Skip to main content

Niente di vero: raccontarsi una vita

Niente di vero, edito da Einaudi, è un libro che, già dal titolo, gioca sull’ambiguità. Nonostante abbia tutto l’aspetto di essere un memoir, dichiara esplicitamente di non contenere niente di vero (se non quel tanto che basta a renderlo plausibile) e di non raccontarci niente di Vero(nica) Raimo, autrice di questo romanzo.

Difatti, la storia che ci viene snocciolata al microscopio, memoria dopo memoria, è quella di Verika, di Oca, di Vero, Veronika e Veronica: figlia di una donna comicamente apprensiva e di un uomo con smanie incomprensibili, sorella di un ragazzo genio che precede ogni sua pregevole mossa, rendendola indisturbatamente normale. Veronica diventa poi un’adolescente all’inseguimento dello struggimento a ogni costo, una donna adulta con una serie di esperienze a costellarne la vita, forse ancora irrisolte. Forse, nemmeno vere.

Veronica Raimo

Niente di vero, però, non è un libro sul tacere la realtà ma sul crearne una diversa agli occhi degli altri, sì, ma anche ai propri. Disegnare una scappatoia di false versioni per costruirsi un’identità, una vita da raccontarsi.

Menzogna e noia

Niente di vero introduce immediatamente quanto la menzogna sia a fondamento della vita di Verika. Sono raccontati due aneddoti con un tema comune, estremamente ricorrente quando si parla di talenti infantili: Verika è molto brava a disegnare.

È vero? Non è rilevante. La piccola Raimo, di soli otto anni e senza particolari talenti, decide di trafugare due dipinti da una classe della scuola in cui insegna sua madre, di cancellare la firma dei veri autori e di spacciarli per suoi. I segnali del furto sono ignorati da tutti: i dipinti sono ad olio, Veronica ha solo tempere; la firma dei veri artisti è cancellata a penna ma ben visibile sul retro. I due quadri vengono appesi nel corridoio di casa (casa in cui vengono ossessivamente edificati muri) a testimoniare il talento anche di quella bambina.

Alla lunga, però, succede una cosa particolare. Le lodi per quei due quadretti sono talmente sperticate che Verika finisce per convincersi di avere veramente dei meriti. Magari non li ha dipinti lei, ok, ma li ha pur sempre scelti fra una vasta selezione: è evidente che abbia uno spiccato gusto. Anche il suo nonno paterno, con cui ha un legame particolarmente stretto, si fa coautore di questa bugia. L’uomo racconta alla nipote di aver vinto un gioco indetto dalla Settimana Enigmistica, che consiste nel realizzare un disegno partendo da linee preesistenti. Si presenta dalla bambina con un premio, un libro di favole, come testimonianza del talento di Veronica; fra i disegni premiati della Settimana Enigmistica, però, del suo non c’è traccia.

Un esempio di “Questo l’ho fatto io“, La Settimana Enigmistica

In contrapposizione a quello del mentire, un altro tema ricorre nel corso dell’infanzia di Verika: quello della noia. La noia dei piccoli Raimo nasce dall’ansia ipocondriaca e catastrofica dei loro genitori. I due fratelli vivono quello stato di “bravi bambini” senza nemmeno la fantasia del gioco, toccati, a loro volta, dall’apprensione genitoriale. Si rifugiano nei libri, nella lettura non come fuga dalla noia ma, al più, come strumento per immergervisi ancora di più.

La noia si fa allora terreno fertile per il prosperare della menzogna: persino ad un insensato gioco di dadi in cui non si vince nulla, Veronica decide di truccare il risultato per il gusto di farlo; il fratello, probabilmente consapevole di cosa stia accadendo, glielo lascia fare, si congratula persino. La noia è presente anche quando Veronica deve aspettare la madre fuori da scuola e, per riempire quel tempo solitario, la bambina si immagina come una pop star planetaria dalla vita piena: Veronika.

A prenderla, però, non arriva sua madre, bensì un collega della donna: il temibilissimo Re dei Libidinosi. Veronika torna ad essere Verika: non sa cosa fare. Le è stato insegnato di non salire in macchina con gli sconosciuti ma, d’altra parte, quello che ha di fronte è un autorevole adulto. Combattuta, la bambina sale in macchina e si chiude in un silenzio ermetico e terrorizzato di fronte alle domande gentili e interessate dell’uomo.

