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“È invecchiato male”: Tarkovskij risponde al videogioco

25 novembre 2022

Sicuramente, qualche volta, vi sarà capitato di sentire l’espressione “è invecchiato male”, riferita magari a un titolo del passato riguardo il sistema dei controlli, della grafica o della struttura generale legata alle meccaniche di gioco. Più di una volta, inoltre, avrete discusso magari con altri appassionati di come la tecnologia ricopra un ruolo importante nel medium del videogioco, e ciò è senz’altro vero. L’errore però, a questo punto, potrebbe essere duplice. Un attimo che ci arriviamo, insieme ad Andrej Tarkovskij.

  1. Iniziare a considerare questa questione tecnologica come un carattere fortemente esclusivo del videogioco.
  2. Attribuire a questo aspetto un’importanza eccessiva, che poi si traduce, con tutta probabilità, in un approccio acritico ogniqualvolta si affronti un qualsiasi titolo legato al cosiddetto retrogaming.

Per “approccio acritico” intendiamo qui un inquadramento che, di fatto, riporta tutti i videogiochi esistenti all’istante in cui se ne parla, compiendo quindi un’operazione che fa tabula rasa del contesto socioculturale, tecnologico, videoludico (in termini di aspettative generali) e anche, perché no, di quello politico. Ci torneremo tra poco.

Shin Megami Tensei (Atlus, 1992) non è “invecchiato male”, ma rispecchia perfettamente le aspettative di un dungeon crawler/JRPG su Super Famicom del periodo. Anche se, inutile negarlo, graficamente mostra un po’ il fianco.

È interessante anche notare, sempre riguardo il secondo punto, come lo stesso glossario che si è sviluppato intorno al videogioco pare incoraggiare certe posizioni (il termine retrogaming, per la precisione). Ma si tratta davvero della percezione corretta? O è forse opportuno correggere il tiro? Ma soprattutto… i videogiochi, o qualsiasi opera appartenente a qualsiasi mezzo di espressione, possono davvero invecchiare?

Se il videogioco è davvero arte…

Se il videogioco è arte a tutto tondo, occorrerà senz’altro munirsi di strumenti critici e di un approccio altrettanto critico atto (e adatto) ad affrontarlo. Ma poi, il videogioco è sempre stato arte? Il regista russo Andrej Tarkovskij, nel suo saggio “Scolpire il tempo“, colmo di spunti di riflessione potenti e che tornerà più volte in questo articolo, si pone lo stesso interrogativo riguardo il cinema, a cui ha dedicato tutto se stesso nell’arco della sua vita:

L’avanzata sulla strada della presa di coscienza di se stesso da parte del cinema è stata frenata fin dall’inizio dalla sua posizione ambigua, a mezza strada tra l’arte e l’industria, dal peccato originale della sua nascita come fenomeno da baraccone.

“Scolpire il tempo”, Andrej Tarkovskij, a cura di Vittorio Nadai, 1988, Ubulibri, p. 94

Ci rendiamo conto di come applicare l’espressione “fenomeno da baraccone” alle primissime espressioni del videogioco sia piuttosto forte, ma una volta rimosse le lentine della nostalgia sarebbe ipocrita non vederci un fondo di verità: dopotutto, chi doveva lanciare sul mercato questi prodotti sul mercato non era molto lontano nei toni che impiegava a questo scopo.

È molto difficile anche non proiettare queste considerazioni puntuali e precise sull’ambivalenza del videogioco, tuttora vivida. Per quanto “Scolpire il tempo” parli, a tutti gli effetti, della settima arte, alcune riflessioni in esso contenute possono rivelarsi estremamente affascinanti e utili anche nel mettere a fuoco il videoludo e verranno richiamate puntualmente al momento opportuno.

Visto che lo chiameremo in causa più volte è giusto anche farvi vedere quanto era bello Andrej Tarkovskij, oltre che brillante.

