Skip to main content

Netflix, m’hai provocato? E io ti distruggo con la domestication

Beatrice Vanacore
15 luglio 2022

Questo articolo è la seconda parte di un dialogo sull’algoritmo di raccomandazione di Netflix che abbiamo iniziato qui. La lettura della prima parte non è necessaria alla comprensione della seconda. Tuttavia, se vi interessano gli argomenti trattati in questo pezzo, vi invitiamo a recuperarla.


Questo mese abbiamo fatto uscire un articolo sul rapporto fra utenti e piattaforme streaming, in particolar modo, su come gli algoritmi ritraggano i propri utenti.

Oggi concludiamo il discorso sul rapporto fra fruitori e colossi digitali dell’intrattenimento cambiando il punto di vista. Ci concentreremo maggiormente su come le persone co-producano gli usi possibili degli artefatti. Parliamo, quindi, del concetto di domestication.

Facciamo un discorsetto: determinismo tecnologico e costruttivismo sociale

Per parlare con cognizione di causa sia la domestication, è necessario palesare una tematica rimasta sopita nel primo articolo dedicato al rapporto fra Netflix e i suoi utenti: quello fra determinismo tecnologico e costruttivismo sociale. Con questi due termini ci si riferisce a due atteggiamenti -antitetici – con cui si può guardare alle tecnologie.

Determinismo tecnologico

Il determinismo tecnologico è l’idea per cui le innovazioni tecnologiche siano il motore principale di cambiamenti importanti nel tessuto sociale. È essenziale sottolineare che, molto spesso, questi mutamenti non sono visti come positivi, anzi, tutt’altro: la tecnologia, in questa visione, assume una valenza negativa. Alcuni dei principali esponenti di questo pensiero provengono dalla Scuola di Toronto (Innis e McLuhan – che, doverosamente, vi facciamo vedere in Io e Annie) e da quella di Francoforte.

Logo di Black Mirror.

Un esempio di visione della tecnologia nell’ottica del determinismo tecnologico è presente un po’ in ogni rappresentazione fantascientifica-distopica della stessa. Su tutti, però, è indubbiamente Black Mirror a farsi da portabandiera di questo pensiero (in special modo gli episodi “classici”, prodotti prima del passaggio a Netflix).

Nella serie antologica, infatti, ci viene illustrata una realtà in cui le persone sono succubi degli artefatti tecnologici, in cui la società tutta è plasmata da questi e ridotta a uno spazio senza valori se non quelli di consumo.

Un ottimo esempio di come Black Mirror dipinga una realtà soggiogata dalla tecnologia è costituito da “Ricordi pericolosi”. In questo episodio della prima stagione, alla stragrande maggior parte delle persone è impiantato un dispositivo in grado di registrare tutto ciò che viene visto, fatto e sentito da chi lo “indossa”, per poterlo riguardare in un secondo momento. Questo porta a un totale rimodellamento sociale di come le persone vivano la privacy e la memoria.

Ricordi pericolosi.

Costruttivismo sociale

Il costruttivismo sociale è – per semplificarla molto – il pensiero opposto al determinismo tecnologico. Le tecnologie non possiedono proprietà intrinseche a priori, ma acquisiscono significato solamente attraverso l’incontro con gli utenti. La tecnologia, quindi, non annichilisce la volontà delle masse ma è solamente il riflesso di chi vi si appropria. I principali esponenti di questa visione sono i sociologi Bijker e Law.

Un ottimo esempio della visione della tecnologia nell’ottica del costruttivismo è costituito da – plot twist – alcuni specifici episodi sempre di Black Mirror. Ebbene sì, fra le puntate che reputate probabilmente meno efficaci si nasconde del costruttivismo sociale e questo perché, semplicemente, non sono angoscianti. Un esempio calzante è l’episodio della terza stagione: “San Junipero”. La tecnologia rappresentata è una realtà aumentata mediante la quale è costruita una cittadina– San Junipero, appunto – dove si è eternamente nel fiore degli anni e in cui la coscienza umana può essere trasferita dopo la morte. La possibilità di sfruttare uno spazio virtuale del genere, però, non condiziona come le persone affrontino la morte: la scelta resta in mano al singolo individuo.

In altri episodi, è mostrata una tecnologia praticamente identica ma sfruttata in modi diversi e in cui l’intervento del singolo utente ha un peso decisivo. In “Giochi Pericolosi” e “USS Callister” la realtà aumentata è utilizzata nel contesto del gaming. Giochi pericolosi – che non ha proprio un finale con cuccioli e caramelle – mostra la creazione e il rodaggio di questa tecnologia; USS Callister ci mostra già un ambiente in cui l’utente è molto più in potere e decisivo nel determinare gli avvenimenti.

USS Callister.

Nel contesto dello studio dei media, e di quelli sociologici più in generale, a oggi si sta provando a superare queste due visioni riduzioniste. La soluzione è un punto di incontro che veda sì gli artefatti come progettati da qualcuno con un’intenzione circa il loro uso ideale (e, quindi, con una valenza politico-sociale), ma anche i fruitori come esseri con spirito critico, in grado di accogliere alcune letture degli oggetti, rifiutarne altre e coniarne persino di inedite. È qui che entra in gioco la domestication.

