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Dio della guerra, padre dell’anno

Dopo il 2018, navigando sulla rete, diventa difficile non imbattersi in meme e caricature sul rapporto padre-figlio descritto a forza di grugniti e piagnucolii nell’ultimo, sontuoso, capitolo di God of War. Le ragioni sono facili da spiegare: because internet è la prima, mentre la seconda è che si tratta di uno dei rapporti fondamentali della vita di ognuno, il rapporto con il padre per l’appunto, almeno per chi ancora non è abbastanza grande da sentirsi vecchio, e quindi del primo modello di vita, della prima ispirazione. E per quelli che invece hanno percepito uno strano senso di protezione nei confronti del lamentoso Atreus, la prospettiva diventa evidentemente inversa. 

un ritratto di famiglia

Non è mai altrettanto facile però cercare di raccontare la costruzione di un rapporto così complesso, come può esserlo quello tra padre e figlio, nel contesto di un luogo virtuale quale il videogioco. Ed è proprio l’instaurarsi di questo rapporto che ha permesso di entrare in profondità in aspetti abbastanza trascurati in passato dall’esclusiva PlayStation

Era il glorioso 2005 quando per la prima volta Kratos, un guerriero greco con una bassa propensione alla diplomazia e al compromesso, debuttava sui sistemi Playstation2 di tutto il mondo, rubando al contempo la scena a quasi tutti i colleghi. God of War era un sapiente miscuglio di action alla giapponese ma quasi completamente depurato dalla componente più tecnica, che invece era la firma col sangue di titoli come Devil May Cry e compagni. Attacchi ad area, perlopiù imprecisi e devastanti. Quick time event, spettacolari e funzionali al gameplay. Finish, arrabbiate e ultraviolente come solo dei veri nerd vissuti negli anni novanta potevano immaginare. Questa, anche se riferita ovviamente al gameplay era la più precisa descrizione della personalità di Kratos che si potesse scrivere. Perché, effettivamente, non c’era altro.

Videogiocare God of War (2018) ha reso chiaro a tutti che fino ad allora Kratos non era stato altro che un manichino imbottito di rabbia con l’unico obiettivo della cieca vendetta, nonostante anche nelle precedenti iterazioni avesse una regolare famiglia con prole – che non fu abbastanza per renderlo “umano”. Intendiamoci, fino al 2018 la formula aveva funzionato in maniera impeccabile, ma probabilmente ci si è posti, almeno ad un certo punto, il problema di creare qualcos’altro che potesse andare oltre il mero squartamento di nemici, passando da un enigma ambientale ad un power-up, in un mondo modellato sulla mitologia greca che non lasciava spazio ad alcuna possibile sfumatura, scolpito nella roccia ed ormai letteralmente saccheggiato di ogni possibile racconto ulteriore. 

Dunque con la ripartenza della serie e il suo ultimo capitolo – che nella realtà dei fatti è in perfetta coerenza con il resto dei precedenti – si potrebbe falsamente credere che il reboot riguardi solo le meccaniche, l’ambientazione e poco altro, mentre ha regalato a Kratos anche una personalità. Se volessimo fare un parallelo letterario, Kratos è paragonabile ad un videoludico Pinocchio nel momento in cui trasmigra la sua essenza dal legno alla carne, ottenendo al contempo una personalità e nel caso del dio greco anche un figlio. Buona parte di questa personalità, e del carisma che ne deriva, è imputabile proprio all’essere diventato padre. È quindi attraverso il rapporto tra padre e figlio – minimo a dire il vero, almeno nella sfera pertinente al dialogo, ma quasi eccessivo e strabordante invece nel linguaggio del corpo – e nel contesto del viaggio consacrato all’amore di entrambi per la donna che li tiene uniti, che conosciamo davvero per la prima volta il dio della Guerra che sconvolse e svuotò l’Olimpo dei suoi divini abitanti. 

Tale avvicinamento al personaggio è simbolicamente sottolineato anche dallo stravolgimento della telecamera che, in questa ultima iterazione, si colloca proprio appena dietro le spalle del guerriero spartano, rendendo il videogiocatore in un certo modo anche più vicino al personaggio stesso. La stessa vicinanza si percepisce e si fa timore nel momento in cui si hanno dei nemici alle spalle: questa volta sono invisibili sia a Kratos che al videogiocatore – al contrario dei capitoli precedenti dove la telecamera dall’alto dava una sensazione di controllo molto maggiore, giungendo a percepire l’onnipotenza vera e propria del dominio assoluto del campo di battaglia – pur rimanendo presente un segnale di avvertimento in caso di pericolo. 

Dunque conosciamo Kratos finalmente, un padre che cerca di essere sempre fermo negli atteggiamenti e rigido nelle posizioni. Un padre spigoloso per un figlio che praticamente non lo ha conosciuto se non attraverso la mediazione materna. Un padre che impara ad essere tale, come Atreus impara ad essere figlio, nel mezzo di un metaforico viaggio di iniziazione che vale per entrambe le figure. Entrambi alla ripartenza ed entrambi con la necessità di imparare a vivere in un nuovo contesto.

la gran parte della comunicazione tra padre e figlio è di tipo non-verbale

Entrambi i personaggi sembrano uscire lentamente dalle sabbie mobili dell’incomunicabilità accentuata da una sorta di competizione capace di stabilire chi dei due avesse più diritti nei confronti della donna che entrambi amavano e dunque del suo stesso ricordo. Questa lenta uscita dalle sabbie mobili, dall’incomunicabilità, rappresenta il rapporto stesso durante lo svolgersi dell’intera narrazione. È interessante notare come, quasi da subito nell’economia di gioco, i due personaggi si incastrino in modelli speculari l’uno all’altro. Il padre è sempre pragmatico negli atteggiamenti e nelle scelte durante la narrazione, badando quindi solo all’aspetto materiale e al risultato da conseguire; il figlio dimostra quasi una sorta di spontanea saggezza nel non accontentarsi del mero obiettivo, ma interessandosi anche alle conseguenze, al viaggio in sé, al mondo che lo circonda (cerca infatti di aiutare sempre chi incontra) e al passato. Questo aspetto diventa particolarmente evidente con l’entrata in scena del terzo personaggio, la testa parlante – un colpo di genio niente male da parte degli sviluppatori – che racconta costantemente la sterminata mitologia di Midgard al giovane Atreus (che considera interessanti quelle informazioni, mentre Kratos le ritiene superflue se non distraenti), rendendo allo stesso tempo edotto il videogiocatore sulla nuova ambientazione vichinga.   

C’è però anche una componente diversa nel nuovo Kratos, la vecchiaia. O meglio, la maturità scaturita dal tempo. Kratos infatti appare ormai maturo – nonostante rimanga di carattere intrattabile – in un certo modo anche stanco e con un passato infinito con cui fare costantemente i conti. Se è vero che tutti i videogiocatori del mondo stanno affilando l’ascia dopo il trailer di Ragnarök per sfidare i pezzi grossi di Midgard, possiamo affermare con una certa sicurezza che, stavolta, il nuovo capitolo di God of War fa l’acquolina in bocca anche per aspetti che finora erano stati trascurati.

Santa Monica Studios è riuscita nella difficile operazione di rendere un personaggio videoludicamente stremato dalle diverse e numerose iterazioni, un qualcosa di nuovo e interessante da scoprire. Un reboot – che non lo è affatto – che riesce a destare meraviglia, toccando corde inattese con la mano ruvida e pesante di un ex brutale dio della guerra che ha finalmente riscoperto anche il lato piacevole della vita terrena.


VV