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The Last of Us, un videogioco di Cormac McCarthy

Ci sono delle storie che si ripetono, in varie forme, per l’eterna importanza che possiedono; e, soprattutto, lo fanno in media diversi. La strada, The Last of Us: opere figlie dello stesso padre, ovvero quel senso di solitudine dovuto alla dissoluzione della comunità e alla ripresa di una certa feralità, propria dello stato di natura. Diventano, così, veicolo di messaggi potenti, in grado di rompere l’ambiente fittizio in cui sono collocate; e di generare una risposta non solo emotiva, ma capace di provocare riflessioni che impattano sull’umanità tutta, partendo dal singolo individuo.

Non solo. Ci sono anche la speranza, la disillusione, l’accettazione: tutte caratteristiche che contraddistinguono, in modi diversi, due produzioni così distanti nel tempo.

In questo articolo proveremo a combinare le sorti della Narrativa con quelle del Videogioco, cercando di trovare dei fili rossi comuni, un percorso che intreccia le vicende di Joel, Ellie, Lev e Abby con quelle dei personaggi creati dalla penna dello scrittore americano Cormac McCarthy.

Da Cormac McCarthy a Neil Druckmann e Bruce Straley

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER]

In molti hanno raccontato l’Apocalisse. Ma pochi lo hanno fatto come Cormac McCarthy con il suo romanzo La strada: e cioè in modo così crudo e realistico che sembra di viverle in prima persona, quelle pagine che leggiamo.

La strada (titolo originale The Road) è stato pubblicato in Italia da Einaudi nel 2006. Protagonisti di questa storia – che sin dal principio sembra non presagire un lieto fine – sono un padre e un figlio, due dei pochi sopravvissuti a una catastrofe (forse una guerra nucleare) che ha spazzato via tutto: case, strade, animali, persone. E soprattutto, ha spazzato via l’umanità da quei pochi che ce l’hanno fatta. Totalmente privati di tutto ciò che possedevano – abitazioni, cibo, tecnologia – gli esseri umani sono come tornati a uno stato di vita primitivo: lottano e sacrificano tutto pur di sopravvivere, arrivando persino al cannibalismo.

I due sono tra i pochi ad aver conservato un briciolo di umanità e, soprattutto, di speranza. Percorrono la strada verso sud, spingendo un carrello contenente quello che sono riusciti a procurarsi: un po’ di cibo, e una pistola con due proiettili. E sanno che loro sono i buoni, sono quelli che portano il fuoco. E, in effetti, la conclusione non è felice, sebbene sia luminosa.

Dal romanzo è stato tratto il filmThe Road del 2009.

La distanza che esiste tra “lieto fine” e “finale speranzoso” ha impattato anche sulla percezione del lavoro di Naughty Dog. È noto che, all’uscita di “The Last of Us Parte II” ci sia stata una vera e propria battaglia condotta sugli aggregatori dei voti online, come Metacritic: più in generale, i motivi potrebbero non essere completamente riconducibili al solo, tristissimo, review bombing proveniente da gruppi collocati a destra.

Escludendo infatti la parte tossica dell’Internet, che non merita nemmeno un approfondimento, l’intera faccenda della “non accettazione” di alcune svolte narrative, da parte dell’uomo in buona fede, potrebbe essere ricondotta all’eccessiva influenza della riflessione di Dostoevskij nelle produzioni moderne: per l’esattezza, dell’eredità di quest’ultimo in termini di analisi del senso di colpa cristiano, della redenzione e del rimorso.

Siamo stati, insomma, abituati a dei topoi – ribaditi nel racconto per immagini dalla cinematografia di Martin Scorsese – che non riusciamo a buttarci totalmente alle spalle e funzionali a certe coordinate tipiche del Videogioco, dove il travaso di personalità del fruitore al personaggio, mediante il meccanismo di controllo, non può prescindere da una valutazione comunque “positiva” delle azioni dell’avatar stesso.

Capovolgimenti e impossibilità di redenzione.

