Skip to main content

Il labirinto del Fauno: i regni della morte e dell’amore

Lina Crispino
27 aprile 2022

Innocence has a power evil cannot imagine.

Tagline statunitense de Il labirinto del Fauno

Il labirinto del fauno è una storia che contiene al suo interno una fiaba e un’anti-fiaba, realtà e fantasia, un epilogo tragico e un lieto fine. Come i Maquis che trovano riparo nella foresta, allo stesso modo il racconto di Guillermo Del Toro presenta un intreccio narrativo insidioso, un easter egg di significati e rimandi ben congegnati, dove ogni storia possiede la sua genealogia.

Sebbene il regista si sia dedicato ad altre produzioni dopo Il labirinto del fauno, come il recente La Fiera delle illusioni – Nightmare Alley, il primo citato resta la pellicola che ha riscosso più consensi dalla critica e che è impressa nelle menti di chi ama il fantasy e l’horror grazie a figure come il Fauno e L’uomo Pallido. Ma questa non è l’unica ragione riconducibile al suo successo: Il labirinto del fauno è un film che, attraverso sogni lucidi e fervida immaginazione del suo creatore, affonda nella brutalità della guerra per parlare dell’innocenza contrapposta al male.

Nel 2019, a tredici anni dall’uscita del film sul grande schermo, è stato rilasciato anche un libro dall’omonimo titolo, edito Mondadori, nato dalla collaborazione del regista con Cornelia Funke (scrittrice tedesca nota per la trilogia del mondo d’inchiostro) che, già assorta nel mondo fantastico dei suoi romanzi, ha attinto alla sceneggiatura del film e l’ha rimpinguato di ingredienti fiabeschi pienamente in linea con la poetica originaria.

Tra Regno Superiore e Regno Sotterraneo

Il labirinto è emblema della ricerca dell’infinito, significato rinvenibile anche nella luna con la sua ciclicità.

Ofelia è una bambina di undici anni che usa i libri come scudo per difendersi dal male che la circonda. Dopo aver perso il padre in guerra, la madre, Carmen Cardoso, si risposa e attende un figlio dal Capitano franchista Ernesto Vidal. Da quel momento in poi le loro vite sono dirottate in una foresta ubicata nel nord della Spagna, in un vecchio mulino adibito a quartier generale, dove – nonostante la guerra civile sia già volta al termine – persistono le lotte tra i fedeli di Francisco Franco e gli oppositori al suo regime. Un posto dove il ticchettio degli orologi si fonde alle contrazioni ritmiche dei battiti del cuore e la natura – con i suoi mormorii e i suoi sussurri – si unisce alla resistenza, nasconde gli oppositori sotto il suo rivestimento di legno e foglie e tenta di scacciare il marcio che invade ogni spazio e prolifera nell’aria.

È la natura stessa, un tempo rigogliosa e in armonia, a risentire degli orrori della guerra come l’Albero Spezzato in fin di vita che Ofelia dovrà salvare dall’ingordigia del rospo (comparabile all’esercito franchista che saccheggia e si appropria delle provviste di cibo, lasciando il popolo morire di fame).

Le radici degli alberi affondavano tanto in profondità nel terreno ricoperto di muschio da intrecciarsi con le ossa dei defunti, e i loro rami si protendevano verso le stelle. Quante cose perdute mormoravano le foglie. Ma tutte le cose perdute possono essere ritrovate.

Il labirinto del Fauno – Guillermo del Toro, Cornelia Funke (pag. 9)

E tra le cose ritrovate, Ofelia scorge nel bel mezzo di un sentiero un sasso che nasconde sotto uno strato di muschio l’incisione di un occhio. Avanzando lontano dalla strada serrata, scopre si tratti del pezzo mancante di un volto scavato nella pietra di una colonna. Il suolo che la bambina calpesta si rivela un portale che conduce a un altro mondo: un regno sotterraneo lussureggiante all’ombra delle nefandezze umane.

Serpeggiando tra antichi muri di pietra e cerchi infiniti, guidata da una creatura alata che prende in prestito l’aspetto di una fata, si imbatte in una figura massiccia e gigantesca: un Fauno. L’essere mitologico, simile a un tronco di legno che scricchiola e ha bisogno di riassestarsi, confessa a Ofelia che in realtà lei altro non è che la Principessa perduta (messa al mondo dalla Luna) di un regno che attende il suo ritorno da trecentotrent’anni. Tuttavia, per ricongiungersi al re e alla regina e sedere sul trono che le spetta, deve prima dimostrare di essere la reincarnazione di Moana superando tre prove.

