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Un posto lontano

Quello era uno di quei momenti in cui ti saresti chiesto cosa farai. Cosa farò?

Scriverò forse, di un posto lontano. Fa freddo fuori, piove e in fondo mi dispiace solo che una tempesta perfetta non ci abbia ancora ammazzati tutti. Non scherzo ovviamente, ma non voglio nemmeno sembrare il Cioran della situazione. Per carità, Kojima con il suo Death Stranding mi ha insegnato l’importanza delle connessioni sociali, di quanto sia importante sforzarsi di tenere il pianeta in orbita tutti insieme, il bastone e la corda e così via. Ma ecco, non importa veramente in questo frangente.

Dunque dicevo, quello era un momento di terribile stasi per me. E per tutti qui in POP-EYE, incastrati com’eravamo in una gabbia di appuntamenti mensili, diventati perlopiù rendez-vous centrati – per pura e banale inerzia – da una freccetta tirata sempre nello stesso punto del tabellone. Sempre allo stesso modo. Ma non è questo il punto. Essendo un tipo allergico all’autoanalisi – degli umori mi importa il giusto e nello specifico quasi niente – mi incaponivo costantemente, con il modus operandi del serial killer metropolitano. Dilaniando amici e conoscenti uno dopo l’altro.

Avete presente il protagonista di 8 e 1/2 di Fellini – il regista con la sindrome dell’occhiale che scivola – che va alle terme senza nessun tipo di idea in testa per il suo prossimo film? Il tizio di Big Ideas degli Arctic Monkeys? L’Uomo in bilico di Saul Bellow? L’Uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge? Ecco io ero quello. Non sto dicendo che si nasce in un limbo, sto dicendo che a volte può capitare di finirci dentro, come si finisce dentro una pozzanghera a bordo strada dopo il temporale. Ora, questa gente (di finzione) era tutta arrivata a un certo tornante della vita, che ti spinge naturalmente sul punto di scrivere la bozza di un romanzo. Che potremmo chiamare “Come scomparire completamente”, e io avrei potuto scrivere la prefazione ad ognuno di loro.

In breve, come molti, non capivo più come pormi. Una condizione urticante. Sfortunata. Paralizzante.

Se per anni vi hanno detto che non potevate capire, ebbene ve lo dico, siete probabilmente sbagliati. Capitati nel posto sbagliato, nella parte sbagliata della storia. Perché i giusti sono quelli che di solito vi dicono che il capire – saper capire, arrivare alla verità – è fondamentalmente una questione chimica. Ecco, noi invece non vogliamo più capire. Da adesso in poi ci rifiutiamo. Il nostro è un NO.

NON CAPIRE è la nostra divisa, il nostro motto. Il numero 02 di POP-EYE nonperiodico.

In questo numero, composto da sette bei long form che spaziano da J. D. Salinger e al suo Banana Fish a Hocking e il post-colonialismo, per poi tornare su una lettura critica di Starfield alla luce del mercato neoliberista, lo sviluppatore Playdead e il valore del silenzio, Il ragazzo e l’Airone, Mass Effect e il suo happy ending, Metal Gear Solid V: The Phantom Pain interpretato come un Immersive Sim, c’è anche un’importante novità.

Riguarda il lancio del nostro primo video essai dal titolo EDMUND BURKE WOULD PLAY ELDEN RING. Si tratta del primo essai di una trilogia di cui andiamo molto fieri. Troverete tutti i dettagli sul nostro sito e sul nostro canale YouTube.

Con questi presupposti – e una tale quantità di lavoro – POP-EYE vuole mostrare che fare critica, analizzare, si può fare anche in questo mondo. Senza peraltro cadere nella banalità della recensione senza spoiler che si spaccia come non plus ultra dell’analisi di settore e invece non è altro che promozione mascherata da un sapiente velo di mediocre conformismo.

Noi vogliamo andare oltre, perché POP-EYE è un posto lontano.

È il rifugio intangibile, e proprio per questo un luogo irresistibile. È con questo luogo fissato in testa che andiamo avanti. Un punto, materializzato come un viaggio.

Il nuovo POP-EYE è un posto lontano.

E poi è nata mia figlia. Greta.

VV


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