Essendo l’ultimo medium ad aver fatto la sua comparsa, sarebbe un errore estraniarlo da qualsiasi considerazione trans-mediale in virtù semplicemente di ciò che lo contraddistingue dagli altri: l’interattività. E qui parte il nostro primo interrogativo: è stata davvero l’interazione a nobilitare il videogioco fin dagli albori? O è forse stata, almeno in un primo momento, più l’inclusione graduale di certi temi a fargli fare il salto da “balocco interattivo” a mezzo di espressione a tutto tondo?

Naturalmente, con questo non intendiamo che il videogioco sia arte solo quando ha qualcosa di importante da dirci: la disciplina del game design, grazie sia alla tecnologia che a nuove modalità di fruizione, ha saputo esprimersi nel tempo in maniere inedite e, perché no, artistiche nel corso della ancora breve storia del videogioco. Ma una trattazione organica significherebbe allontanarsi troppo dallo scopo del pezzo.

Per quanto “Metal Gear Solid” (Konami, 1998) abbia, di fatto, modelli dei personaggi privi di espressioni facciali, grazie ad animazioni certosine e a un doppiaggio in lingua inglese di qualità il giocatore riesce a completare il quadro durante la fruizione.

Oltre all’interattività, un altro fattore che potrebbe erroneamente spingere il videogioco verso questa alienazione dagli altri mezzi espressivi che lo hanno preceduto è la velocità del progresso tecnologico di cui si è potuto avvalere. Ciò potrebbe suggerire che il legame intrinseco e inscindibile tra il videogioco e la tecnologia sia un fenomeno unico e senza precedenti, giungendo quindi a una conclusione istintiva, inesatta e, forse, quasi “romantica”. I videogiochi sono solo una delle tante realtà che si sono avvalse della rapida crescita della tecnologia degli ultimi decenni.

La tecnologia, infatti, ha sempre contraddistinto e segnato tutte le arti nella Storia. Parliamo, per esempio, della musica

Il temperamento equabile e la pixel art

Non parleremo della musica dei videogiochi e neanche dell’invenzione del microfono, della radio o di figure quali Karlheinz Stockhausen. Troppo semplice, troppo contemporaneo. Per far capire quanto la tecnologia sia tutt’altro di dominio esclusivo del videogioco torniamo indietro invece di diversi secoli, ai tempi di Johann Sebastian Bach e di Domenico Scarlatti. Già allora, infatti, i compositori dovevano tenere conto di alcuni limiti tecnologici e tecnici piuttosto stringenti:

Al tempo delle prime composizioni di Bach (nel 1703 circa) il temperamento equabile (…) non aveva ancora ottenuto un consenso generale. Nel sistema di accordatura allora in uso la musica in genere si limitava a utilizzare le tonalità più semplici, e cioè quelle che avevano al massimo due o tre alterazioni in chiave. Le tonalità e le note cromatiche più distanti sul circolo delle quinte erano troppo stonate per poter essere usate con efficacia. Il temperamento equabile eliminò queste limitazioni, distribuendo equamente sulla scala cromatica i difetti collettivi di intonazione e rendendo ogni intervallo (tranne l’ottava) non intonato per una proporzione costante ma tollerabile. (…) Bach stesso fece molto per rendere popolare il temperamento equabile (…) componendo i due volumi del “Clavicembalo ben temperato” (1722, 1744) (…).

“Armonia”, Mark Devoto, edizione italiana a cura di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay, 1996, p. 445

Tuttavia, il limite non era solo tecnico in quanto legato all’accordatura delle 12 note, ma anche squisitamente tecnologico. Il pianoforte è a tutti gli effetti una conquista che è passata per stadi graduali. Il clavicembalo, suo antenato, ha contraddistinto gran parte della musica barocca. Rispetto al pianoforte tuttavia, oltre a una estensione inferiore, è completamente privo della cosiddetta dinamica: la pressione di un tasto riproduce infatti sempre la nota corrispondente con la stessa sonorità a prescindere dal tocco dell’esecutore. Ciò esclude, di fatto, un fattore divenuto poi fondamentale dell’estesissimo repertorio pianistico, con tanto di annotazione dedicata sulle partiture. Inoltre, anche altri strumenti sono dovuti passare per stadi prima, addirittura, di essere annoverati a pieno titolo nelle composizioni orchestrali o di scala inferiore e sempre per ragioni, appunto, tecnologiche legate alla loro costruzione.

