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Orrore e rifiuto, ovvero Suehiro Maruo

29 aprile 2022

Suehiro Maruo è un mangaka poco comune nel panorama fumettistico contemporaneo.
Riconosciuto generalmente come uno dei maestri del manga horror – il di cui debutto su carta risale agli anni Ottanta – al contrario di molti suoi colleghi non si è limitato al solo fumetto: spesso ha spaziato dall’illustrazione alla pittura, per arrivare anche alla creazione di artwork per altri oggetti pop, come copertine per dischi, per romanzi e locandine.

Possiede uno stile molto riconoscibile derivato dall’illustrazione tradizionale giapponese ukiyo-e del periodo Edo, di cui ne conserva ancora, almeno in parte, alcune tematiche. Le stesse visioni delle famose “stampe insanguinate” di Yoshitoshi, propriamente rielaborate, ritornano infatti come vividi ricordi nelle opere del maestro Maruo.

Diversi suoi tankōbon possono essere considerati, a buon diritto, dei veri e propri manifesti dell’illustrazione. La sua è un’estetica parecchio ricercata, che poggia su anatomie incredibilmente accurate, corpi magnificamente definiti, simbologie di stampo europeo rielaborate in patria, situazioni ottocentesche riportate alla modernità. Sessualità distorte, omicidi, soprannaturale. 

Serrer les dents pour resister à l’effroi.
La sofferenza è la principale manifestazione nel manga ero-guro.

Suehiro Maruo, in tankōbon come Inugami Hakase (1994), mischia in modo sfrontato forme prese di peso dal neoclassicismo e dall’estetica nazista al folklore giapponese degli yokai, saccheggiando continuamente culture diverse, ma fondendole comunque in un unico contenitore kitsch riconoscibilissimo e propriamente giapponese. Il maestro Maruo è un inventore di ucronie visive, non tanto in senso storico, quanto culturale. Un collezionista ossessionato che trova nella psico-rigida cultura del Giappone post-imperiale l’ambiente ideale per mettere in mostra, uno accanto all’altro, i suoi feticci.

Non a caso, si respira una sorta di zeitgeist sopito e forse addirittura nascosto nel tratto denso e sicuro del mangaka. Si tratta di un sentimento evidentemente proibito, proprio nel senso auto-censorio del termine. Proibito, oscuro e nascosto. È forse, in un certo modo, simile all’orrore esotico e seducente scoperto dal colonnello Kurtz in Cuore di Tenebra di Joseph Conrad e in seguito reimmaginato da Francis Ford Coppola e Marlon Brando in Apocalypse Now

Yoshitoshi – La casa solitaria sulla Brughiera di Adachi (1885)

L’orrido è metaforizzato grazie all’immagine di una lumaca che striscia lenta ma sicura sul filo del rasoio tagliandosi essa stessa nella marcia; la bava si disperde inevitabilmente sulla lama e si mischia al sangue in una innaturale e sinistra soluzione di liquidi corporei. La stessa sostanza, conosciuta ma estranea, che si trova nel profondo dell’animo umano, addirittura geneticamente presente ovunque vi sia componente antropica. Uno zeitgeist dunque, proprio perché legato ad un profondo senso comune del sinistro, dell’inquietante, del nascosto tra le pieghe della normale quotidianità. Che, proprio in quanto comune e quindi per definizione vicino a tutti, inquieta a livello personale il lettore. 

Gli elementi di predilezione di Suehiro Maruo.

Il tratto di Suehiro Maruo è netto, preciso, conciso, completo. Ombra nera, luce bianca, nessuna incertezza, come se ogni tavola fosse una stampa su legno. Ogni gesto, ogni movimento è una posa, una messa in scena di gusto teatrale che riporta inevitabilmente al teatro Kabuki del XIX secolo e alla letteratura giapponese di Edogawa Rampo. Tutto è netto, tutto è chiaro sulla tavola, tranne di sovente i significati, che al contrario sono spesso celati o dietro dialoghi ermetici, o dietro simbologie appannate di matrice pagana. Le storie nelle opere del maestro Maruo, rimangono generalmente semplici, con intrecci abbastanza lineari, che lasciano quasi tutto lo spazio alla messa in scena. Quasi che il mangaka si senta in dovere di creare il vuoto adeguato ad accogliere così tanta saturazione visiva.

Per capire bene l’immaginario di Suehiro Maruo è necessario pensare un contenitore di contenitori, ognuno dei quali è incrostato di materia rubata: Histoire de l’œil (1928) di Georges Bataille, la mitologia germanica del Nazismo, Das Cabinet des Dr. Caligari (1920) di Robert Wiene e l’espressionismo tedesco nel suo insieme, il surrealismo, il fantastico e l’orrorifico di Edgar A. Poe, le storie brevi di Edogawa Rampo, i rapporti tra uomo e uomo, uomo e animale, la sessualità nella sua interezza e impalpabilità, le incisioni su legno di Yoshitoshi, la Repubblica di Weimar attraverso le pitture di Otto Dix, la decadenza borghese, il culto del sangue, i tarocchi e l’esoterismo di fine ottocento, il paganesimo, il teatro Kabuki e la sua versione più elevata , tutto ciò che in natura si manifesta come deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile.

