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Squid Game: uomini e società

Squid Game non ha bisogno di presentazioni, ai fenomeni non servono mai.

Logo della serie

Per spiegare l’impatto che la serie coreana ha avuto sui suoi spettatori, basti pensare che, oltre ad essersi aggiudicata un primato non da poco (è la più vista su Netflix in oltre novanta paesi), ha rilanciato le vendite di un singolo modello di Vans, ispirato trend sui social, e, con ogni probabilità, sarà il motivo per il quale le mura di Lucca si tingeranno di rosso e verde nei giorni del Comics.

Insomma, Squid Game è inaspettatamente esplosa. Dopo il clamore generato da Parasite (Bong Joon-ho) che ha egregiamente dipinto l’ambivalenza della società, questa è la prova che le produzioni sud-coreane abbiano tutte le carte in regola per affermarsi anche nel mercato mainstream occidentale.

Ma…

Di che parla Squid Game?

Siamo a Seoul. Seguiamo le vicende di Gi-hun (Lee Jung-jae), un uomo buono ma col vizio del gioco e che, per di più, ha inanellato una serie di eventi avversi nel giro di pochi anni col risultato di indebitarsi. Indebitarsi molto.

Nel primo episodio, infatti, scopriamo che Gi-hun deve dei soldi ad un criminale locale da diverso tempo. Il debito è alto, la sua capacità di ripagarlo molto bassa. A Gi-hun viene fatta firmare (non con troppa diplomazia) una dichiarazione per cui, se da lì ad un mese non avesse sanato il suo debito, avrebbe ceduto i diritti sul suo corpo così da permettere al suo strozzino di disporne a proprio piacimento.

Gi-hun è un uomo disoccupato, a carico della madre e con una figlia che vede molto di rado a causa del divorzio con la moglie. La vita non gli sorride.

Ma qualcosa sta per cambiare.

Persa la corsa della metropolitana che l’avrebbe ricondotto a casa dopo aver passato la serata con sua figlia, Gi-hun viene approcciato da un uomo elegante, quello che ha tutto l’aspetto di essere un colletto bianco qualsiasi. L’uomo, però, gli fa un’offerta strana: giocare con lui a ddakji 1. Le regole sono semplici: chi vince il round guadagna 100 000 won (circa 72 euro) o il privilegio di schiaffeggiare l’avversario.

Il reclutatore (Gong Yoo)

I due si sfidano a lungo. Gi-hun prende un sacco di schiaffi ma, all’ennesimo giro, finalmente vince. Oltre al premio agognato, però, il suo avversario gli allunga anche un biglietto da visita.

Tornato a casa, schiacciato dalla consapevolezza che la vita non potrebbe andare peggio di così, l’uomo decide di comporre il numero sul biglietto. Una voce gli risponde, gli chiede se voglia partecipare al gioco e gli dà appuntamento in un luogo da raggiungere quella notte stessa.

Caricato in macchina e risvegliatosi da un lungo sonno narcotizzato, Gi-hun si trova in un dormitorio gremito di persone. Sono tutti indebitati, reietti della società e confusi su cosa stia accadendo.

È così che Gi-hun si ritroverà a giocare con altre 455 persone a giochi da bambini per vincere dei soldi. La posta in gioco, però, è molto alta. Tutto ciò che queste persone hanno è la propria vita: è tutto ciò che possono permettersi di giocarsi.

[DISCLAIMER: da qui in avanti sono presenti spoiler sulla prima stagione di Squid Game.]

Squid Game: natura umana e società

Come già accennato, i concorrenti ai giochi sono dei poveri disperati che, per condotta personale o per ingiustizie subite in società, hanno contratto debiti insanabili.

I personaggi sono ben tratteggiati – sebbene qualcuno non si distacchi poi molto da tropi stereotipati come, ad esempio, il cattivone-di-turno . La cosa che rende interessante questa visione è proprio il loro sviluppo.