Domenico Scarlatti (1685-1757) è un compositore e clavicembalista napoletano generalmente poco conosciuto, ma le radici della sua influenza sono molto profonde e vanno a toccare altri grandi nomi più che noti tra cui Wolfang Amadeus Mozart e Ludwig Van Beethoven, per arrivare sino ai compositori del periodo romantico. Ciò dimostra un aspetto molto interessante e intrigante: per quanto i limiti siano stringenti, l’ingegno può sempre provvedere a trasformarli in punti di forza e carattere. La musica barocca, infatti, è spesso molto ricca di ornamenti (provare ad ascoltare questo brano, per farvi un’idea), talvolta impossibili da riprodurre su pianoforte oggi fedelmente in quanto coscientemente costruiti e basati su ciò che era un limite tecnologico che contraddistingueva lo strumento di partenza.

Domenico Scarlatti in un ritratto di Domingo Antonio Velasco.

Tornando al discorso del ruolo della tecnologia nel videogioco, è facile e quasi divertente iniziare a tracciare dei paralleli, come tra l’impossibilità di allontanarsi troppo dalla tonalità musicale di partenza e una palette di colori altrettanto limitata per ragioni di spazio che ha contraddistinto moltissime produzioni videoludiche. Il fatto che gli  sviluppatori in passato non potessero andare oltre un certo livello di dettaglio grafico, invece, potrebbe essere accomunato, con un pizzico di fantasia, all’impossibilità del clavicembalo di esprimere dinamiche graduali e diversificate. In ciascuno di questi casi, la tecnologia dettava un limite entro cui muovere il proprio ingegno, la propria vocazione. E tuttavia, ciò non ha impedito a Domenico Scarlatti, per richiamarlo in causa, di inserire nelle sue sonate una gamma sconfinata di sfumature emotive, proprio come per ciascun giocatore è stato possibile definire nella propria mente l’espressione esatta di Solid Snake nell’immagine mostrata in precedenza durante la sua fruizione.

Scarlatti, in particolare, è noto per le sue 555 sonate per clavicembalo a struttura bipartita1. Nonostante i limiti entro cui doveva sottostare il nostro Mimmo (così chiamato dalla famiglia), queste composizioni dalle mille sfumature sono tutt’oggi studiate (incluso da chi scrive), suonate ai concerti sia su clavicembalo che pianoforte e, come già detto, fonte di ispirazione per compositori importantissimi nella storia della musica apparsi sulla scena anche secoli dopo. La sonata K6 di Scarlatti è stata persino ripresa dal francese Igorrr per il suo brano “blastone”, con cui spaventare i vostri vicini: “Damaged Wig”.

È il momento di concludere questo capitolo con una delle domande provocatorie che ci piacciono tanto: è forse giusto dire che le sonate di Scarlatti, così come la musica classica e i primi film realizzati agli albori del cinema, sono “invecchiate”? Certo che no! Le opere non invecchiano e non potranno mai farlo. Il concetto di “invecchiare male”, quindi, risulta fallace fin dal principio: se il processo in sé non può verificarsi, tanto meno potrà farlo una sua ipotetica variante qualitativa.

Vecchi si nasce, non si diventa

Invecchiano le intenzioni di essere espressivi, moderni. Non si può diventar tali, se tali non si è già.

