Skip to main content

Identità e clonazione: Torna da me

Il concetto di identità è qualcosa in cui siamo costantemente sommersi, ci ossessiona. Ognuno di noi vive, ovviamente, nella propria singola, specifica e irripetibile identità personale; oltre a questo, e ve ne sarete accorti, l’unicità della nostra persona ci viene ricordata ogni giorno. Che si tratti della nostra performance sui canali digitali, della costante promessa di personalizzazione che ci viene venduta, della propensione collettiva al cercare di comprendersi e categorizzarsi con espedienti come i segni zodiacali (o i quiz di BuzzFeed per capire quale gusto di pizza sei). La nostra identità è la cosa a cui più teniamo.

Esiste veramente

Questa fissazione, tuttavia, è relativamente recente: nel periodo del feudalesimo, in realtà, alle persone interessava ben poco di dire, o sapere, che erano cancro ascendente leone – o dell’impasto al kamut con funghi e gorgonzola. Con l’età moderna, però, le cose sono un po’ cambiate. Locke, ad esempio, fa leva su una correlazione fra proprietà privata e identità: se siamo in grado di possedere qualcosa, dobbiamo necessariamente essere (no, poter solamente pensare non basta: scusa, Cartesio).

In generale, è indubbio che, grazie soprattutto alla nostra sempre maggiore propensione al consumo, si sia gradualmente affermata anche l’ossessione per l’unicità e l’auto-rappresentazione. Ma come si definisce l’identità personale? Possiamo individuare tre poli che vi stanno alla base: l’ascrizione (cos’è una persona), la singolarizzazione (cosa rende quella persona diversa da un’altra) e la persistenza (cosa rende una persona la stessa nel corso della propria vita).

L’identità è una tematica indubbiamente affascinante, ispirazione per pensatori e artisti: oggi analizziamo in che modo l’identità è raccontata nel Cinema mediante l’espediente del doppio e della clonazione. Analizziamo l’episodio che apre la seconda stagione di Black Mirror (serie antologica dal taglio distopico di cui abbiamo già parlato qui): Torna da me.

Ascrizione: cosa ci rende persone?

Il primo passaggio necessario per parlare di identità è quello dell’ascrizione.
Cosa rende un individuo tale? Provare a fornire una risposta esclusivamente biologica, “una persona è un animale facente parte della specie sapiens del genere homo”, è forse un fattore necessario ma certamente insufficiente.

Il filosofo Daniel Dennett fornisce sei caratteristiche che un soggetto deve avere – o deve essere stato potenzialmente in grado di avere1 – e che lo rendono una persona: l’essere dotati di razionalità, avere la capacità di intendere, saper adottare atteggiamenti people-specific, poter reciprocare, saper comunicare con un linguaggio verbale, avere autocoscienza.

Daniel Dennett

Nel contesto cinematografico, la questione dell’ascrizione alla classe delle persone è spesso presa in esame quando si parla di robotica e intelligenza artificiale – esempi iconici sono L’uomo bicentenario (Columbus, 1999) o, più recentemente, Ex Machina (Garland, 2015) in cui il concetto di test di Turing è portato all’esasperazione. In entrambe queste pellicole, sono presi in questione soggetti che, pur non essendo umani, possono, alla fine, essere ascritti alla classe delle persone.

L’espediente migliore, però, per descrivere cosa una persona sia e mostrare cosa non è. È proprio questo il concetto su cui è imperniato Torna da me.

La protagonista dell’episodio è la giovane Martha, una ragazza rimasta sola a seguito dell’improvvisa scomparsa del fidanzato, Ash. A seguito di una serie di vicende, Martha si ritrova a interagire prima con una riproduzione digitale di Ash e, in un secondo momento, con un suo vero e proprio clone in silicone e titanio. Nonostante, inizialmente, il sostituto di Ash sembri rendere Martha quasi dipendente, ben presto è proprio la sua assenza di umanità a infastidirla.

Fotogramma tratto da Torna da me

Non basta l’apparenza corporea o la replica di ogni caratteristica (positiva) di Ash a rendere la copia reale. Ash-robot può essere razionale, può comprendere (determinati segnali, non tutti), può anche adottare atteggiamenti people-specific e comunicare con un linguaggio verbale; eppure, non è in grado di reciprocare e non è, realmente, cosciente di sé.

All’androide manca qualcosa, e non è una questione semplice (e trita) come la mancanza di un’anima. L’emulazione è giocata sulla conoscenza del robot del modo di esprimersi di Ash in contesti quali quelli sociali, in cui dell’individuo è mostrato solo il meglio. La copia di Ash non lo conosce veramente, non ne sa emulare i tratti più fastidiosi e intrinsecamente umani, non è in grado di sapere come si comporterebbe durante una lite o in una situazione di tensione perché non sa essere spontaneo.

Singolarizzazione: l’unicità individuale

Ciò che manca, a questo pupazzone parlante, è il potenziale per essere reale. Il caso di Torna da Me differisce, ad esempio, da Her (Jonze, 2013): Samantha, non è umana, non ha un corpo ma può costruire la propria identità senza limiti, senza dover emulare nessuno. Finisce per diventare praticamente un essere vivente. Ash-robot, d’altra parte, si trova a dover affrontare il compito impossibile di replicare un’identità. Insomma, il robottone non può essere una persona perché viola in partenza il secondo principio dell’identità: la singolarizzazione.