Andando avanti nei giochi, infatti, i concorrenti si ritroveranno a partecipare prima a sfide tutto sommato individualistiche, dove la vittoria o la sconfitta degli altri giocatori non tange poi molto il proprio percorso (un, due, tre stella o il gioco dei dalgona, i dolcetti sud-coreani), a giochi in cui l’obiettivo è sconfiggere chi si ha di fronte (il tiro alla fune e la sfida delle biglie, l’episodio dal quale non ci riprenderemo mai più) fino, ovviamente, a culminare nello Squid Game.

Questa costruzione dei giochi spingerà i concorrenti a tirare fuori la loro vera natura che non mostrerebbero mai in società. C’è chi si rivelerà un freddo calcolatore, chi resterà fedele ai propri principi morali.

La seconda sfida, quella dei Dalgona

È come se, seppur in un ambiente controllato, prendesse forma lo Stato di Natura.

Torniamo un attimo alle lezioni di filosofia delle superiori: Hobbes e Rousseau sono stati due dei più influenti filosofi del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Entrambi hanno trattato il tema della natura umana ma in maniera diametralmente opposta.

Per Hobbes, l’Uomo è naturalmente una merda competitivo e violento; un essere individualista, egocentrico e interessato solamente alla propria auto-conservazione. Questo, a lungo andare, sarebbe motivo di conflitti e guerre.

Per Rousseau, invece, l’Uomo è una creatura per sua natura in armonia con il mondo e con gli altri: buono. Sarebbe poi la società a corrompere il cuore delle persone fino a renderle delle merde calcolatrici ed egoiste.

Dunque, in fin dei conti, in entrambe le visioni, gli esseri umani finiscono per tenere lo stesso comportamento, il risultato è invariato. La questione però è: sono gli uomini ad essere intrinsecamente cattivi o è la società a renderli tali?

Quattro secoli dopo possiamo affermare che entrambe queste visioni risentono di determinismo sociale. È interessante, però, vedere come, all’interno della serie, i comportamenti dei partecipanti subiscano variazioni (o non ne subiscano affatto) una volta collocati in un contesto di estrema competitività.

L’esempio più eclatante è sicuramente quello costituito dall’arco narrativo di Sang-woo. Amico d’infanzia di Gi-hun, Sang-woo si rivela essere un prodigio della matematica tanto da riuscire a studiare economia all’università e diventare un pezzo grosso della finanza. Abbagliato dalla sua parabola ascendente, l’uomo ha fatto grossi investimenti poco leciti e ancor meno fortunati fino ad indebitare se stesso e i suoi clienti per enormi quantità di denaro.

Inizialmente, Sang-woo è un uomo genuinamente altruista. Ben presto, però, il suo lato calcolatore emergerà con sempre più decisione fino a spingerlo a tradire e uccidere senza farsi troppi scrupoli, cosa che non avrebbe mai fatto in società. La sua redenzione finale è anche la prova del fatto che le azioni più spregevoli di Sang-woo non derivino da un desiderio di sopraffazione ma da un mero calcolo dei rischi e dei benefici. Una volta capito che Gi-hun avrebbe interrotto il gioco finale – lo Squid Game, appunto – per salvare la vita a entrambi ma sacrificando tutti i soldi accumulati fino a quel momento, l’uomo decide di levarsi la vita e lasciare i soldi all’amico d’infanzia divenuto, adesso, suo avversario.

Sang-woo, numero 218 (Park Hae-soo) e Gi-hun, numero 456 (Lee Jung-jae)

Diversissimo è lo sviluppo di Ali, un concorrente di origini pakistane ritrovatosi a partecipare ai Giochi per poter tornare in terra natia con la moglie e il figlio. Ali è buono fino al midollo: salva Gi-hun nel primo round e crea delle alleanze col desiderio di salvare altre vite, non con l’intento di aumentare le sue possibilità di auto-preservarsi. Purtroppo, come vedremo, la buona fede non lo ripagherà.