“Scolpire il tempo”, p. 94

Queste parole vanno un attimo interpretate alla luce di come Andrej Tarkovskij intendeva l’arte cinematografica: il suo obiettivo principe era quello di mostrare la verità. Con il termine “verità”, Tarkovskij intende il fatto di riuscire a imprimere sulla pellicola qualcosa di autentico, assolutamente non artificioso e quanto più genuino, impregnato di tutte quelle cose semplici che rendono però ogni istante della vita un attimo irripetibile, scandito e governato dal tempo. Quando parla di “intenzioni di essere espressivi, moderni” in senso negativo, quindi, probabilmente intende l’inclusione di forzature e di artificiosità nel proprio lavoro che remano contro questo obiettivo volto alla genuinità da imprimere sulla celluloide.

“Shadow Man” (Acclaim Studios Teesside, 1999) non è “invecchiato male”, è sempre stato un gioco mediocre. Ciò non lede il fatto che ne possiate avere un ricordo intimo e appassionato, ma, anzi, lo nobilita in quanto vostro e particolare.

Volendo cercare un parallelo nel videogioco, potremmo probabilmente trovarlo in tutti quei titoli che nella loro ricerca, appunto, del “moderno” a tutti i costi hanno superato quella linea che demarca il confine tra un buon risultato e qualcosa che, fin dalla sua pubblicazione, poteva risultare grottesco e controproducente all’utenza. La parte che ci interessa di più, tuttavia, è il fatto dell’impossibilità che le opere invecchino nel tempo quale processo naturale.

Naturalmente, gli estremi sono sempre cattivi consiglieri: proprio come è dannoso e acritico affrontare qualsiasi videogioco (o opera in generale) a prescindere dal suo contesto (o “contesti”, come abbiamo anticipato in apertura), lo è anche sfruttare questo aspetto come una scusa per un approccio garantista e votato a una rivalutazione priva di fondamento. I videogiochi, quando vengono pubblicati, possono essere giudicati come più o meno validi secondo i criteri che fanno parte proprio del contesto da tenere in considerazione.

La sfida di un approccio critico alla questione è, infatti, quello di capire quali fossero le aspettative, per esempio, legate a un certo genere o banalmente riguardo anche il punto di vista grafico o della giocabilità nel senso più ampio. Si tratta, insomma, di un’operazione che permette di acquisire una prima chiave di lettura, di collocare un’opera videoludica nel posto che gli spetta prima di dissertarne. Nulla di nuovo sotto il sole, avete ragione. Eppure, per quanto ovvio, pare non sia così difficile scordarsi di questi criteri.

Andrej Tarkovskij conosce molto bene i rischi di un approccio superficiale e votato esclusivamente all’osservazione del presente, e ce lo dimostra in questo passaggio:

Sovente scambiamo il nocciolo del problema con il complesso dei procedimenti formali oggi di moda, per di più spesso presi a prestito dalle arti affini. A questo punto istantaneamente cadiamo sotto il dominio dei pregiudizi del momento, temporanei e casuali. Allora diventa possibile affermare oggi, ad esempio, che “il flash back è il non plus ultra della novità”, e domani dichiarare con altrettanta sicumera che ogni scarto temporale è sinonimo di arretratezza e rappresenta il passato (…).

Ibidem

“Mizzurna Falls” (Human Entertainment, 1998) meriterebbe un articolo a parte: una ragazza sparisce nel nulla e noi abbiamo 7 giorni di indagini da affrontare, in cui ogni personaggio segue la propria routine diversa giorno per giorno, con tanto di sorprese non da poco. Un gioco d’avanguardia, seppur grezzo.

Il processo che prova a collocare un’opera al contesto che gli appartiene, in un certo senso, si può ricollegare anche all’approccio standard che un fruitore appassionato e rispettoso compie quasi istintivamente quando affronta qualsiasi opera in generale. È facile e si è tentati di pensare come la responsabilità stia tutta nei suoi fautori mentre, di contro, chi le esperisce non ne abbia alcuna. È evidente, al tempo stesso, come questa concezione faccia comodo solo a chi non vede l’ora di scaricare tutta la responsabilità su quei soggetti completamente inermi e incapaci di difendersi, del tutto in balia dei nostri, ammettiamolo, capricci: i videogiochi stessi (nonché le opere in generale).