L’animale civilizzato

Al contrario del vampiro animalesco di Shuzo Oshimi (Happiness – Panini Comics, Planet Manga 2015 – 2019), l’eterno adolescente vestito di stracci, che salta di tetto in tetto alla ricerca spasmodica e disordinata della sua preda, quello di Suehiro Maruo (Il Vampiro che ride – Coconino Press 2014) è un animale che ama le divise studentesche, in un mondo che fa della nostalgia dell’atmosfera anni quaranta e cinquanta il suo ambiente naturale. 

Il vampiro di Maruo ha un codice morale ben definito sebbene infinitamente perverso; o forse, la causa stessa della sua perversione è da ricercarsi proprio nell’agiatezza borghese delle società ben impiantate. Proprio parlando di borghesia, i tipici temi del genere erotico-grotesque non sono altro che i passatempi preferiti della borghesia annoiata e benestante del ventesimo secolo. Perversione morale, sessuale, ipocrisia di classe, che come ricorda Pier Paolo Pasolini vengono generate da madri vili

Cimiteri, mutilazioni, amore, simbologia.

In Il Vampiro che ride, la genitrice è proprio una vecchia madre affetta da vampirismo da diverse decine di anni. Il punto di partenza sentimentale ideale per questo tipo di perversioni. E anzi, come si accennava in precedenza, le madri che Pier Paolo Pasolini definisce “vili, mediocri, servili, feroci” 1 sono per Suehiro Maruo la vera origine del mondo.

È interessante notare che anche il concetto di tempo per un vampiro non è altro che una netta metafora del privilegio borghese, quello di poter gestire il proprio tempo in funzione dei propri gusti personali e non costretti ad una vita in funzione del proprio lavoro come poteva esserlo quella delle classi più umili. La noia borghese, nelle opere del mangaka giapponese, diventa quasi il prerequisito con cui preparare il terreno e renderlo fertile per la nascita di malumori e comportamenti che inevitabilmente sfuggono alla sfera morale normalmente accettata. I protagonisti delle storie del maestro Maruo, divorati dalla noia, distorcono il proprio rapporto con la realtà, rendendola soprannaturale, surreale per l’appunto.

L’animale erotico

I personaggi di Suehiro Maruo si dipanano in atteggiamenti ai limiti della condizione clinica. Personaggi novecenteschi che scivolano nel vampirismo, liceali perversi che non conoscono altri limiti se non quelli imposti dalla coerenza della propria follia. Giovani, per lo più adolescenti, che hanno con la propria sessualità un rapporto a dir poco malsano. Protagonisti consapevoli di una crescita malata, ammantata di normalità. Donne borghesi che scoprono nell’orrore un nuovo afflato sessuale, come nel caso di Tokiko, la moglie dell’ufficiale mutilato di guerra ne Il bruco (Coconino Press – 2012). 

Il marito Sunaga, privato, a causa della  guerra, di braccia e gambe, ridotto all’immobilità e al più totale mutismo, diventa nient’altro che un oggetto di piacere per soddisfare le nuove voglie della moglie. Un tipo di voglia che si pone esattamente al confine tra disgusto e piacere, tra rifiuto e irrefrenabile curiosità. La vita della donna si consuma così in zone inesplorate tra il distorto e l’immorale. La noia borghese rimane centrale ma non è manifestata in modo chiaro; si presenta all’interno del modo estremamente dimesso di intendere il sentimento in Giappone, e cioè come appartenente alla sfera personale. La pornografia di Maruo, se come tale si vuole definire, è più un problema di solitudine dello spirito piuttosto che una questione carnale. 

Al contrario di Yasujirô Ozu – Viaggio a Tokyo (1953), Il gusto del sakè (1962), Tarda primavera (1949) – che raccontava con il suo cinema in bianco e nero una borghesia mite e dimessa, rinchiusa in una gabbia di regole sociali che era contenta di rispettare, Nagisa Ōshima racconta i privilegi di coppie votate alla sola ed esclusiva ricerca del piacere, fino ad arrivare a cercarne proprio il limite, il confine esatto tra estasi sessuale e morte per soffocamento, come in Ecco l’impero dei sensi del 1976. Il maestro Maruo sceglie invece un approccio diverso: non una definizione morale della dissoluzione, né una semplice descrizione della sessualità distorta della ricerca del piacere; Suehiro Maruo sceglie il grottesco come punto di partenza e raramente come punto di arrivo. Dunque anche la sessualità diventa grottesca, improvvisa, sconosciuta, inaspettata di certo; ma si presenta come tale in modo assolutamente naturale e spontaneo. Insomma, come se si trattasse dell’inevitabile punto d’arrivo di un sistema di valori definito a priori, il culmine dell’esistenza cercato e trovato nella corruzione. Perché in definitiva, tutto è istinto, tutto è violenza, perché tutto riporta alla sfera sessuale. Almeno per come la intendeva Freud quando si riferiva alla teoria della libido

