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Gli horror devono fare paura?

È definizione comune parlare degli horror come di quei film che “fanno paura”. È altrettanto comune sentir dire, dopo la visione di una pellicola di questo genere, “ma non mi ha spaventato per niente”. Una frase di questo tipo sottintende che il film dell’orrore in questione sia di bassa qualità poiché, se non mette paura a chiunque ne fruisca, che senso ha vedere un horror?

Il mostro della laguna nera (1954) oggi non fa più paura a nessuno.

Oltre lo spavento

La paura, però, non è uguale per tutti. Ognuno di noi può temere qualcosa più di qualcos’altro, o avere una tolleranza più elevata o più bassa allo spavento. Non si può fare affidamento a questo aspetto né per riconoscere né, tantomeno, per giudicare un horror. Come si spiegherebbe, altrimenti, la bassa opinione del sovra utilizzo del jumpscare, il meccanismo più banale esistente per lo spavento? Strumento trasversale a più generi, è utilizzato in decine di film che non vengono considerati paurosi.

Il film horror è associato alla paura per la sua caratteristica di mettere in scena in modo esplicito l’orrore, cioè ciò che induce generalmente la paura. Questo può essere mostrato in ogni forma e modo possibile, senza filtri, in maniera incisiva e impattante. Non potendo creare a tavolino una paura universale, l’horror punta sul farci sentire addosso le peggiori sensazioni che si possano provare, nel modo più potente possibile.

Scream (1996) nella sua intro ci mostra una situazione raccapricciante come se fosse un quadro.

La differente percezione della paura per ognuno inficia anche sulla possibilità di fruire di questo genere: un film dell’orrore non è una visione per tutti. A seconda della tipologia di orrore trattato, di come viene mostrato e della persona che lo guarda, potrebbe essere soggettivo non tollerarne la visione.

Solitamente, la consapevolezza della finzione di ciò che si sta guardando fa si che l’effetto sia meno impattante; d’altra parte, l’immedesimazione nella pellicola può rendere il tutto più realistico. Questo equilibrio varia da film a film ed è presente in ogni genere, ma negli horror è la linea di confine tra guardabile e inguardabile. È difficile, invece, che qualcuno abbandoni la visione di un film drammatico per troppe lacrime o di una commedia per troppe risate.

Viste queste premesse cosa rende l’horror affascinante? Tecnicamente film come questi dovrebbero essere ripudiati e non desiderati. Cosa, in realtà, successa in passato, quando venivano viste come pellicole di scarso valore, incapaci di essere veramente interessanti (ovviamente il genere non porta con sé la qualità, né in positivo, né in negativo).
Perché, dunque, si vuole guardare un film dell’orrore?

Le Streghe di Salem (2012) ha momenti molto forti che non tutti riuscirebbero a guardare.

Estetica oscena

Perché lo scopo del genere horror è di rendere bello l’orribile, una contraddizione intrinseca a questo genere. In questi film, la visione dell’orrido, del raccapricciante, del disgustoso è qualcosa di intrattenente, che riesce ad affascinare lo spettatore. Come in qualsiasi altro film, il contesto, la funzione narrativa e la messa in scena hanno un valore fondamentale per rendere il film bello da guardare. Potremmo parlare di estetica volutamente oscena.

Per spiegare come mai un’operazione così strana possa riuscire, occorre prima circoscrivere il genere horror. Abbiamo già esplicato come punto fondamentale il mostrare l’orrore e, per farlo, è ovviamente necessario ricorrere alla violenza, la causa prima di ogni nefandezza umana.

Il design di H. R. Giger per Alien (1979) è un enorme esempio della dicotomia tra orrore ed estetica.

È il voyeurismo della violenza, l’idea del proibito, di qualcosa che dal vivo ci farebbe troppo orrore ma che ci provoca una curiosità morbosa. Mostrare le atrocità di un corpo dilaniato, sangue e budella, stuzzica il nostro lato sadico. Giocando con l’equilibrio tra finto e realistico citato poc’anzi, si può modulare un film perché sia bello proprio perché violento.

Nei casi estremi avremo situazioni dove la violenza può essere talmente esagerata da diventare grottesca e/o divertente: il ribaltamento assoluto della carneficina ilare. In questo caso, è la dimensione comica e grottesca a rendere desiderabile il film, nonostante le atrocità presenti.