Del Toro architetta un mondo onirico bipartito all’interno del quale la linea di demarcazione tra il fantastico e il reale è quantomeno labile. Spettatore e lettore si fanno testimoni di un racconto dove entrambe le realtà coesistono rilasciando più di una chiave di lettura. Ma cosa differenzia il libro dal film?

Cornelia Funke ricalca i personaggi de Il labirinto del fauno con uno stile delicato che – senza andare in contrasto con la venatura dark del regista – si amalgama perfettamente al racconto. Ad accentuare il carattere più tenebroso è invece l’artista Allen Williams il quale ci regala delle illustrazioni sofisticate e oscure rigorosamente in bianco e nero e con degli sfondi sfumati. Il libro con le sue 347 pagine inoltrate è intervallato da ben dieci fiabe che approfondiscono la caratterizzazione dei personaggi e aggiungono figure emblematiche non presenti nel film utili a completare le tessere del puzzle (per citarne alcuni: lo scultore Cintolo, il Rilegatore, l’Orologiaio).

Non mancano neppure le metafore a rendere più esplicativa la natura dei protagonisti: Vidal, come esaminato da uno scanner, è subito individuato da Ofelia come il Lupo; Mercedes un topolino invisibile in balia della morte; i guerriglieri dei Conigli che si muovono agilmente nella foresta a debita distanza dai bracconieri, attendendo il momento giusto per fare la propria mossa.

Kaguya e Moana: due principesse tormentate

La fiaba ideata da Del Toro non è l’unica ad avere come protagonista una principessa nata dalla Luna che anela al mondo degli umani.

Isao Takahata con Kaguya-hime no monogatari – in italiano Storia della Principessa Splendente – attinge a uno dei racconti popolari più antichi della tradizione nipponica, apportando modifiche e arricchendo la storia di particolari non trascurabili, soprattutto nello stile dove le immagini sono in continuo divenire tanto da sembrare un quadro futurista al quale elude persino il colore.

Nonostante i film dei due registi siano differenti sul piano stilistico, trovano punti di sutura su quello narrativo. Moana e Kaguya guardano il mondo circostante con stupore e meraviglia; la loro innocenza è evidente in un sorriso sguaiato o in credenze magiche (nel caso di Ofelia) in un luogo che lascia poco spazio all’immaginazione e dove il sangue è l’unico filo conduttore tra il mulino e la foresta.

Illustrazione di Allen Williams dal libro Il labirinto del fauno nel racconto Il mulino che perse il suo stagno.

Entrambe principesse di un regno lontano, sono figlie della Luna: un mondo dove sentimenti quali l’angoscia e la tristezza, scaturite dal dolore e dalla menzogna, sono estranei al loro essere come ogni turbamento dell’animo. Eppure questo non basta. La principessa Moana sognava la brezza lieve e la lucentezza del sole; Kaguya, sentendo cantare un abitante della capitale della Luna e scorgendone il volto rigato dalle lacrime, comincia a porsi delle domande e il suo animo viene scosso dalla stessa malinconia che proferivano quelle parole.

Entrambe vogliono sperimentare emozioni puramente umane, il brivido dell’avventura e della novità. Un mondo in apparenza perfetto, statico nella sua regalità, non appaga il loro spirito che ne risulta, invece, perturbato. Si ritrovano catapultate così sulla Terra tanto ambita, ma private della loro memoria e delle origini ultraterrene che le contraddistinguono. Con un piede dentro e l’altro fuori, perennemente sul filo del rasoio, muovono i primi passi cercando di capire chi sono e cosa sia davvero la felicità in un mondo corrotto, pronto a ferirle se non prestano la dovuta attenzione.

L’innocenza di quell’età, di quella visuale così pura e tutta da riempire di esperienze e immagini nuove, permette loro di estraniarsi dal male e di prenderne le distanze. “La banalità del male”, l’ambizione degli adulti che porta a spargimenti di sangue, è lontano anni luce dall’essenza dei bambini a cui preoccupa godere di un’esistenza genuina. Ed è proprio questo che spinge sia Kaguya che Moana a disobbedire, a resistere e liberarsi dalle catene dell’oggettificazione della donna (nel primo caso) e di un regime totalitario (nel secondo) consce del fatto che accettare quelle condizioni avrebbe leso i loro diritti.

