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Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino

Verso la fine degli anni ‘70, Christiane Vera Felscherinow era dipendente da eroina ma nessuno ancora lo sapeva. La sua era solo una vita, una delle tante purtroppo, imputridita e distrutta dalla droga.

Nel 1978, a seguito di una vicenda giudiziaria che la vide protagonista, due giornalisti del settimanale Stern decisero di intervistarla per raccontare alla Germania del tempo il dramma della tossicodipendenza giovanile: quello che, all’inizio, voleva essere solo una luce su un mondo ancora troppo nell’ombra divenne un vero e proprio faro che trasformò la vita di Christiane in storia. È così che ebbe origine Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino.

Infatti, il clamore destato da quelle interviste fu tale che, nel 1979, furono raccolte in un libro – dapprima pubblicato in Germania e poi tradotto in tutto il mondo – che ben presto diventò un vero e proprio manifesto di quella realtà fatta di degrado e disperazione.

Nel 1981, dietro la regia di Uli Edel, venne prodotto il film ispirato alle vicende di Christiane e dei suoi colleghi bucomani e ogni più sordida sfumatura fu rivelata al mondo occidentale. Le gabbie dello zoo di Berlino erano state spalancate e le povere bestiole che lo popolavano erano sotto i riflettori.

Oggi, a quarant’anni dall’uscita di Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, la vita di Christiane F. è tornata a far parlare di sé, grazie all’uscita della serie omonima distribuita dalla piattaforma streaming Amazon Prime Video.

Troppa carne sul fuoco? Vediamo di fare un po’ di chiarezza allora e di procedere per gradi.

Dal libro al film.

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino-copertina del libro
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino-copertina del libro

Sebbene nella versione italiana, distribuita da Rizzoli e affidata alla traduzione della giornalista Roberta Tatafiore, fossero presenti delle inesattezze circa i luoghi nei quali si svolsero le vicende dei protagonisti, il libro riportava fedelmente i fatti raccontati durante le interviste dalla stessa Christiane rendendolo un diario crudo e crudele di un’esistenza fatta di un buio interiore che, fin troppo spesso, non trovava voce per essere raccontato.

Perché un bucomane, prima di essere veramente disposto a cambiare qualcosa, deve non volerne sapere assolutamente più niente della merda e della porcheria. Allora si uccide, oppure utilizza l’ultimo filo di possibilità per venire fuori dall’ero. Ma allora idee di questo tipo non ce le avevo per niente.

Christiane Vera Felscherinow.

Il film è un esempio di cinema realistico in piena regola. Solo Natja Brunckhorst, che diede il volto alla protagonista, era un’attrice professionista ai suoi esordi; gli altri protagonisti furono presi dalla strada e quella del film rimase la loro unica esperienza.

Alcune delle comparse invece erano veri tossicodipendenti che popolavano la stazione nella quale si svolgevano la maggior parte delle scene all’aperto.

Sono proprio tutti questi elementi, uniti ad una sceneggiatura minimale e precisa, a rendere la pellicola un prodotto che sembra non volersi fermare solo ad immagini documentaristiche, ma che vuole prendere lo spettatore per la collottola e trascinarlo nel mondo raccontato dai fantasmi che lo popolano.

La sapiente miscela di luci, ombre e suoni si fa onomatopea di rumori arcaici come quelli della paura e del dolore fisico provocati dall’astinenza e, dalle note degli strumenti che compongono alcuni brani della colonna sonora, sembra quasi che voglia uscire la puzza di sudore che impregnava le pareti della stanza di Christiane o dei bagni fetidi della stazione.

Dal film alla serie.

La serie, prodotta da Oliver Berben e Sophie Von Uslar, è nata con l’intento di dare una chiave di lettura più glam e moderna alle vicende narrate nel libro; emergono però diverse criticità.

Il tentativo di rimaneggiare il meno possibile la linea narrativa si scontra rovinosamente con la scenografia e ci mostra una Berlino troppo moderna, a tratti quasi psichedelica, che fa dubitare del fatto di trovarsi verso la fine degli anni ’70.

L’intento di continuità voluto dagli autori, però, non regge il peso delle incongruenze stilistiche e quel che rimane è un prodotto che non trova una collocazione all’interno del panorama delle serie. Troppo leggero per essere un drama, troppo romanzato per essere un documentario e troppo spaventoso per essere una comedy.

Il mondo della tossicodipendenza e del disagio che lo caratterizza diventa quasi una variazione sul tema nella vita di un gruppetto di teenager troppo frivoli e superficiali. La drammaticità che ha caratterizzato la storia vera di Christiane e dei suoi amici animali diventa un esercizio di stile mal riuscito all’interno di una narrazione dalle tinte troppo glitterate per essere un omaggio ad una storia che, pur nella sua crudele e terrificante realtà, ha contribuito a smuovere le coscienze di molte persone su un tema controverso e purtroppo ancora attuale.

I protagonisti della serie Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino
I protagonisti della serie Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino

Il balletto tra innovazione e criticità potrebbe durare ancora a lungo ma appartiene solo alla sfera del gusto personale e ogni spettatore è libero di trovare vizi e virtù di questa produzione.

Quello che rimane però, e che forse spaventa di più delle incongruenze narrative, è il rischio che questo esperimento veicoli un messaggio completamente sbagliato, ovvero quello che la tossicodipendenza da eroina, e tutto il circo del terrore che vi ruota attorno, sia una sorta di conditio sine qua non per vivere una vita fuori dagli schemi precostituiti e senza quelle regole di condotta che fanno infuriare gli adolescenti e perdere il sonno ai genitori.

SL