Se si vuole che il videogioco venga considerato un’espressione artistica a tutto tondo, tra le prime cose da fare, oltre al suo inquadramento contestuale, vi è anche sicuramente una presa di responsabilità da parte dei fruitori quando decidono di decodificare, di interpretare qualcosa (cioè, “volgarmente”, giocare). Ma, a questo punto, c’è un altro fattore che entra prepotentemente in campo.

Il katamari emotivo innato

Quando fruiamo di un’opera qualsiasi, essa entra in contatto con le nostre corde, diverse proprio in virtù di ciò per ciascuno di noi. Esse sono dettate da una galassia di fattori personali più o meno del momento, più o meno temporanei o ormai fissati nel nostro carattere e sensibilità ma, tuttavia, ciascuno è egualmente importante nel suo ruolo ogniqualvolta questa galassia, o anche, perché no, katamari2 (塊魂), viene chiamata in causa quando iniziamo a decodificare quello che è in fin dei conti la galassia di un’altra persona (o un insieme organico di galassie3, nelle migliori delle ipotesi, nel caso dei videogiochi).

(…) il valore di questa o quell’opera d’arte è in notevole misura relativo in rapporto a colui che la percepisce.

Si è soliti pensare che l’importanza dell’opera d’arte si manifesta nel suo rapporto con gli uomini, nella realizzazione di un contatto con la società. In senso generale ciò è vero, ma il paradosso consiste nel fatto che in questo contesto l’opera d’arte si ritrova in una dipendenza totale da coloro che la percepiscono: che sono in grado, o non sono in grado, di stendere i fili che collegano quella data opera (…) col mondo in generale (…), che a sua volta si trova in determinati, specifici, rapporti con la realtà.

Ibidem, p. 43-44, sottolineature di chi scrive

Abbiamo già anticipato l’importanza della responsabilità dei fruitori quando decidono di decodificare un’opera, riportata anche in questo estratto del regista russo. Puntiamo ora quindi la nostra attenzione sull’apporto personale con cui ciascuno di noi interviene durante la fruizione. Si tratta di un carico innegabile e di una certa entità, in cui possiamo ricondurre elementi quali:

  • Stato d’animo del momento o del periodo;
  • Livello delle aspettative personali squisitamente arbitrario, con conseguente creazione del modello su cui andremo a fare un paragone durante la fruizione stessa;
  • Dimestichezza, grado di affezione e propensione verso il genere videoludico di appartenenza;
  • Grado di sensibilità riguardo eventuali tematiche o scelte estetiche operate nell’opera;
  • Altri titoli affrontati di recente o in passato ancora vividi;
  • Livello del desiderio della fruizione e di quanto impegno si è disposti a investire, in termini di tempo e attenzione, nel corso della stessa;

Vedete quella sfera sullo sfondo piena di cose? Ecco, quello è il vostro katamari
(immagine di copertina di Katamari Damacy).

Ora immaginate tutto questo katamari emotivo che si schianta sul gioco che avete appena avviato, un’operazione che si verifica puntualmente a prescindere che ne siate consapevoli o meno. E, proprio come in Katamari Damacy di Keita Takahashi (Namco, 2004), è possibile per noi assorbire l’opera o sentirsi respinti (in parte o del tutto) a fronte dei fattori personali elencati poco fa. Forse, con la propria sensibilità, è anche possibile rendere questo scontro il più morbido possibile per evitare giudizi affrettati, ma non divaghiamo. Non è un caso, forse, che in “Scolpire il tempo” troviamo anche questo passaggio:

Per una percezione pura dell’opera d’arte è necessaria una non dozzinale capacità di giudizio originale, indipendente e ‘innocente’. Solitamente, invece, l’uomo cerca una conferma della propria opinione in un contesto di fenomeni e di esempi a lui noti, e l’opera d’arte viene valutata in rapporto e per analogia con l’intento soggettivo o con le facoltà personali.

