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Prezzo e mercato dei videogiochi, un volo pindarico

Questo gioco non vale il prezzo pieno.

Chiunque ha sentito dire – o detto, o pensato – questa frase almeno una volta, approcciandosi all’acquisto di un videogioco. Eppure c’è tutto un mondo dietro a queste parole, un insieme di fattori che conducono a questo ragionamento. L’attribuzione del valore nel mercato dei videogiochi sta prendendo una strada particolare, dovuta sia alle esigenze del mercato globale, sia alle peculiarità del mezzo.

Se è vero che oggi abbiamo decine di modi per videogiocare, è altrettanto vero che abbiamo decine di modi per accedere ai videogiochi: dalla semplice compravendita al sistema free-to-play, passando per i servizi in abbonamento. Con l’aumento gigantesco del numero di videogiocatori (più di due miliardi), aumentano sia le esigenze che condizioni che il mercato deve soddisfare, per auto-alimentarsi.

Fortnite ha saputo reinventarsi come free-to-play, monetizzando sulle skin estetiche dei personaggi.

Varietà e quantità.

C’è di tutto: videogiochi per chi desideri svagarsi durante qualche minuto di pausa, per chi cerchi serata spensierata con gli amici, per chi voglia competere ad alti livelli o per chi va alla semplice ricerca di emozioni. Una varietà davvero invidiabile. Dopotutto il mercato segue la domanda, o meglio, tutte le domande possibili, in maniera proporzionale. Esiste almeno un videogioco, o tipo di videogioco, per ognuno di noi.

Oggi è il mobile gaming a far scoprire videogiocatore chi non sapeva nemmeno di esserlo, plasmando un sistema senza soglie d’ingresso, adatto a tutti, mordi e fuggi: un merito che va allargato addirittura a Wii, alla prima Playstation, al Nintendo Entertainment System all’Atari 2600. Step di espansione del mercato che ogni volta forgiano nuovi videogiocatori e nuovi modi di intendere il videogioco.
E chissà chi e cosa ci porterà un domani la Realtà Virtuale e il Cloud?

Flight Simulator 2020 utilizza il cloud computing per riprodurre la Terra in scala 1:1.

Quando un mercato ha così tanta disponibilità e varietà, l’acquirente non può fare a meno di scremarla, per cercare quello che a lui interessa. Ma il videogioco è per sua natura un mezzo interattivo. Come sapere cosa davvero interessa, quindi, se non giocandolo in prima persona? Un problema facilmente aggirabile nel caso di videogiochi che non hanno una barriera di ingresso, come i free-to-play, ma complesso in tutti gli altri casi. Nel momento in cui è presente una barriera d’ingresso, anche minima, l’acquirente si fa restio e comincia ad analizzare la situazione.

Le demo e le versioni freeware furono un primo tentativo di risolvere questo problema, permettendo di provare con mano il videogioco, così da convincere all’acquisto. Ma questo sistema aveva un rovescio della medaglia: convinceva altrettanti a non comprare. Una prova non è una esperienza completa e la demo non è realmente il videogioco in vendita: per una miriade di fattori, provare un videogioco può mettere in cattiva luce il prodotto che si cerca di vendere.

L’importanza della qualità percepita.

Quando non si può provare un prodotto con mano per testarne la qualità, arriva ciò che davvero fa la differenza: la percezione dells qualità. Esattamente come quando in sala giochi non si aveva voglia di tentare a sorte con dei cabinati a caso, ma si investiva il proprio gettone su quello più famoso e giocato; oggi la cosa non è dissimile. Se ciò che vuoi vendere è percepito come di qualità, la qualità effettiva del prodotto passa in secondo piano. E mai come oggi, dove i videogiochi non sono più prodotti a basso budget, è importante avere una massa critica di persone che acquista e finanzia, pur non essendo obbligatorio che apprezzino il gioco.

Nel mercato videoludico moderno il gioco ad alto budget, detto “Tripla A”, deve essere già venduto prima della commercializzazione effettiva. E’ fondamentale creare hype, spingere al preorder, essere sicuri che il prodotto su cui si sta investendo avrà ritorni ingenti. La gente deve percepire, ancora prima di provare, che quel gioco è di qualità. Così che possa dire: “questo gioco vale il prezzo pieno”. Potremmo definirli “videogiochi evento”.

Elden Ring è un titolo attesissimo. Che ripaghi o no l’attesa, le sue vendite sono già assicurate.

