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Malcolm e Marie, ovvero dal cinema all’amore e ritorno

Inebriato dal successo di pubblico e di critica raccolto alla premiere del suo film, Malcolm (John David Washington) volteggia per la stanza, la percorre da capo a capo a grandi falcate. Schernisce boriosamente i critici WASP che hanno avvicinato la sua opera con una lente ingenuamente politica, che l’hanno spogliata della sua intensità emozionale e l’hanno così ridotta a generica denuncia sociale, rassicurati nelle loro convinzioni da un progressismo “da bancarella” che tradisce più razzismo di quello che crede di combattere.
Immobile sulla porta finestra, Marie (Zendaya) fuma immobile, accondiscendendo solo a tratti alle invettive del compagno, tanto soddisfatto del proprio trionfo quanto risentito per l’accostamento facilone a cineasti afroamericani, come Jenkins o Spike Lee*, in virtù della sua sola, identità etnica e culturale, data per assunta e inevitabilmente foriera, agli occhi dei critici, di un’intenzione politica. A tratti, pur senza riuscire a far crollare la dorata visione di sé e del proprio lavoro che traluce dal suo delirio narcisistico, Marie non rinuncia a puntualizzare le falle e gli auto-inganni dell’accorata invettiva del compagno. In una carrellata in continuità che segue i passi e i polemici profluvi verbali di Malcolm, per arrestarsi sulla figura longilinea di una Marie quasi del tutto immersa nel buio dei chiaroscuri della fotografia, nel suo andirivieni lungo il salotto della coppia, la macchina da presa di Levinson ne chiude i corpi e soprattutto le personalità, alla loro prima embrionale presentazione, nei riquadri neri delle finestre che circondano la loro casa. Accediamo così al cosmo esistenziale di Malcolm e Marie, all’inizio della notte in cui finiranno per vivisezionarsi a vicenda, in un confronto serrato, punteggiato di autentiche crudeltà, di tregue di pura complicità e di dolorose confessioni.
L’intera sceneggiatura si innerva, in buona sostanza, su un impietoso scavo dialogico nelle proprie mancanze come partner, in un climax emozionale che riesce a non sconfinare nel kammerspiel lacrimevole sulla coppia al capolinea, chiusa nel proprio nido a scrivere l’elegia della propria relazione a colpi di rancori antichi e sincere rivelazioni. In tal senso, il piano sequenza con cui la macchina da presa segue il primo dialogo fra i due protagonisti, ancora lontani dall’accanirsi reciproco che li impegnerà di lì a poco, sembra tradurre significativamente sul piano della forma quanto interesserà la drammaturgia complessiva del film, nel suo continuo cedere la parola all’uno e all’altra per svelare i nodi problematici che la lavorazione del film di Malcolm, dalle bozze della sceneggiatura alla prima, ha saputo così spontaneamente rivelare.

Segni cinetici dei poli del conflitto

Fig. 1 – 2. Seguito dalla macchina da presa, Malcolm fa il punto sulle reazioni della critica al suo film.

Sembra altrettanto significativo che a imprimere quel movimento alla camera sia l’incontinenza motoria di Malcolm che ne traduce il mastodontico narcisismo, confermato dalla sua tirata contro una critica ottusa e incapace di decodificare i suoi intenti di Autore, e che satura a tal punto il quadro da forzarne un prolungamento lineare, un erompere in carrellata per lasciargli l’ossigeno di cui necessitano una personalità e una mente di tal sorta, così dinamiche e prolifiche. Ottenute finalmente le chiavi dell’Olimpo dell’industria cinematografica di successo, la superbia di Malcolm non sembra trovare più argini, trabocca in ogni suo discorso – poco importa se relativo allo stato complessivo del proprio dominio artistico o se cartina tornasole del suo rapporto con Marie. Non c’è arma retorica di quest’ultima, per quanto affilata, a farlo seriamente vacillare sul piedistallo da cui pontifica, sia esso di cinema o delle proprie virtù nella relazione con la compagna.

