artista è creativo, riversa emotività e ingegno nelle proprie opere.

Probabilmente, a oggi, questa concezione ha toccato delle vette mai sfiorate prime: Cracco, Bottura, Cannavacciolo sono personaggi concreti e presenti nella mente del pubblico alla stregua di attori di rilievo. Nel Cinema, parlando di cibo, si è spesso scelto di utilizzare l’espediente del cuoco artista. Genio analitico e preciso o, contrariamente, viscerale ed emotivo, questa figura è stata proposta e riproposta in ogni salsa (battuta doverosa).

Il perfetto esempio di chef artista

In Sapori e Dissapori (2007) questi due modelli sono mostrati entrambi e parzialmente in contrapposizione. Kate, interpretata da Catherine Zeta Jones, è una donna algida e controllata, estremamente metodica nel suo lavoro da chef. Quest dedizione maniacale la porta a un innegabile successo sul fronte lavorativo e a un totale annullamento su quello privato. Come ogni commedia romantica che si rispetti, la vita di Kate inizia a cambiare quando nella brigata fa il suo ingresso Nick (Aaron Eckhart) ugualmente talentuoso ma più istintivo. Quello proposto è un chiasmo: alla razionalità, tecnica, complessità e innovazione di Kate corrispondono l’emotività, la spontaneità, la semplicità e il richiamo alla tradizione di Nick.

La figura dello chef artista continua ad affascinarci anche in lavori più recenti. The Bear, serie prodotta da Hulu e distribuita da noi su Disney+, segue il giovane Carmen (Jeremy Allen White), prodigio della ristorazione. Carmy si ritrova a passare dalle pressioni costanti e legate alla prestazione di una cucina d’eccellenza a quelle, altrettanto stressanti, ma legate principalmente a problemi finanziari e a rapporti umani del The Beef, il ristorante di famiglia del quale l’uomo decide di prendere la guida. The Bear non ci mostra esseri illuminati dal talento ma persone plausibili con problematiche altrettanto plausibili. Riusciamo a sentirci addosso la fatica di Carmy e della sua brigata. Non c’è niente di patinato, non ci sono piedistalli su cui salire: The Bear è efficacissimo nel raccontare quanto fare ciò che si ama richieda sacrifici (a volte nemmeno troppo nobili).

The Bear

Infine, è di questi giorni l’uscita al cinema di The Menu, commedia dark diretta da Mark Mylod. Un gruppo strettamente selezionato di commensali viene invitato su un’isola per consumare un pasto molto esclusivo. C’è tutto: la ricerca di ingredienti pretenziosi, le tecniche più complicate, la brigata di talentuosi adepti e, infine, l’autore, il genio, l’artista: lo chef Slowik. Ovviamente, e si deduce già dal trailer, la cena diventerà in breve tempo già più bizzarra di quanto gli ospiti potessero immaginare: un contorno di morale e redenzione si abbatterà su questo ristretto manipolo di (s)fortunati foodies. The Menu vuole essere una dissacrazione, non solo della cultura della gastronomia e del cuoco artista ma anche, e soprattutto, della tendenza al consumo incontrollato in generale. Non poteva che essere il cibo la sineddoche perfetta di questa critica.

The Menu vuole essere una critica all’ossessione per la gastronomia

Nutrirsi e gustare: esperienze animate

Non diciamo nulla di nuovo nell’affermare che la rappresentazione del cibo nel mondo dell’animazione eserciti spesso una discreta fascinazione sugli spettatori. C’è chi ha bramato gli l’insettone fumante sui cui si avventa Pacha nella sua finta luna di miele nelle Follie dell’Imperatore, chi voleva assaggiare un po’ di crema alla Edgar (ignorandone l’ingrediente segreto, evidentemente), chi ha subito una fascinazione sfrenata per la colazione di Mulan (e tutte queste persone sono chi ha scritto queste righe).

Prendiamo, adesso, in esame due rappresentazioni che non hanno il solo fine di farci salivare come il cane di Pavlov ma che si fanno vettori di componenti rilevanti all’interno delle opere in cui sono inserite.

Il primo caso è costituito da La città incantata, lungometraggio dello studio Ghibli diretto dal suo celebre fondatore, Hayao Miyazaki. Seguiamo la piccola Chihiro nella sua peripezia per sfuggire dal mondo degli spiriti in cui si ritrova dopo che i suoi genitori si sono nutriti (o meglio, abboffati) di cibo a loro proibito per poi trasformarsi in maiali.

La rappresentazione del cibo ne La città incantata è invitante ma opulenta in maniera disturbante

È proprio questo il fulcro della scena: il rapporto fra cibo e spiritualità. Non è una novità che diverse religioni presentino ferree e rigide regole per quanto riguarda cosa e quando mangiare (per venire consumato, il cibo dev’essere kosher nella cucina ebraica o halal in quella islamica). Nel caso del cristianesimo, benché non ci siano forti veti per quanto riguarda l’alimentazione, vi è indubbiamente una contrapposizione forte fra quelli che sono i piaceri corporei (da evitare) e quelli spirituali (da inseguire). Il cibo, quindi, può, ovviamente, essere consumato ma la gola resta distrazione e peccato.

È un sistema di valori basato sul semplice principio che, ciò che è proibito, è anche ciò che più si vuole. I genitori di Chihiro diventano maiali proprio perché mangiano (inconsapevolmente) il cibo destinato agli spiriti e a loro precluso senza farsi troppe domande.

Il secondo caso è, ovviamente, Ratatouille, film del 2007 prodotto dalla Pixar e diretto da Brad Bird e Jan Pinkava. In questo caso, il piatto che dà il titolo all’opera ricalca senza dubbi la madeleine di Proust:

Al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”. […] Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente?

Proust – Alla ricerca del tempo perduto

Allo stesso modo, Anton Ego, irreprensibile critico gastronomico, resta incantato da una semplice ratatouille: piatto povero della tradizione provenzale che costituisce il gancio con la sua infanzia nelle campagne francesi. Anche in questo caso, similmente a quanto accade in The Menu, la semplicità-genuina si fa da contrappeso all’elaborazione-macchinosa.

Altro che madeleine

Il cibo è una costante nella vita di chiunque: ci permette di creare abitudini, memorie e identità e cambia insieme a noi. Nuovi sapori, gusti e rituali costituiscono un mosaico culinario su cui si basa buona parte della nostra identità culturale. Qualche tassello l’abbiamo visto al cinema.

BV