Ma non c’è solo la violenza fisica. I cosiddetti horror psicologici inquietano e affascinano lo spettatore con la parte più orribile dell’animo umano, un mondo dove le perversioni più ripugnanti prendono vita. L’orrore può trasudare da gesti inumani che vanno a colpire la morale comune, sfociando in sentimenti di schifo e oscenità. Tutto questo è possibile anche senza mostrare una sola goccia di sangue.

Rosemary’s Baby (1968) non mostra praticamente mai il sangue e la violenza fisica si limita a qualche graffio.

Horror o no?

Eppure esistono film non considerati horror che utilizzano sequenza disturbanti, violente e anche disgustose al loro interno. In questo caso, ciò in cui differisce il film horror è la finalità dell’orrore. In generale l’utilizzo di scene terribili passa attraverso l’idea di scioccare chi guarda, per amplificare la situazione già presentata. Lo spettatore subirà un “orrore” improvviso che lascerà il passo a quella che è la vera sensazione voluta: disprezzo, tristezza, pena o altro.

Nel film horror, invece, ogni scena serve a preparare e mostrare l’orrore, che è il fine ultimo della pellicola. E non stiamo parlando di intenzioni dell’autore, ma di costruzione narrativa e scenica. L’orrido è il fulcro, non un momento di passaggio: l’angosciosa sensazione dovuta all’attesa del suo arrivo deve permeare tutto il film.

Arancia Meccanica (1971) contiene sequenze orribili, ma il loro scopo è di raccordo verso il vero messaggio.

Dicendo questo, non si vuole escludere la possibilità che gli horror possano avere un messaggio: ciò che cambia è la sua collocazione. Come detto, lo scopo di questo genere è di rendere affascinante l’orribile. Va da sé, quindi, che l’orrore non sia ciò che ci porta al messaggio ma, bensì, la sua conseguenza ultima, per questo motivo va mostrato appieno, lasciando lo spettatore, appunto, orripilato. Una differenza forse sottile, ma sostanziale.

L’horror è un genere trasversale che riesce a essere anche sottogenere dal drammatico e della commedia, pur estremizzandoli o rendendoli grotteschi ed espliciti. Questo, chiaramente, non obbliga nessun’opera ad essere rigidamente l’una o l’altra cosa. In Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, ogni ripugnante gesto umano che possa venire in mente, fisico o mentale, è presentato con minuzia e come conseguenza del potere, che dopotutto è il messaggio principale dell’opera. Di conseguenza, questo lo farebbe rientrare eccome nei film dell’orrore. Eppure, la pellicola viene generalmente classificata come drammatica per motivi di tematiche o di linguaggio cinematografico utilizzato. Dopotutto, nessuna categorizzazione è esente da casi limite e probabilmente Salò è semplicemente entrambe le cose o nessuna di esse.

Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) contiene ogni possibile orrore si possa causare a un essere umano.

Paura fittizia

Individuati scopo e contenitore, ritorniamo alle domande lasciate in sospeso. L’horror, più che far paura, crea un cortocircuito in cui l’orrore diventa desiderabile, a condizione, però, di provarlo in sicurezza e finzione. Più che far impaurire, il film dell’orrore esorcizza ciò che ci spaventerebbe, creando, di fatto, una sensazione finta, controllata e controllabile all’interno di un ambiente sicuro: l’opposto della vera paura. È diverso dall’allegria che ci dà una pellicola comica o dall’amarezza dopo un film drammatico, che sono emozioni indotte ma reali. Con un film horror, noi non vogliamo avere paura, vogliamo confrontarci con l’idea dell’orrore, senza provare realmente terrore. Un auto-inganno.

The Neon Demon (2016) inizia con una messinscena che riassume il genere horror.

Questa paura scenica ci affascina finché l’orrido non diventa eccessivo. Lì la corda si spezza e la visione ci diventa insostenibile, poiché arriva il vero terrore, il vero disgusto, il vero disagio. L’autore del film sa che lo spettatore ha scelto, consapevole o meno, di voler sentire una versione artefatta dell’orrore. Sfruttando questo patto, viene concepita l’estetica oscena che verrà eventualmente definita bella. Così si crea l’horror.

Se i film dell’orrore facessero realmente paura a tutti, nessuno li guarderebbe. Come fa il Cinema tutto, l’horror mostra e racconta con la finzione, utilizzando a suo vantaggio la classica dicotomia tra bruttezza e bellezza, ma spingendola all’estremo, sfruttando suggestioni che nella realtà nessuno vorrebbe vivere. L’horror è la trasposizione delle emozioni umane più ripudiate ed evitate, in arte. E questo si che a pensarci, mette “paura”.

GT