Ibidem, p. 44-45

Questo concetto di una percezione “innocente” è molto affascinante, in quanto stabilisce potenzialmente un approccio privo di pregiudizi e aspettative particolari potenzialmente controproducenti, così come la presa di coscienza riguardo le proprie insicurezze e della ricerca conseguente di una conferma del nostro pensiero piuttosto che di un dibattito che potrebbe metterci in discussione. Andrej Tarkovskij, inoltre, anticipa senza saperlo, probabilmente parlando dei critici influenti, la figura degli influencer di spicco presi, purtroppo, talvolta come riferimento dagli utenti:

Una relativamente obiettiva specie di possibilità di valutazione emerge soltanto dalla varietà delle interpretazioni. E il valore gerarchico di questa o quella opera d’arte agli occhi delle masse, agli occhi della maggioranza, sovente viene determinato da circostanze abbastanza casuali, ad esempio, da quanto sia stata fortunata quella data opera d’arte nel trovare i propri esegeti. Oppure ancora: la cerchia delle predilezioni estetiche di questa o quella persona talora può caratterizzare per gli altri non tanto tali opere in sé, quanto l’individualità del soggetto che le percepisce.

Ibidem, p. 44, sottolineatura di chi scrive

Se il proprio apporto personale durante la fruizione è veramente così importante, allora viene quasi naturale iniziare a pensare a un’altra questione, ovvero quella legata alle recensioni pubblicate intorno al lancio sul mercato di qualsivoglia titolo. Affrontiamo la questione brevemente prima di concludere, e sempre con una bella domanda provocatoria.

Le recensioni sono critica?

A fronte delle considerazioni riguardo l’apporto personale del paragrafo precedente, pensandoci bene, le recensioni dei videogiochi potrebbero essere più un modo per indagare sui gusti e la sensibilità di chi le ha scritte piuttosto che un mezzo utile a comprendere se un dato titolo sia più o meno valido anche per noi. Questo fattore è legato, come è facile immaginare, sempre al katamari emotivo di ciascuno che, inevitabilmente, andrà a colpire anche la fruizione di chi ha affrontato un gioco per redarne una valutazione in via ufficiale, senza possibilità di scampo (ma le cose talvolta possono complicarsi ulteriormente).

Se escludiamo i livelli finali un po’ raffazzonati, e anche un po’ frustranti, Castlevania 64 (Konami, 1999) è tutt’altro che un brutto gioco. In particolare, sorprende una gestione certosina della telecamera e l’infallibilità con cui il nostro avatar si aggrappa alle superfici.

Questo comporta probabilmente un ridimensionamento drastico ma inevitabile del ruolo stesso delle recensioni. Per tradurlo in termini un po’ bruschi, le recensioni videoludiche non possono probabilmente ambire a essere critica, in quanto, per definizione, sono destinate a essere redatte  e poi “consumate” dagli utenti in previsione della pubblicazione di un dato titolo. Si trovano, forse, a metà tra l’essere esigenze commerciali (per far parlare di un gioco da un lato, per sfruttare l’attenzione dell’utenza con tempismo dall’altro) e cartine tornasole per l’utenza più bisognosa dei riscontri altrui prima di proseguire o meno con un acquisto, forse per sopperire a una mancanza di sicurezza o di una coscienza critica propria matura.

E anche qui, Andrej Tarkovskij fa spavento agli orologi svizzeri per quanto è puntuale:

Per la personalità sviluppata in senso estetico e spirituale non esistono valutazioni stereotipate, sedicentemente obiettive. Chi sono questi giudici che, in nome di un giudizio e di una valutazione obiettivi, pretendono di elevarsi aldisopra dell’opinione generale? In compenso la situazione delle relazioni tra l’artista e lo spettatore obiettivamente esistente testimonia del fatto che soggettivamente sono interessate all’arte categorie numerosissime di persone.

