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Le sitcom e il rassicurante potere della prevedibilità

È un giovedì d’inverno, fuori piove. Rientrate a casa col buio di sera, siete usciti di casa col buio di mattina. Avete trascorso un’interminabile ora su un autobus/una metro/un treno colmo di persone e di ombrelli gocciolanti, il perfetto coronamento a una giornata mediocre (identica a quella precedente e, ci potete scommettere, a quella successiva). Vi cambiate e vi piazzate davanti al frigo, prendete gli avanzi del giorno prima, ora promossi a cena di stasera. Mentre il fornello sibila, siete investiti da un’ondata di tristezza: non vi siete mai sentiti più soli di così. Capite che è il momento di iniziare il settimo rewatch di Friends, The Office, o chi per loro.

In quanto persona che scrive di Cinema e Serie TV con una cadenza regolare e da quasi tre anni (e ne dirige le sezioni da altrettanto tempo N. DLR), è scontato che di film e serie abbia fatto il mio luogo felice. Forse un pochino troppo. Sono tante le volte in cui ho usato prodotti audiovisivi per indirizzare il mio stato emotivo o farlo risuonare. Una persona come me, col guilty pleasure del pianto, sa esattamente cosa guardare quando vuole liquefarsi sul divano o con cosa distrarsi quando i pensieri sfrecciano senza direzione o risoluzione. Per non attentare al vostro benessere sentimentale, cari lettori, oggi è proprio di questa seconda classe di produzioni che parliamo: parliamo di comfort shows.

Se c’è chi inquadra, affronta e risolve questioni grandi e piccine con fredda spavalderia, molti di noi (io sicuramente), messi alle strette dalle faccende terrene, optano per lo stile di risoluzione degno di Linus, con una fedele copertina sempre sottobraccio. Simbolo principe di cosa un oggetto transizionale sia, il rettangolone di stoffa non ha reali proprietà tranquillizzanti (almeno, non di per sé) ma è investito di un valore concreto, del senso di protezione che un bambino dà talmente per scontato da non riuscire neanche a percepire. Non ci girerò ulteriormente intorno e, d’altronde, il titolo l’avete già letto: la copertina di Linus di cui parliamo oggi sono le sitcom.

Linus e la sua copertina.

Il comfort show, infatti, non dev’essere necessariamente un’opera dalla scrittura fenomenale, stupefacente, anzi: parte del suo potere confortante sta proprio nell’essere piacevolmente prevedibile. Proprio per questo, tipicamente, gli show che tendiamo a riguardare nei momenti del bisogno sono proprio le sitcom.

Questa forma di serialità, indiscussa protagonista post-prandiale di ogni ragazzino italiano mai esistito, presenta una serie di caratteristiche ricorrenti e in grado di garantire, quasi come fosse un paradigma dal quale non si può sfuggire, una presa sul pubblico istantaneo. Se nella mente di molti un appartamento dalle pareti viola rievoca automaticamente Friends, c’è un motivo: nelle sitcom, gli scenari che fanno da sfondo alle vicende dei protagonisti sono ricorrenti, iconici, raramente diversificati ed estremamente riconoscibili, quasi fossero il palco di un teatro, immutato e immutabile.

Gli spazi sono importanti quanto la trama e chi la interpreta: gli oggetti presenti in una casa sempre quel tanto che basta vissuta e, tassativamente, mai veramente in disordine, raccontano una storia che non conosciamo ma che possiamo immaginare. Un pub o un caffè, sempre uguali ma mai completamente identici, diventano teatro in cui le vite fuori scena sono raccontate ai conoscenti così come a noi spettatori. La percezione che abbiamo è esattamente quella di sentire i racconti di un amico che ci aggiorna sulla sua giornata.

I protagonisti, a differenza degli amici reali a cui mandate meme nei direct di Instagram, sono però caratterizzati da pochi tratti emblematici. Pur essendo spesso in una fase di transizione della propria esistenza (quante serie su venti-trentenni che provano ad affrontare l’imprevedibilità della loro vita abbiamo visto?), non sembrano andare mai, veramente, da nessuna parte.

Un’immagine di Bojack tratta dalla quinta stagione

Questo concetto è rappresentato perfettamente in uno dei miei poco-comfort show preferiti (e di cui, cari lettori, non ho mai scritto per puro timore reverenziale): Bojack Horseman. Nell’episodio Churro gratis, composto quasi esclusivamente da un lungo monologo, a un certo punto emerge il tema del potere rassicurante della finzione.

Non puoi avere un lieto fine nelle sit-com. Non proprio. Perché, se tutti sono felici, la serie finisce e, come si dice? Lo spettacolo deve andare avanti. C’è sempre un’altra puntata […] non avrai mai il lieto fine perché c’è sempre un’altra puntata. Finché non finisce.

Bojack – Bojack Horeseman (Churro gratis)

I personaggi delle sitcom si muovono, inesorabili e inconsapevoli, sempre sugli stessi binari come figurine di un orologio a cucù. Magari un cambiamento incorre, per tre puntate le cose sembrano diverse, ma tutto finisce. Tutto torna ad essere come all’origine fino al commovente finale, prevedibile sin dalla prima puntata andata in onda sette anni prima. E allora la coppia che era una coppia e poi non era più una coppia torna a essere tale, la famiglia resta unita ma ognuno va per la sua strada (e quella di qualcuno sembra essere un terreno sospettosamente fertile, terreno da spin-off), l’amore della vita, che aspettiamo per otto lunghe stagioni, viene fatto morire malamente per congiungersi con quello che (lo sapevamo tutti) era il vero interesse amoroso del protagonista (l’ho presa sportivamente).

La ricorrenza, la ripetitività, è qualcosa che ci rassicura: in un mondo in cui tutto intorno a noi sembra muoversi senza logica, con assoluta noncuranza del nostro volere o del nostro controllo, il cosmo in tre scenari delle sitcom, dove nessuno litiga (o almeno, senza grosse conseguenze), i rapporti sono semplici e gli obiettivi vengono raggiunti senza troppi sforzi, diviene la fantasia di irraggiungibile serenità.

La prevedibilità, inoltre, è qualcosa che noi stessi, spettatori abitudinari, tendiamo a prolungare, a doppiare. Riguardiamo opere dai percorsi già tracciati fino a conoscere, per filo e per segno, la trama di ogni episodio prodotto, tutte le guest star di turno (penso troppo spesso a Danny DeVito in veste di spogliarellista all’addio al nubilato di Phoebe), le punch-line più memorabili.

Beh, come biasimarmi?

Il mio mondo può sembrare indomabile e un filo troppo cattivo ma, se qualcuno l’ha pensata, scritta e prodotta, una realtà diversa deve essere possibile. Ciò che conta è che tutto vada bene. Almeno per una ventina di minuti.

BV

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