Perché Everybody’s Gone To The Rapture dovrebbe essere il gioco della nostra quarantena
Il momento che stiamo vivendo, nel marzo 2020, è di estrema complessità e serietà. Anche se il dibattito pubblico è – giustamente – concentrato sul duplice e fondamentale aspetto dell’attuale emergenza, quello sanitario ed economico, non è assurdo prevedere che sul lungo termine emerga nella discussione anche un’ulteriore dinamica: quanto l’Arte sarà influenzata da quest’esperienza, che ha deformato l’interazione umana e gli spazi comuni in cui quell’interazione ha sempre avuto luogo.
D’altra parte, ogni creativo è figlio del proprio tempo e della comunità che l’ha educato; perciò, superato lo stallo dell’epidemia, sarà stimolante e costruttivo analizzare quanto la stessa abbia potuto influenzare le opere successive e, soprattutto, quale sarà la lezione appresa dalla società civile in termini non unicamente pratici o legati alle esigenze produttive in senso stretto. Prima di allora e prima di questa risposta, è istintivo invece trovare raccomandazioni, pareri e incentivi da ciò che è stato già realizzato, in ogni possibile e immaginabile campo artistico.

Uno scorcio di Yaughton, 1984.

Le transizioni notte/giorno rappresentano il momento più maestoso del gioco.
In realtà, prima di affrontare il cuore del discorso, c’è da fare una piccola e ultima premessa analitica: l’opera sviluppata da The Chinese Room in partnership con Santa Monica è, appunto, un videogioco.
Si è discusso a lungo sull’appartenenza di titoli come Dear Esther o Journey alla forma d’arte videoludica, coniando addirittura per questa categoria di titoli il termine, al limite del dispregiativo, di “walking simulator“: un’esperienza simulativa di passeggiata, probabilmente molto noiosa e caratterizzata da una scarsa interazione (addirittura nulla, secondo alcuni) e totalmente incentrata sul racconto per immagini e pertanto vicina – se non appartenente – al cinema.
Risulta subito chiaro ai lettori che, se Everybody’s Gone To The Rapture non è un videogioco, allora ogni parola del pezzo risulterà nient’altro che un gigantesco spreco di kilobyte; il punto è che non c’è, e non può esserci dubbio alcuno, che non lo sia. Se è possibile ricondurre ogni performance artistica allo schema del dialogo tra l’Autore – che desidera comunicare qualcosa, non in termini necessariamente dialogici – e il fruitore della performance stessa, è possibile creare dei “tipi” ideali di performance, a seconda del mezzo utilizzato dall’Autore; il mezzo del videogioco è il gameplay, le cui possibilità interattive possono ovviamente variare a seconda del fine che l’Autore si è prefissato. Ciò che importa nell’operazione di integrazione in una forma d’arte non è la “quantità” del mezzo, ma la semplice presenza di quest’ultimo.
Siccome Everybody’s Gone To The Rapture possiede un gameplay, per quanto striminzito e minimalista, è indubitabilmente e indiscutibilmente un videogioco. Un videogioco che, come detto, adotta una forma perfettamente congrua al proprio scopo narrativo, generando quella traslazione della personalità di chi c’è dietro lo schermo al proprio “avatar” in game.

L’Osservatorio.