Ibidem, p. 82

In questo senso, sempre a proposito delle recensioni e per concludere il discorso, non può esistere una “scelta giusta” di un redattore da assegnare a un dato videogioco in sede di recensione, in quanto ciascuna scelta non potrà che essere profondamente e irrimediabilmente in difetto rispetto alla miriade di lettori con cui andrà a interfacciarsi una volta pubblicata. Se lo scopo delle recensioni videoludiche è ancora esclusivamente quello di far capire se un dato gioco piacerà o meno agli altri, allora condividono tutte lo stesso destino: il fallimento.

Il patto tacito

La comunicazione richiede sempre degli sforzi. Senza sforzo, senza un appassionato desiderio, la comprensione di un uomo da parte di un altro uomo è semplicemente impossibile.

Ibidem, p. 96

È difficile immaginare una sintesi più adatta all’impegno che ci prendiamo ogniqualvolta decidiamo di guardare un film, di giocare a un videogioco, di leggere un libro o un fumetto o ascoltare della musica. L’atto di decodifica e interpretazione che mettiamo puntualmente in atto è, appunto, non solo uno sforzo di comprensione dell’opera in questione a tutto tondo, ma anche il rispetto di un patto non scritto che prevede il non stravolgimento delle mire dell’opera originarie, uno “stare al gioco”.

Illbleed (Crazy Games, 2001) ricevette recensioni poco entusiaste. Eppure, per quel che aveva da offrire il survival horror di quegli anni, l’idea di rendere l’ambientazione stessa un nemico insidioso e pieno di risorse grazie alle trappole da scovare tramite i sensi (e all’”Horror Monitor”) è ancora molto intrigante.

Come già discusso, la fruizione è un processo fondamentale che ci carica di una responsabilità spesso sottovalutata ma tuttavia innegabile: tutte le opere, in fondo, sono “vive” e scatenano le energie investite in esse da chi le ha rese possibili proprio in quegli istanti. Quando ne discutiamo in seguito, probabilmente stiamo impiegando i ricordi della nostra fruizione filtrata attraverso la nostra sensibilità, e non l’opera in sé. Al tempo stesso, siamo investiti puntualmente dal nostro carico emotivo che andrà a influenzare la nostra percezione, creando una combinazione unica volta per volta, negli scontri tra i nostri katamari e quelli di chi ha reso ogni opera dell’ingegno possibile.

E in tutto ciò, è bene ribadire come sia importante la capacità di contestualizzare, di collocare un’opera nel posto che gli spetta in modo da “sintonizzare” la nostra fruizione evitando pregiudizi controproducenti e sterili, cercando di farci una nostra idea ma con un minimo di approccio critico. Tutto ciò, naturalmente e come già detto, nel caso si sia interessati ad affrontare e a rendere il videogioco qualcosa di serio, potente, dignitoso e con una storia ancora molto giovane. Insomma, un’arte a tutti gli effetti.

LR


NOTE:

1 Si tratta di un tipo di sonata composta da due parti ben distinte nella struttura generale della composizione, definibili come A e B. Quando eseguita, si prevede spesso uno schema di ripetizioni di tipo AABB.

2 La sfera che in Katamari Damacy diventa sempre più grande man mano che accorpa oggetti (ma non solo) sempre più grandi. Il tutto è da intendersi assolutamente in chiave comica più che spaventosa, ma il punto tuttavia è avere chiaro che per katamari emotivo qui si intende un insieme eterogeneo di fattori squisitamente soggettivi di varia natura che ciascuno possiede e scatena al momento della fruizione di qualsiasi opera.

3 In questo articolo ci sono già abbastanza citazioni. Perdonerete quindi un piccolo riassunto indiretto del concetto di “organico” usato da Tarkovskij, qui da intendere come un’opera in cui i confini delle personalità che hanno offerto il loro ingegno e lavoro alla creazione di essa (un film nel suo caso, un videogioco nel nostro) scompaiono, in quanto hanno operato in perfetta simbiosi e intesa e verso un obiettivo comune.


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