Negli ultimi anni siamo stati inondati da presentazioni roboanti di videogiochi nati per essere visti come capolavori. Una dimostrazione di hype culture talmente elevata da diventare nociva in alcuni casi, capace di rendere secondaria la discussione sui contenuti. Non è raro trovare casi di giochi che sono stati eccessivamente elogiati o criticati solo perché si era già deciso che così doveva essere; Cyberpunk 2077 o The Last of Us  – Part 2 ne sono due esempi. Sia chiaro, non si vuole in alcun modo sminuire (o, viceversa, esaltare) entrambe le produzioni in questa sede; semplicemente, si vuole sottolineare come l’attesa e le campagne di marketing abbiano inquinato il dibattito successivo, creando aspettative non corrisposte, delusione e polarizzazioni dell’utenza.

Per far si che un videogioco venga percepito come meritevole del “prezzo pieno”, viene gonfiato in ogni suo comparto, al punto da renderlo talvolta eccessivo. Se non dura almeno 50 ore è troppo corto e non “merita il prezzo pieno”. Se non ha una mappa enorme è troppo piccolo e non “merita il prezzo pieno”. E ogni volta che un videogioco supera i confini degli altri, per porsi al di sopra di loro ed essere percepito come “meritevole del prezzo pieno”, l’asticella si alza, e per alcuni diventa troppo elevata.

The Last of Us – Parte 2 era sia odiato che amato già prima che uscisse.

Nella settima generazione di console, il gioco che “valeva il prezzo pieno”, era anche il gioco da dieci ore lineare. Prima delle memory card, lo era anche il gioco che durava tre ore, ma rigiocabile. Oggi se un gioco ha un numero di ore ritenuto insufficiente, verrà punito con una cosiddetta shitstorm, come nel caso di The Order: 1886. In molti casi, è parecchio forte la sensazione di videogiochi venduti “a peso”, annacquati da contenuti non necessari solo per garantirsi un elevato numero di ore.

Oltre la singola vendita.

Paradossalmente aver innalzato così tanto la quantità all’interno di un singolo prodotto ha portato quasi più svantaggi che benefici. I “videogiochi evento” vendono milioni e milioni di copie fin dal primo giorno, eppure nemmeno bastano. Già Amy Henning, creatrice di saghe come Uncharted e Soul Reaver, parlava anni fa dell’insostenibilità del mercato Tripla A attuale. Gli ha fatto eco Jim Ryan, capo di PlayStation, più recentemente, per “giustificare” l’arrivo dei loro videogiochi, da sempre esclusivi, su PC. Una situazione che ricorda un po’ quella del cinema degli anni ’50.

La soluzione per molti sviluppatori è stata affidarsi ad una monetizzazione del “contorno”. Storico è l’arrivo di quella famosa e criticata armatura per cavalli, da pagare a parte su The Elder Scrolls IV: Oblivion. Probabilmente l’inizio dell’era dei DLC (downloadable content) nella storia dei videogiochi. Oggi la vendita di oggetti in-game è ampiamente sdoganata e, per tanti videogiochi Tripla A, è la principale fonte di guadagno, Grand Theft Auto V per esempio. Nel momento in cui i soldi arrivano da fattori altri, oltre la vendita, stiamo andando a giocare su un campionato differente. Arrivati a quel punto è la quantità di pubblico che riesci a far giocare per più tempo al tuo videogioco a fare la vera differenza.

Minecraft è il videogioco più venduto di sempre, ma il vero traguardo sono i milioni di utenti che raggiunge.

Va da sé che, in un’ ottica del genere e almeno per i videogiochi ad alto budget, la logica della normale compravendita decade e si rende necessaria una gestione diversa sia strutturale che commerciale. Nascono quindi i famosi GAAS, Game As A Service, che forniscono contenuti costanti nel tempo, così da fidelizzare e trattenere l’utente, più invogliato a spendere per oggetti in-game. Fortnite e League of Legends ne sono l’esempio più lampante, dove addirittura la soglia di ingresso viene azzerata (free-to-play) al fine di ottenere la massa critica di giocatori desiderata. Se pensiamo ai grandi titoli moderni, non esistono giochi che non seguano almeno in parte questa logica, se non quelli che hanno “le spalle coperte”.