Arroccato sulla propria definizione del mezzo cinematografico e dei suoi prodotti, Malcolm inorridisce di fronte ad una critica che si smarrisce in inutili dietrologie intellettualistiche, tentando di guardare l’oggetto-film anche alla luce delle specifiche identitarie di chi lo ha modellato. Il cinema è elettricità, è una concrezione di sogni e fantasmagorie – ogni implicazione ideologica, ogni incursione nel politico una macchia alla purezza di quest’arte, nella migliore delle ipotesi. L’accademismo della critica che vorrebbe ritrovare nel suo operato indizi di una ovvia postura politicizzata è un’insinuazione infamante per un artista come Malcolm, che non può nemmeno immaginare che gli vengano tributati meriti unicamente in virtù di un attivismo politico appiattito a trend, a clickbait. Il suo lavoro creativo-espressivo nasce da emozioni primigenie, sospese nel tempo e nello spazio e capaci di ammantarsi di assoluto per impattare contro la sensibilità del pubblico, magistralmente messe in forma da un genio creativo totale che rielabora il mondo e chi lo abita per darne una versione sintetica a sé stante e a sé bastante. Al di là della validità dello smascheramento della postura in fondo razzista che connota certa critica da baracchino, ogni monologo stizzito di Malcolm sul cinema è intriso di un furore che muta in ridicolo, o trasuda una spocchia fuori luogo cui tanto concorre, funzionalmente, la resa interpretativa di un Washington dalla dizione caricaturale e dalla fisicità scomposta talvolta fino al grottesco. Come dimostrerà nell’arco della notte, la stessa megalomania che palesa nel proprio lavoro sembra legittimare Malcolm a colmare col proprio Sé anche ogni aspetto della sua relazione con Marie, figurando come sostanza ultima di ogni argomentazione dell’uomo: i suoi interventi divengono presto l’eco stanca di un ego che non abbandona i riflettori anche quando si riempie la bocca di amore, recriminando i sacrifici fatti lungo la riabilitazione di Marie, nascondendosi dietro un sentimento incrollabile che non arretra neppure di fronte alle sue tendenze auto-distruttive o ancora minimizzando il reale significato dietro alla propria ingratitudine o al progressivo allontanamento di Marie da un progetto originariamente creato per lei, per loro.
La superbia dimostrata da Malcolm, insomma, emerge con forza nell’artista tanto quanto nell’amante, assorbendo totalmente l’uomo in spirali di cieco egotismo e di vuoto autocompiacimento con cui, da spettatori, è difficile risuonare empaticamente.

Fig.3. La macchina da presa si arresta su Marie, prima di riprendere il movimento con cui segue Malcolm lungo il salotto.

Una forza quella che pervade Malcolm uguale e contraria a quella di Marie che di quel movimento, nel primo virtuosistico plan del film, è il punto di arresto e insieme l’estremità in ombra: incorniciata dagli stipiti della porta finestra, fumando per mantenere i nervi saldi e discutere col compagno solo il giorno seguente, nonostante l’emblematico pretesto occorso in serata.

Marie è una figura ferma, di un’eleganza composta, monumentale anche nell’asciuttezza spigolosa di Zendaya che infonde al personaggio un contegno raziocinante che si intravede anche negli accessi di ira più esplosivi.
In questo primo contraddittorio Marie è salda sulle proprie posizioni e riserva delle incisive puntualizzazioni alle esagitate filippiche di Malcolm. L’uomo è costretto a rallentare, ad abbandonare una prospettiva autoriale e autoriferita, sostituendola con una visione più incentrata sull’industria cinematografica in quanto tale. Lucida e disincantata su questa realtà Marie dimostrerà di esserlo spesso, rimarcandone la natura capitalistica, la politicizzazione dei suoi volti e dei suoi prodotti con finalità comodamente promozionali, i vizi e le storture sistemiche – senza ridurre tuttavia il medium cinematografico a questo prosaico groviglio di interessi, meschinità, falsità. Senza cioè negare che quest’arte offra ai propri artefici la possibilità di sublimare schegge di traumi e di ingombranti esperienze, restituendone al pubblico una rielaborazione intimamente umana, dal potenziale catartico e di una bellezza toccante.

Sebbene a tratti crudele e ferina nel climax che vive con Malcolm, Marie compensa con una concretezza granitica e densa di logica l’idealismo soggettivistico del compagno, ancorando al suolo il narcisismo per cui egli, tanto sul lavoro quanto nella loro relazione, sembra ritenersi l’uomo, l’artista migliori in circolazione. Disposta a lasciarsi estromettere dal progetto artistico che le avrebbe eppure offerto l’occasione di esorcizzare i demoni di un passato da tossicodipendente e che è andato via via assorbendo sempre più il compagno, Marie resta tuttavia un contrappeso necessario per le velleità artistiche di Malcolm, che rischiano di sprofondarlo in un abisso di autoindulgenza e arroganza, una volta distribuito il film.

La ragazza, insomma, figura per Malcolm come un promemoria, implacabile e costante, di quanto rischioso possa essere muoversi nella presunzione di essere già al meglio delle proprie possibilità, appiattendosi – si tratti di amore o di lavoro creativo – su quanto si è già conquistato.

Cinema fra auto e meta-riflessione

Come in nuce già in quel primo confronto, a far emergere e dunque a rendere affrontabili i nodi irrisolti e le problematiche sotterranee che minano la stabilità del rapporto della coppia è un movimento critico-analitico costante che parte dal cinema e al cinema ritorna.