Paul Rudd in Living with Yourself

Anche questa volta, a mostrarci come sia possibile rappresentare un esempio di singolarizzazione ben riuscito, arriva il mondo della serialità. Living with yourself (Timothy Greenberg, 2019) è una miniserie Netflix con protagonista Paul Rudd. Al centro della storia troviamo proprio il tema della clonazione e dell’identità.
Miles, un pubblicitario senza più brio, decide di sottoporsi a un miracoloso trattamento ricostituente in una strana Spa. Si risveglia, ore dopo, nudo, incellofanato e sepolto fra i boschi. Tornato a casa, confuso e spaventato, si rende conto che, al suo posto, a casa è tornata una versione di lui leggermente diversa. In altri termini, migliore.

La serie funziona – e bene – proprio perché, quelli che vediamo muoversi sullo schermo non sono affatto la stessa persona. Il Miles originale è impigrito, disattento, ha perso la passione in diversi campi della sua vita; dall’altra parte, troviamo una versione solare, brillante e propositiva dall’aspetto uguale. Quella che sembra essere una distinzione piuttosto semplice dei due personaggi (tratti positivi vs. tratti negativi) si va, man mano, a stratificare e complicare: alla fine della stagione siamo di fronte a due individui completamente diversi.

Persistenza: uguali a noi stessi (ma non troppo)

Torna da me si chiude con un piccolo epilogo. È passato qualche anno; Martha e sua figlia, concepita poco prima della morte di Ash, stanno festeggiando il compleanno di quest’ultima. La bambina chiede di portare una fetta di torta in soffitta, dove, ormai, vive la replica di Ash. Quando ci viene mostrato è, ovviamente, sempre uguale. Questo Ash, in quanto non-persona, non può invecchiare, non può mutare.

Il terzo principio dell’identità è proprio questo, quello della persistenza. Le persone reali, ovviamente, subiscono continue trasformazioni. Tuttavia, è ovvio che, nel corso della nostra intera vita, persista qualcosa in grado di renderci sempre noi stessi. Si è dibattuto molto su cosa sia questo qualcosa.

Di base, ci sono tre scuole di pensiero. La prima è quella che imbraccia il criterio naturalista: la continuità è garantita dalla persistenza del corpo. Tale dinamica, però, mostra delle lacune non trascurabili. Prendiamo ad esempio, il paradosso della nave di Teseo: in breve, Teseo (il tizio del Minotauro) ha una nave. Questa nave, viaggio dopo viaggio, inizia a logorarsi e, man mano che accade, le parti rovinate vengono sostituite con componenti nuove. Passano gli anni e l’ultimo pezzo originale della nave viene sostituito: la nave di Teseo è la stessa che è salpata in mare la prima volta o è una nave diversa? La risposta può essere argomentata ma in questa sede non lo faremo. Ciò che è indubbio è che la continuità corporea non è un criterio solido.

La seconda scuola è quella della continuità psicologica: similmente alla prima, a garantire la persistenza dell’identità sarebbero memoria e autoconsapevolezza. Anche qui, com’è facile immaginare, le criticità non mancano. Nessuno è in grado di serbare una memoria della propria intera esistenza o di avere autoconsapevolezza nel corso di tutta la propria vita. Non è necessario specificarlo, restiamo noi stessi anche se siamo inconsapevoli di esserlo.

Derek Parfit

La risposta più quotata a cosa ci renda noi stessi nel tempo è la terza scuola di pensiero, quella che difende il concetto di connettibilità. Proposta da Hume, l’idea di connettibilità prevede una somiglianza per gradi a noi stessi. In termini pratici, la vostra somiglianza a voi stessi di due settimane fa è di un grado molto più ampio rispetto a quella con voi il vostro primo giorno di scuola.

Per esemplificare questa idea, Parfit propone il modello dello spettro combinato: immaginiamo di avere due persone sedute agli estremi di un macchinario. Una volta azionata, questa macchina (lo spettro combinato, appunto), trasforma la prima persona nella seconda e viceversa; questa trasformazione, però, è graduale. Il quesito che pone Parfit è: in che momento siamo in gradi di dire che la prima persona è diventata la seconda e la seconda la prima? È una questione scalare, non vi è una risposta certa. Lo stesso principio è applicabile alla connettibilità: non posso essere in grado di indicare con chiarezza quanto simile sono alla mia versione di due anni e quanto alla mia versione di 90 ma so, tuttavia, che qualcosa che ci unisce c’è.

Ciò che non si è

Nel caso di Ash-robot, è la stasi stessa a renderlo uguale a se stesso in ogni momento: in altre parole, un oggetto, non una persona. La copia di Ash costituisce l’esempio perfetto di cosa una persona non sia e il senso di inquietudine, tipico di Black Mirror, è realizzato proprio dalle spoglie dell’androide. Martha prova a sfuggire al lutto ma finisce per vivere con un fantasma, rappresentazione ambulante di ciò che non può più avere accanto a lei: quella persona.

BV


1 Ad esempio, in caso di determinate disabilità queste caratteristiche possono essere assenti ma, ovviamente, lo status di persona resta invariato.