Certo che sei proprio una bambina timida, eh? – Quell’insinuazione fu un brutto colpo: fu allora che sentii uscire il primo rigagnolo, fino a quando mi ritrovai completamente fradicia. Mi ero pisciata sotto dalla paura […] Mi portò nel bagno di un bar e mi sciugò davanti, mi fece poggiare con le mani al muro e mi asciugò di dietro […] Mi chiesi se la parola “libidinoso” volesse dire quello: un uomo adulto che ti asciuga le parti intime nel bagno di un bar.

Veronica Raimo – Niente di vero (capitolo 7).

Schiacciata dalla netta differenza fra finta vita da star a vera vita da “bambina che si era pisciata sotto”, Veronica decide di omettere questo evento a tutti. La menzogna diventa fuga dall’imbarazzo.

L’autodeterminazione della memoria

Il tema della memoria, in un finto memoir, non poteva che essere centrale. In questo caso, però, è trattato in maniera diversa. Strettamente legata alla menzogna, la memoria è manovrata da Veronica che sceglie, tal volta, di ricordare ciò che vuole come lo vuole. Questo la porta inevitabilmente a dubitare della verità.

La perdita della verginità di Veronica passa inosservata alla sua consapevolezza. Senza la coscienza di come veramente sia fare sesso, la ragazza non riesce a capire, retroattivamente, quando l’evento abbia avuto atto.
Allo stesso modo, Veronica adolescente passa il quarto anno di liceo a dipingere una vita mai esistita in una corrispondenza epistolare con la sua migliore amica, in Germania per uno scambio scolastico. La finzione della narrazione e la prevedibile realtà finiscono per mescolarsi talmente bene da sovrapporsi: il suo vero quarto anno di liceo, non lo ricorda.

“Memoria” – René Magritte, 1948

L’indeterminatezza degli avvenimenti che hanno costellato la sua vita si accompagna (forse, si traduce) in un’impossibilità di riconoscerla da parte di chi le sta attorno. Veronica è irriconoscibile. Ha un volto in continua metamorfosi agli occhi di chiunque: amici, compagni di vita, persino sua madre continua, inesorabilmente, a scambiare altre donne per lei.

Pensai a mia madre nell’eventualità tragica di dover riconoscere la mia salma, non avrei voluto essere nei suoi panni. Pensai al suo smarrimento. Pensai al suo volto: non era distrutto, non era annientato, solo parecchio confuso […] Avrebbe pianto la salma riccioluta di una donna con le tette grosse e venti chili in più di sua figlia? […] – Ma sì, dai, facciamo che è lei -.

Ed è così che mi sento in ogni istante della mia vita: ma sì, dai, facciamo che sono io.

Veronica Raimo – Niente di Vero (capitolo 26)

La menzogna e i ricordi si mescolano fino a diventare indistinguibili gli uni dagli altri. La fine di un’amicizia resta sepolta in qualche anfratto della mente, così come le prove della storia adulterina di uno dei genitori spariscono nell’incertezza dei ricordi.

Ma la vita non è proprio questo, in fin dei conti?
Non è forse una serie di momenti superstiti alla carneficina del tempo?
I più significativi sono quelli che restano: quelli ai quali scegliamo di aggrapparci e ritoccare di tanto in tanto, fino a perdere l’impronta di ciò che veramente è stato.

Come detto in apertura a questo articolo, Niente di vero è un libro che gioca sull’ambiguità di ciò che è stato. Quello che emerge verso la fine, una volta che ci si è inevitabilmente affezionati alla famiglia appena un po’ surreale della Raimo, è una volontà di illustrare ciò che sarebbe potuto essere ma non per la ricerca di un’ Espiazione (come nell’omonimo romanzo di McEwan, ad esempio): in questa riscrittura degli eventi, non c’è nulla da espiare. Quello di Niente di vero sembra essere un tentativo di risoluzione, una ricerca di risposte che, però, non arriva.

Il motivo della stesura di questo libro quasi biografico, quasi catartico, resta sepolto e nascosto, non solo agli occhi del lettore, ma anche alla volontà della sua autrice. Ma, d’altronde, “una storia è un concetto ambiguo”.

BV