Come leggiamo le piattaforme: la mutual domestication

Per domestication si intende quel processo con cui gli utenti:

Si appropriano, portando le tecnologie e gli oggetti a casa, e rendendoli, o non rendendoli, accettabili e familiari […] include le varie cose che i consumatori fanno per segnalare agli altri la loro partecipazione nel consumo e nell’innovazione.

Silverstone, Haddon, 1996

Nella sua prima proposta, la domestication era vista come un processo in sei fasi: la mercificazione e l’immaginazione, in cui è determinato il consumo ideale dell’oggetto (non solo dal produttore, ma anche da altri attori quali forze politiche e opinion leader), l’appropriazione, l’oggettivazione, l’incorporazione e la conversione, in cui il consumatore entra effettivamente a contatto con l’oggetto, lo introduce nella propria routine e vi attribuisce significato accettandone alcuni usi, rifiutandone altri e creandone persino di nuovi.

Nel contesto delle piattaforme streaming, la domestication è stata indagata nel 2019 da Siles, Espinoza- Rojas, Naranjo e Tristán. Nello specifico, questa equipe di ricercatori crede che gli utenti Netflix e l’algoritmo di raccomandazione della piattaforma si influenzino vicendevolmente. Siamo, quindi, di fronte a un caso di mutual domestication.

La mutual domestication è un ciclo di cinque fasi che si susseguono all’infinito. Mediante la personalizzazione, prima fase, l’utente prova a riversare un po’ di sé all’interno della piattaforma e lo fa, principalmente, tramite la scelta iniziale; quest’ultima invidua i contenuti apprezzati dal fruitore, che fornisce, quindi, un feedback di gradimento alla piattaforma. A conti fatti, è proprio questo processo che porta i clienti del gigante rosso a diventare molto gelosi del proprio account personale. Anche indicare il proprio nome è, ovviamente, un esempio di personalizzazione. Netflix ci chiama molto spesso per nome e questo contribuisce a darci l’impressione che ci conosca e, conseguentemente, che sia in grado di fornirci le migliori raccomandazioni di visione possibili.

Silverstone e Haddon usano la storia della radio come esempio per parlare di domestication.

La seconda fase è quella dell’integrazione: l’insieme di criteri con cui il fruitore decide cosa guardare. Oltre ai consigli della piattaforma, infatti, possono essere rilevanti opinioni trovate online, consigli di amici e parenti o caratteristiche della produzione.

La terza fase della mutual domestication è costituita dai rituali, ovvero quando e con chi gli utenti guardano contenuti. I rituali di visione, ovviamente, erano (e sono) presenti anche quando si parla di guardare la televisione. Nel caso di Netflix, però, i rituali sono passati molto più sotto il controllo dell’utenza e molto meno sotto quello del flusso nell’accezione di Williams.

La quarta fase è quella della resistenza, ovvero un atteggiamento di sfiducia da parte dei clienti. Atteggiamenti di resistenza derivano spesso dal non comprendere l’algoritmo di raccomandazione o dall’aver ricevuto raccomandazioni poco in linea con i propri gusti (questo può far sentire gli utenti non capiti e quasi traditi) o per i contenuti presenti nel catalogo (ad esempio, alcuni clienti potrebbero essere seccati nel non trovare nel catalogo Netflix del proprio Paese un contenuto presente in quello di un altro).

L’ultima fase è quella della conversione, ovvero:

Il processo di riconnessione con il mondo pubblico attraverso l’esposizione della tecnologia o dei suoi contenuti

Siles, Espinoza-Rojas, Naranjo e Tristán, 2019.

Atti di conversione possono essere il condividere con altri utenti un titolo che si è apprezzato ma anche guardare lo stesso contenuto del proprio gruppo di amici.

Queste cinque fasi non sono da intendersi come lineari, bensì cicliche e interdipendenti. Un suggerimento poco azzeccato da parte della piattaforma potrebbe portare ad atti di resistenza da parte dell’utente. Allo stesso modo, decidere di basarsi esclusivamente sui consigli di persone e non su quelli della piattaforma (un atto di resistenza e di integrazione) può comunque portare alla conversione dello spettatore.

Chi regge il coltello dalla parte del manico?

Chi è, allora, a controllare chi? La risposta è meno semplice di quanto non possa sembrare. La mutual domestication è un processo che vanta una doppia articolazione: gli utenti interagiscono e sfruttano le piattaforme nelle loro attività quotidiane e a loro piacimento; la piattaforma plasma e appiattisce i gusti degli utenti fino a renderli in linea con quelli del proprio utente ideale.

La verità, quindi, è che, non solo cultura e algoritmi si influenzano reciprocamente ma questi sono una componente gli uni dell’altra. Algoritmi e utenti sono protagonisti di un’eterna danza su sole due note: Tu-Dum.

BV


COMMENTA SU TELEGRAM

SUPPORTACI SU KO-FI