Interessante è, poi, lo sviluppo di un terzo personaggio, Mi-nyeo. Mi-nyeo è una donna subdola e manipolativa, pronta a tradire i suoi alleati per restare a galla. Insomma, una donna fedele solo a se stessa. Nel corso della serie fonda un’alleanza con Deok-su, un gangster caduto in disgrazia, suggellata da una breve relazione sessuale. Ben presto, però, Deok-su volta le spalle a Mi-nyeo e lei gli giura vendetta. Guidata dai suoi – discutibili – principi morali, andrà incontro alla morte con il solo intento di portare Deok-su con lei, reo di averla abbandonata.

Squid Game e l’Effetto Lucifero

Con il successo della serie sono anche iniziate a circolare, come spesso accade, varie teorie dei fan. Una delle più diffuse risponderebbe al come vengano selezionate le guardie mascherate e vestite di rosso che vediamo per tutto il corso della serie.

Abbiamo già parlato del colletto bianco che sfida Gi-hun a ddakji. Bene, al momento della scelta del colore col quale giocare, Gi-hun sceglie il quadrato azzurro. Si ritroverà poi ad essere contattato per partecipare come concorrente (vestiti, appunto di un verde-azzurro). Ma cosa sarebbe successo se Gi-hun avesse scelto il rosso?

Le guardie sono un elemento ricorrente nella serie

Possiamo vedere che anche fra le guardie vigono delle rigide regole da seguire e che anche fra di loro ci sono problemi di soldi (pensiamo al gruppo di guardie che asporta organi ai concorrenti morti per rivenderli al mercato nero). Sarebbe dunque plausibile credere che la scelta del colore con cui giocare durante la prova zero, il ddakji, possa riflettersi sul ruolo assunto durante i Giochi.

È però ben diverso partecipare a un gioco per vincere del denaro, senza, potenzialmente, dover uccidere nessuno e l’inscenare il ruolo di vere e proprie guardie carcerarie incaricate di sparare a sangue freddo a dei poveri disgraziati.

L’Effetto Lucifero potrebbe spiegare questa dinamica.

Coniato da Philip Zimbardo a seguito del suo celebre esperimento del carcere di Stanford, l’Effetto Lucifero è ciò che spinge gli individui a diventare violenti se posti in un contesto che glielo permette, fuori dalla società civile.

L’esperimento si articolò come di seguito: selezionati 24 partecipanti, tutti studenti, questi vennero divisi casualmente in due gruppi uguali di 12 persone. Uno era il gruppo dei carcerati e l’altro quello delle guardie. Entrambi i gruppi vennero dotati di divise e, a quello delle guardie, vennero anche dati dei manganelli che erano liberi di usare sui componenti dell’altro gruppo.

Solo dopo due giorni la situazione prese una piega drammatica. Le guardie iniziarono ad esercitare il loro potere sui prigionieri e la violenza perpetuata fu niente rispetto all’umiliazione alla quale i “detenuti” erano costretti.

Dopo cinque giorni, Zimbardo e colleghi decisero di mettere fine all’esperimento.

Ciò che lo psicologo voleva dimostrare è che la de-individuazione è in grado di attenuare il senso di responsabilità delle persone fino a renderle in grado di compiere atti che, in un contesto non istituzionale, non avrebbero mai commesso,

I punti in comune con Squid Game non sono pochi.

Una seconda stagione non è ancora stata annunciata ma i misteri lasciati irrisolti sono molti e la figura delle guardie è sicuramente uno di quelli.

In attesa di sapere cosa sarà di questo originale Netflix, se ancora, inspiegabilmente, non l’avete fatto, vi consigliamo di guardare Squid Game. Non resterete delusi.

BV

Note:

1: Il ddakji è un gioco diffuso in alcuni paesi asiatici (e non solo). Qui invece una prova empirica che un sottofondo abbastanza epico possa far sembrare figa qualsiasi cosa.