Persino il corpo ridotto a insignificante vetrina e merce di scambio dal valore indefinibile scappa dal suo stato di prigionia e preferisce librarsi in aria come spirito di una dimensione abbandonata e richiamata inconsciamente nella disperazione. Takahata esprime questa ribellione al perfezionismo attraverso disegni dalle linee spesse, irregolari e spigolose e dai colori evanescenti che – in sintonia con lo stato d’animo alterato della protagonista – sfugge ai confini delle proprie forme.

La storia della principessa splendente – Kaguya nel momento in cui si allontana dal palazzo.

Del Toro invece, con il suo lungometraggio, attua questa metamorfosi nello sguardo: Ofelia arriva nel vecchio mulino come un animale indifeso e disorientato, man mano che si addentra fra quelle mura rumorose e scricchiolanti, mette in moto la sua immaginazione e matura uno sguardo indisponente e audace, pronto a raccogliere le sfide e a difendere chi ama in cambio di nascondersi ed essere difesa.

Anche la pericolosità della bellezza in una società maschilista è un tema comune alle due pellicole. Il padre adottivo della Principessa Splendente, per via della bellezza divina di cui la figlia dispone, è convinto che restare nella loro umile casa e non sfruttare un simile dono significhi andare contro la volontà dei cieli. Il trasloco di Kaguya, insieme ai genitori, in una lussuosa villa si trasforma nel suo calvario: ogni giorno le sue azioni sono orientate all’unico scopo di maritarsi.

Nella fiaba di Del Toro negli anni successivi alla guerra civile, invece, le donne di quell’avamposto infernale sono viste come creature incapaci di reagire, nate solamente per procreare e soddisfare i bisogni del proprio uomo (Vidal degna la moglie di attenzioni solo perché porta suo figlio in grembo, ma tutti sanno che è un misogino).

“Tutte le forme del male”

È raro che il male prenda forma immediatamente. Spesso, al principio, è poco più di un sussurro. Uno sguardo. Un tradimento. Ma poi cresce, si radica, ancora invisibile, inosservato. Solo le fiabe danno una forma concreta al male. I grandi lupi cattivi, i re malvagi, i demoni, i diavoli…Ofelia sapeva che l’uomo che ben presto avrebbe dovuto chiamare “padre” era malvagio.

Il labirinto del Fauno – Guillermo del Toro, Cornelia Funke (pag. 17)

Il male può prendere in prestito varie forme, anche quelle che ci appaiono più innocue e ordinarie. Non esiste un identikit fisso per riconoscerlo. In questa fiaba che si tinge dei colori del sangue e della morte ci vengono mostrati più volti e più maschere, scomodando ibridi antropomorfi appartenenti alla mitologia classica e mostri nati a partire dall’osservazione della crudeltà umana. Come sarebbe l’uomo, fisionomicamente parlando, se l’aspetto trasfigurasse ogni sua orridezza?

L’uomo pallido, interpretato da Doug Jones, è il male per definizione: emblema di una spietatezza disumana, la creatura che sonnecchia sotto il pavimento ligneo della camera di Ofelia, è un essere assetato di sangue di innocenti che si diverte in giochi di ruolo dal carattere diabolico dove lui interpreta il cacciatore e i bambini le prede – attratti in quel posto infernale dall’invitante profumo del suo banchetto. Ciò che non sa chi si è limitato alla visione del film, è che nel libro viene approfondita la sua genesi in un racconto dal titolo “Il bambino che scappò.

Il labirinto del fauno – Ofelia nella tana dell’Uomo Pallido.

Denominato come Mangiatore di Bambini, dalla pelle flaccida e diafana, tra queste pagine viene fatta luce sulla sua indole. Nel suo corpo è mai esistita un’anima? Ebbene, Cornelia Funke e Del Toro ci spiegano che la creatura, ora irriconoscibile, un tempo fu umana ma priva di coscienza. La mancanza di scrupoli, unita alla totale assenza del rimorso, lo spinge a fare ricorso alla violenza sin dalla tenera età concentrandosi dapprima sugli insetti, uccelli e altri animali e finendo per commettere il suo primo omicidio all’età di tredici anni.

Dalle pulsioni molto simili al sociopatico della serie televisiva Dexter, l’Uomo Pallido non si erge a paladino della giustizia né crea un rigoroso codice per risparmiare chi non è come lui. Le sue seriali uccisioni (infanticidi) annientano gli ultimi rimasugli di umanità e ne convertono l’aspetto; persino gli occhi, stanchi di assistere ai suoi indicibili crimini, tentano una fuga staccandosi dal loro possessore – il quale li costringe alla vista incastrandoli sui palmi delle mani.