Probabilmente, il primo The Last of Us – complice la presenza di Straley che mediava Druckmann, o a causa della mancanza di coraggio nello spingere sull’acceleratore così tanto in una nuova IP – mascherava potentemente sotto questo filtro Dostoevskijano l’intera faccenda, comportandosi da falso amico. Nel momento in cui è stato ribadito l’ovvio, ed eliminata l’incertezza, qualcuno ha scambiato la realtà con la forzatura e si è trovato spiazzato.

L’impressione, perciò, è che si debba ripartire da una rieducazione sostanziale e formativa dei fruitori. Tornare (o iniziare) a leggere anche la narrativa americana del secondo Novecento, da McCarthy a Bret Easton Ellis, in modo da affiancare e creare dei nuovi tessuti di comprensione.

Il problema è (anche) di filtro, e si può capire proprio guardando all’opera figlia di Dostoevskij: Red Dead Redemption. Perché se RDR lascia credere che possa esserci una sorta di onore nella morte, un percorso, The Last of Us fa intendere che sia un attimo e basta. Poi c’è ciò che accade dopo: i comportamenti degli altri, le conseguenze e le responsabilità. Ma la vita è tutto ciò che abbiamo e spenderla non nel ricordo, ma nella rabbia, cercando di toglierla agli altri, è una idiozia senza fine. Non c’è soddisfazione nel prendere, ma nel dare.

Speranza.

Basti pensare alla parte in cui Abby – dopo un ribaltamento di fronte spettacolare – finalmente rivede il padre in sala operatoria: non nel momento in cui ha ucciso Joel, ma dopo aver salvato Lev e Yara. Quella è la serenità. Quello è l’unico sacrificio che ha senso.
Non è un gioco solo sul ciclo della violenza ma anche sull’importanza del restare umani, sul valore degli affetti che ci legano; ed è questione ben diversa dalla mera “redenzione”. Che, a conti fatti, non avviene mai.

In effetti, proprio di speranza, paradossalmente, anche The Last of Us è pregno. Più precisamente, lo è nella sua Parte II; persino nel finale, dove Ellie accetta la morte di suo padre e lascia che gli altri si autoderminino, giungendo alla spiaggia delle Luci. Dal fuoco generatore mccartiano alle Luci druckmaniane il passo è breve.

Di significati religiosi e strade esistenziali

In un mondo che è diventato improvvisamente niente, in cui tutto ciò che c’era si è frantumato in pochi secondi, in cui ogni certezza ha lasciato il posto al vuoto, sorge spontaneo chiedersi: che senso ha tutto? Ma soprattutto, vale ancora la pena lottare? E lottare per cosa? Che senso ha combattere ogni giorno con la paura sempre a fianco, impiegare tutte le forze e rischiare la vita per cercare un po’ di cibo che già dopo un giorno non ci sarà più? Che senso ha mantenere viva la speranza, se non c’è più niente?

Questi sono solo alcuni dei tanti interrogativi che, approcciandosi al romanzo di McCarthy, diventa automatico porsi. Leggiamo pagine su pagine di questo padre e questo figlio distrutti dalla fame, annientati dalla paura, disillusi da ciò che le persone sono diventate, che nonostante tutto continuano a provarci. Continuano a portare il fuoco, camminando verso sud. E allora proviamo a immedesimarci in loro, chiedendoci se forse non sarebbe meglio farla finita e basta, usare quei due proiettili rimasti, porre fine a tutte queste – forse inutili – sofferenze.

La risposta potrebbe trovarsi, per molti, nella fede religiosa. E in effetti, le allegorie di carattere sacrale sono presenti in molti lavori dell’autore. Anche in quest’opera, i riferimenti a Dio sono numerosi, anche se non sempre palesi e tantomeno positivi:

Ci sei?, sussurrò. Riuscirò a vederti prima o poi? Ce l’hai un collo per poterti strangolare? Ce l’hai un cuore? Sii stramaledetto per l’eternità, ce l’hai un’anima? Oh Dio, sussurrò. Oh Dio.