Il cinema – quello realizzato, quello solo ipotizzato – costituisce infatti il bisturi con cui i due scavano nel proprio rapporto, facendo leva su un insight che deriva loro dalla sostanziale appartenenza a quell’universo, per quanto a vario titolo e in vario grado. In tal senso, la lavorazione del film di Malcolm figura come doppio speculare ed esteriorizzato della loro stessa relazione: esiste infatti un parallelo – ulteriormente sottolineato dagli alterchi notturni dei due – tra il progressivo deteriorarsi della loro storia e il perimetro artistico-espressivo del cinema. Da una sceneggiatura scritta per loro, passando per il mancato casting di Marie nel ruolo della protagonista tossicodipendente in cerca di redenzione, fino all’esclusione di Marie dagli infiniti ringraziamenti di Malcolm alla prima, la genesi del film diretto da Malcolm si offre infatti quale chiave d’accesso privilegiata all’universo intimo della loro relazione; un’intimità passata al vaglio, senza sconti, dall’attrice fallita e dal regista solo attraverso l’ancoraggio a quell’universo artistico-espressivo di cui la loro esistenza è parte integrante.
Come se parlare di cinema o di amore, con le rispettive falle e migliorie possibili, fosse nella sostanza la stessa cosa.

Per altri versi, riecheggiando una sententia di truffautiana memoria**, mentre indaga le peculiarità della parabola creativa ed insieme esistenziale dei suoi personaggi, l’opera di Levinson lascia sì che a fronteggiarsi siano due figure sfaccettate, coi propri trascorsi traumatici e le proprie intenzioni per il futuro, assorbiti dal doloroso tentativo di liberare il campo da scorie e macerie. Trascendendo il piano della mera conflittualità relazionale, scandagliata certo con cura quasi morbosa dalla sceneggiatura e dalla messa in scena, tuttavia, i due amanti non faticano ad assurgere parallelamente a veicoli metadiscorsivi di due idee complessive di cinema, perno attorno a cui si annodano infatti grossa parte delle parole della coppia.

In una messa in scena che ne riconferma, dopo le evidenze di Euphoria (2019 – in corso), il virtuosismo stilistico, Levinson sembra infatti far collidere due contrapposte visioni complessive di cosa sia o debba essere il cinema: da una parte Malcolm, paladino di un cinema che sfrutta i propri strumenti tecnici e linguistici al fine di regalare al pubblico universi vibranti di emozioni, figli della capacità di rielaborazione di un demiurgo totale e scissi all’atto creativo da ogni referente reale; dall’altra Marie, che suggerisce lucidamente un’idea di cinema meno idealistico e più autentico ma che non perda in intensità emozionale per il solo fatto di essere, inevitabilmente, anche industria in cui si perseguono interessi schiettamente materialistici e non sempre nobili.

E se le argomentazioni che Marie inanella nel corso della notte si dimostreranno capaci infine di sabotare la sicurezza di Malcolm come partner ideale e come regista dal talento incontaminato, è difficile credere che alcun equilibrio sia concretizzabile al di fuori di una sintetica complementarietà delle visioni di cui i due sono portatori. Per sventare il rischio di cortocircuito, occorre in certa misura accettare che la settima arte fatica a germogliare senza scendere a patti con la sua componente industriale-commerciale, rinnegando l’origine autentica che rende fertilmente vive le sue storie, attraverso i corpi delle sue star e gli sguardi necessariamente orientati a livello socio-culturale dei suoi registi. Le sue altezze artistiche coesistono con aspetti ben più gretti, i suoi risultati di rado sono individuali e basterebbe ammetterlo, forse, per cercare di riempire gli schermi di quel mistero sempre vivo che scuote le anime.

Fig. 4. Malcolm e Marie, il mattino seguente, nella ripresa in continuità che conclude il film.

Un cinema possibile, profugo di una tempesta di accuse, malignità, urla, sembra prospettarsI nella scena di chiusura: in un’alba lattiginosa, Malcolm e Marie si ritrovano infine l’uno accanto all’altra, incorniciati sullo schermo dalla finestra della loro camera da letto, in una promessa solennemente tacita di non scordarsi più della necessaria sintesi che i loro rispettivi contributi saranno chiamati a realizzare, mentre continuano a intrecciare il cinema ai fili della loro storia.

EC

* Curiosa omonimia con il leader del movimento per i diritti degli afroamericani nonché protagonista del film diretto nel 1992 dal succitato Spike Lee, per di più interpretato dal padre dell’attore 36enne.

** “Quando facevo il critico, pensavo che un film per essere riuscito dovesse esprimere simultaneamente un’idea del mondo e un’idea del cinema” (François Truffaut, I film della mia vita, Venezia, Marsilio, 2007).