L’erotismo di Suehiro Maruo rimane indissolubile dal macabro, inscindibile dalla morte coesistente al momento stesso dell’estasi. È in definitiva l’inevitabile coabitazione del bello e del brutto nello stesso momento storico. La stessa filosofia che applica David Lynch in Velluto Blu (1986) dove uno studente, ancora una volta uno studente, trova un orecchio mozzato all’interno di un magnifico giardino, che lo porta a scoprire un violento mondo sotterraneo e parallelo alla tranquilla cittadina di periferia che pensava di abitare fino a quell’istante. Il bello e il brutto, per il maestro Maruo e per David Lynch, sono indivisibili. È proprio in quel territorio sconosciuto, al confine tra l’uno e l’altro, che trova terreno fertile il genere érotique-grotesque.

L’animale grottesco

L’autore giapponese mette in scena il suo personale teatro dell’orrore affogato in un romanticismo sfrontato, oggettivato e fuori dal tempo. Solo i giovani e giovanissimi sono generalmente di bell’aspetto; tutti gli altri personaggi infatti, sono corrotti fin nella loro esteriorità. Si tratta di una regola quasi assoluta, che riguarda proprio la condizione di vita dei personaggi-tipo; Per Suehiro Maruo infatti il mostro non è per niente un’eccezione: al contrario, è proprio la condizione umana che mostrifica i suoi personaggi. Li rende depravati all’interno e spesso decrepiti all’esterno (ma possono esistere anche mostri bellissimi).

Paradossali e inspiegabili, i personaggi dell’immaginario del maestro Maruo, si trascinano in un Giappone fantasmatico, senza più alcuna decenza, attinente proprio alla percezione che ognuno di essi ha della propria realtà. In questo senso, Maruo si proietta in una ricerca estetica che rifiuta il normale scorrere del tempo e dello spazio all’interno del manga, delimitato diegeticamente dai quadri che si pongono come confine delle vignette mediante le quali è strutturata la pagina; e ovviamente dallo scorrere delle stesse. In questo modo, si ha come l’impressione che la percezione del tempo sia in un certo senso estranea, sembra che lo scorrere del tempo sia di difficile avanzamento se non che si sia proprio arrestato. Le scene, esattamente come succede in teatro, sembrano cristallizzate e all’esclusivo servizio del lettore. 

Nel Giappone post-imperiale di Suehiro Maruo, non è raro incontrare un pagliaccio che tenta uno stupro su un giaciglio di strada, attorniato da scolopendre e millepiedi attorcigliati in un abbraccio simbolico. Una composizione che, per l’appunto, sembra costruita dall’autore appositamente per arrestarsi alla fine del processo di maturazione e solo così proporsi al lettore. 

Allo stesso modo, le scenografie seguono un criterio di omogeneizzazione costante. Il paesaggio dei manga disegnati da Suehiro Maruo è costituito principalmente da quinte, decori che servono solo a sorreggere la prova d’attore dei propri personaggi. Decadenti, in rovina, brutaliste o barocche, ricercate e romantiche, le scene vertono sempre al racconto unico di Suehiro Maruo, quello surrealista e non-sense.

Divise studentesche, sangue, erotismo.

L’animale-occhio

L’occhio, come elemento ricorrente, ricopre un ruolo di primissimo piano nelle opere del maestro Maruo. Da strumento organico per vedere e interpretare il mondo, diventa oggetto-feticcio da leccare. Da coprire, da accecare, nascondere o mutilare. Un chiaro rifiuto, simbolico, di analizzare la realtà per come si presenta. Il primo passo per costruirne una nuova, adattata allo spirito del tempo e ai voleri dei propri fantasmi. 

Oculolinctus, ovvero gratificazione erotica grazie al feticismo dell’occhio.

L’occhio, non solo come utensile organico ma anche come sinonimo di voyeurismo, diventa il mezzo privilegiato del lettore – ma allo stesso tempo auto-punito, in quanto mutilato, ferito, accecato – per reinventare le proprie pulsioni nei confronti del mondo esterno. Come aveva già spiegato Dziga Vertov con la teoria del cine-occhio, tutto ciò che è visto dall’occhio e che può risultare conosciuto e banale, acquista un valore nuovo se filtrato dal media. Ebbene, il lettore di Maruo diventa, in senso lato, un vero e proprio voyeur piuttosto che un semplice spettatore. 

Suehiro Maruo opera quindi, attraverso il suo disegno, una ricostruzione della realtà che si avvicina più ad una complessa e distorta interpretazione dell’istinto e dell’antropologia dell’animale-uomo, piuttosto che ad un semplice parto della fantasia.

VV


NOTE:

1 P. P. Pasolini – Poesia in forma di rosa (1961-1964), Garzanti, Milano 1964


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