La strada, pag. 9

Dio sembra essere svanito da tutto e da tutti, ma l’uomo ancora ne vede un bagliore, uno soltanto, nella cosa per lui più preziosa: il figlio. Quel fuoco che i due sono convinti di portare, quello che appartiene ai buoni, altro non è che Dio sotto forma di amore. Non è tanto di un dio biblico, quindi, che si parla, bensì di un dio inteso più come una forza divina: quella che dà senso ad ogni vita, che in questa America post-apocalittica è quasi del tutto scomparsa, e che i due protagonisti sperano di conservare e ricominciare a diffondere. Non è che l’amore, quello che ci salverà.

Ellie perde tutto e sparisce, andando verso il bosco: un simbolo di oscurità e labirinto dell’anima. Abby e Lev arrivano sulla spiaggia, metafora di rinascita e speranza. In questo contesto, Lev potrebbe stare addirittura per Levitico, il libro sulla legge dell’Antico Testamento; come a dire che è il ponte della rinascita della società, basata proprio su un ordinamento comune in opposizione alla natura.

Altari.

Questo è solo uno dei tanti tagli religiosi presenti nel lavoro di Naughty Dog: c’è Joel-Abramo, che rifiuta di sacrificare la sua Ellie-Isacco. Decide quindi, di non barattare ciò che aveva già perso per ciò che è irrimediabilmente perduto; capovolgendo così il significato più intimo e profondo della Genesi. Ribalta la visione cristiana del sacrificio per la collettività, scegliendo ciò che è a lui vicino. In effetti, l’eroe predestinata dal Dono dell’immunità, Ellie, fallisce scomparendo: spetta agli uomini costruire la nuova società.

Non mancano altri riferimenti diretti all’identità e al fanatismo. Gli stessi Serafiti di Seattle ne sono l’esempio più vivido, con il conflitto contro i WLF che richiama sia quello Israelo-Palestinese sia, in generale, tutte le contrapposizioni della storia umana (o quasi). E, anche qui, la fuga dall’Egitto di Lev e Abby non fa altro che confermarne il significato.

Di struttura, stile, scrittura

La strada è riuscito così bene anche per il modo in cui è stato scritto. Lo stile asciutto, quasi senza punteggiatura, fa mancare il fiato. Tutto è ridotto all’essenziale, ogni parola è scelta con cura e non c’è nessuno sfarzo, nessun abbellimento, niente che tenti di rendere più accettabile ciò che non lo è. Le descrizioni abbondano, sono precise nel descrivere – attraverso suoni, odori e sensazioni – quel senso di angoscia e desolazione caratteristico dell’ambientazione.

Le immagini descritte sono così vivide da fare quasi male. Così come è spoglia la natura, lo sono le frasi. L’ansia e la paura dei protagonisti sono palpabili grazie ai periodi brevissimi fatti quasi solo di punti fermi e interrogativi.

E dopo un po’, nel buio: Ti posso chiedere una cosa?
Sì, certo che puoi.
Tu cosa faresti se io morissi?
Se tu morissi vorrei morire anch’io.
Per poter star con me?
Sì. Per poter stare con te.
Ok

La strada, pag. 9

Questo dialogo è incredibilmente affine alla conclusione del primo The Last of Us, quando Ellie chiede a Joel cosa sia effettivamente successo alla base delle Luci. Rappresenta un po’ la summa dell’intero titolo, e soprattutto dello stile che lo rappresenta: basato sullo show, don’t tell, I dialoghi sono, infatti, spesso minimalisti (del minimalismo di The Last of Us abbiamo parlato qui).

– Swear to me. Swear to me that everything you said about the Fireflies is true.
– I swear.
– Ok.

The Last of Us, dialogo tra Ellie e Joel, Epilogo, Jackson

Comunicare tramite i personaggi per costruire una risposta empatica da parte del videogiocatore è uno dei tratti distintivi del lavoro di Straley, Druckmann e Gross. Attraverso le azioni dei protagonisti, si creano spesso dei dilemmi morali che non solo servono a delinearne le caratteristiche psicologiche in contrapposizione ad altri, ma anche a connettere il fruitore con i temi del gioco. Tutto questo impianto è realizzato con estrema attenzione, rispettando il “simple story, complex characters” che è diventato un totem per il buon Neil.