L’immortalità, la lotta tra il bene e il male, sono tematiche ancestrali: per l’ideazione del grottesco Uomo Pallido, il regista sembra essersi ispirato a un mostro della mitologia giapponese, conosciuto anche come tenome (手の目, “occhi sulle mani”). Appartenente alla famiglia degli yōkai, quella di cui parliamo è una creatura soprannaturale malevola, dall’aspetto di un vecchio cieco, che si spaccia per essere umano fintanto che non si avvicini qualcuno da convertire in pasto. Le differenze tra i due sono sottili, a eccezione del fatto che la creatura di Del Toro prediliga come sue vittime i bambini. La scelta non è casuale: fu proprio lui a dichiarare in un tweet del 2017 che The Pale Man personifichi tutto il male istituzionale che si nutre degli indifesi.

Il famoso tweet sull’Uomo Pallido di Del Toro.

Se Il Mangiatore di Bambini rappresenta ne Il labirinto del fauno l’incarnazione del male, il Capitán Vidal ne figura solo un lato. Egli è un carnefice e a sua volta vittima del padre che l’ha cresciuto e plasmato come sua controfigura, riducendolo a essere un uomo che odia il suo riflesso e che conta – ossessivamente – le ore che lo separano dalla morte, come se in essa risiedesse l’unico scopo di vita: morire da eroe, in gloria e dare in eredità la medesima condanna al figlio che giace ancora nel grembo materno.

La mania dell’ordine, della puntualità e di un controllo simulato, nascondono infatti un’intransigenza verso se stessi e gli altri, simile anche a un rito di espiazione delle proprie colpe. Vidal è dunque un debole incapace di pensare e, di conseguenza, di fare delle scelte. La sua vita è un mero ologramma: proiezione astratta di un’idea impiantatagli dal padre. Spiccicato a un personaggio del libro, l’Orologiaio, che per timore alla morte misura e scandisce le giornate attraverso orologi, meridiane, clessidre e cronometri, in un Palazzo del Tempo dove la stessa sorte spetta alla moglie e ai figli. Un controllo solo apparente che finirà per sfuggirgli e lo porterà a fare i conti con la morte nel “paese dell’oblio”.

In un posto dove la dittatura calpesta l’individualità e persino il prete tesse le lodi dell’obbedienza, si contrappongono ad essa personaggi che incarnano la Resistenza, tra i quali  la governante Mercedes, i guerriglieri, Ofelia, e soprattutto il Dottor Ferreiro. Quest’ultimo si distingue dagli altri per il suo animo gentile e per aver scelto volontariamente di non ricorrere alla violenza e di esercitare la sua professione di medico in un luogo dove conta solo uccidere (“Perché obbedire senza pensare così istintivamente, lo fa solo la gente come lei, capitano”).

La magia esiste?

La fiaba : “Una rosa su un monte oscuro” (nella prima immagine) raccontata da Ofelia al fratello non ancora nato.

La magia esiste fin dalla notte dei tempi. La fiaba, forma narrativa nata come racconto tramandato oralmente, fa ricorso ad essa per parlare soprattutto delle paure umane ed esorcizzarle, veicolando in modo velato una morale destinata sia ai bambini che agli adulti.

Come dicevamo a inizio articolo, il film contiene una fiaba e un’anti-fiaba: la prima rintracciabile nella potenza creativa della bambina che dà forma alle creature fantastiche dei suoi libri come consolazione alla solitudine; la seconda nella consapevolezza che la magia possa rivelarsi altrettanto agghiacciante.

Il Fauno stesso, che è la figura più ambigua e controversa del film, incarna sia la diffidenza che ha Ofelia verso il mondo esterno sia il recondito desiderio di protezione. Ma è risaputo che il mondo dell’immaginazione è vasto e una via d’uscita si trova anche quando tutto appare assurdo e distopico. Alice – personaggio inventato da Lewis Carroll – ad esempio rappresenta l’archetipo di come i sogni e le fantasie possano subentrare nella realtà fino a farle apparire del tutto normali e di quante porte possano stagliarsi dinnanzi i nostri occhi, suggerendo di aprire quelle giuste.

LC


COMMENTA SU TELEGRAM

SUPPORTACI SU KO-FI