Anche l’impalcatura ludica segue la corrente minimalista, proponendo esattamente le azioni necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati dagli sviluppatori. E così si ottiene quello che sembra, forse, un paradosso: da una storia riassumibile in pochissime parole e un gameplay scheletrico si generano infinite discussioni, anche grazie alla ricerca dell’essenziale. Un altro collegamento con il lavoro di McCarthy.

La conclusione di “Parte I”.

Ne La Strada, invece, i due protagonisti non hanno un nome. Non ci sono Joel ed Ellie, ma solo padre e figlio, privati anche di un’identità, insieme a tutto quello che hanno perso. Questa mancanza di generalità, mette ancora più in evidenza quello che è il loro ruolo: sopravvivere e portare il fuoco. Non importa tanto chi sono o da dove vengono, ma quello che fanno, e le loro intenzioni.

Di padri e figli

In tutta la desolazione del romanzo di McCarthy, l’unica cosa che tiene il lettore attaccato a un sottile filo di speranza è proprio il rapporto tra i due protagonisti. La stretta relazione tra padre e figlio in cui forse troviamo il vero senso di questa storia. Nonostante la differenza d’età, i due sono accomunati dagli stessi valori, dalla stessa missione, dalle stesse paure e dalla stessa, seppur debole, speranza. E forse non sono mai stati tanto legati e tanto simili quanto lo sono ora.

Legati e simili.

Il padre vede nel figlio quella forza divina di cui parlavamo prima. È l’unica cosa che gli fa ancora desiderare la vita, che con le sue domande – tanto ingenue, quanto spietate – gli dà la forza di andare avanti. Il figlio si affida completamente al padre, si fida di lui, di quello che gli dice. Sa che non gli mentirebbe mai, e quindi continua a resistere e a sperare.

Queste tematiche sono una chiave analitica anche di The Last of Us. Attraverso la relazione tra Joel ed Ellie si dipana il concetto dell’amore egoista, che poi è quello tipico del rapporto tra genitori e figli (seppur putativi, come in questo caso). L’aver mostrato, in apertura, la morte della figlia di Joel, spinge a solidarizzare con quest’ultimo quando decide di non sacrificare nulla per un’umanità forse già persa. Siamo forse disposti a sacrificare noi stessi per gli altri, ma non chi amiamo; o, almeno, non al punto di lasciare che lo faccia per tutti.

Abby, il trauma e la vendetta.

D’altronde in quella stanza, nei panni di Joel, ci siamo entrati eccome. Abbiamo vissuto tutti il suo dolore, empatizzato e sofferto. E abbiamo considerato anche giusto l’atto finale.
Dell’omicidio del papà di Abby siamo tutti colpevoli, perché l’abbiamo fatto con convinzione o, quantomeno, con comprensione.
E forse è anche questo che va messo in evidenza. The Last of Us Parte II porta a riconsiderare quella scelta, che è un po’ anche la nostra per averla accettata ed eseguita, in una chiave diversa.

È metatestuale: il giocatore deve a sua volta comprendere che non sarebbe servito a nulla uccidere Abby, che nell’azione di Joel è racchiuso un dolore per gli altri e che deve “lasciare andare”.
Che poi lasciare andare è una lezione importantissima nella vita. Joel doveva lasciar andare Ellie, Abby il padre, Ellie Joel, noi il primo capitolo e abbracciare una prospettiva nuova. Va sottolineato che la comparazione tra i protagonisti de La Strada e di The Last of Us non va affrontata solo utilizzando Ellie e Joel, ma anche Lev e Abby. Ne sono uno specchio; e, come sostenevamo in apertura, disegnano l’altra faccia del discorso di McCarthy, con l’amore che si traduce in speranza.

È l’amore che sopravvive alla morte, alla fame, alla disperazione. E che è capace di salvare – o meno – tutti e tutto.

LDC e AAS