Naughty Dog, quale punta di diamante dei Playstation Studios, ottiene budget enormi, crea “videogiochi evento”, ma non necessita di aderire a questa logica (almeno per ora). Lì l’investimento è differente. A Sony serve che Naughty Dog faccia questo genere di giochi, ma la finalità è ben diversa della sola vendita del gioco. Avendo come esclusivi della sua piattaforma tali titoli, considerati di pregio, essi rifletteranno quel pregio sulla console che li propone. Siamo quindi tornati al punto di partenza, alla percezione di qualità del prodotto. Se il produttore fa apparire come di qualità la sua piattaforma può ambire ad avere un enorme pubblico che spende all’interno del suo ecosistema, che è ciò che porta il vero profitto.

Con meno budget, non meno importanti.

E per tutti gli altri videogiochi? Per chi non ha budget e possibilità per creare “videogiochi evento”, siano essi GAAS o meno? Abbiamo già detto che il mercato copre ogni nicchia. Se il pubblico non vuole più pagare il “prezzo pieno” per titoli che non siano percepiti come “al top”, allora si andrà all’opposto. Esperienze concise, rapide, sviluppate con pochi soldi ma tante idee, spesso vendute a prezzi molto bassi. I cosiddetti giochi indie, oggi, sono noti e giocati anche dal grande pubblico. Alcuni sono veri e propri cult, come Braid o To the Moon. Anche loro sono usati come motivo di vanto per le piattaforme che le ospitano e hanno il vantaggio di costare poco o nulla ai publisher.

E’ anche interessante notare come, nel momento in cui si parla di publishing, la stessa definizione di indie tenderà a sfumare. Sono infatti molte le aziende che puntano sugli indie, con ottimi risultati. Devolver Digital e Annapurna sono forse le due più famose, sicuramente non le uniche. In effetti, si ricorda per lungimiranza la piattaforma XBLA di Microsoft, che sovvenzionava indie per portarli sul Xbox 360. Oggi è invece Nintendo Switch ad usarli in maniera più preponderante, tanto da venire spesso chiamata “indiestation”.

Braid è divenuto un cult anche grazie alla visibilità avuta su Xbox 360.

In questo dualismo tra produzioni esagerate e produzioni minimali, è forse la via di mezzo che ne ha sofferto di più. I cosiddetti AA, cioè produzione a medio budget, sono spesso visti come giochi né carne né pesce. Per loro il prezzo pieno è quindi quasi precluso, perché mancanti di quel contenuto che è ormai ritenuto il minimo per meritare l’acquisto immediato. Fa sorridere pensare che esprimano le caratteristiche della maggior parte dei videogiochi prodotti in un periodo precedente all’attuale, mentre ora vengono ridimensionati, a un passo dall’essere denigrati. Sempre che non riescano a farsi percepire come Tripla A: Control ad esempio ci è riuscito.

Eppure il ritorno in massa degli AA sembra inevitabile. Con gli sconti quasi mensili degli store digitali, la svalutazione dei prodotti, l’arrivo dei servizi ad abbonamento come Xbox Game Pass, Playstation Now, EA Play, Ubisoft Plus e Amazon Luna, produrre giochi più contenuti, che non abbiano lo scopo specifico di essere venduti, potrebbe essere una via molto allettante per gli sviluppatori. Questi titoli eviterebbero così sia i rischi del gioco AAA,  che le problematiche di un prezzo considerato troppo alto.

Control è stato percepito quasi come un Tripla A, ma in realtà è un Doppia A.

Allo stesso tempo Embracer Group, Focus Entertainment, 505 Games ed altri, stanno puntando tutto su una grossa schiera di titoli a medio budget. La loro filosofia è differente: più produco, più vendo. Dove alcuni titoli vanno in perdita, altri coprono quelle perdite. Darksiders 3, The Sinking City, Outward, Kingdom Come: Deliverance e molti altri: questi giochi sono tutt’altro che campioni d’incassi, ma prendono parte ad un ciclo continuo, dove le vendite arrivano per forza di cose, anche solo per puro numero.

Ultime elucubrazioni.

Arrivati a questo punto è difficile pensare che la frase iniziale abbia realmente un senso. Cosa sarebbe il valore di un videogioco? Come possiamo legarlo realmente al suo prezzo? In realtà il costo e il prodotto sono due concetti non realmente collegati. Il prezzo non dovrebbe inficiare nella nostra percezione di un titolo, eppure lo fa, anche inconsciamente. Capita spesso che si apprezzi un videogioco anche solo perché lo si è pagato poco.

Ciò che idealmente conta è la qualità di un titolo, cosa che nei fatti, commercialmente, non ha quasi valore. E finché ci si affiderà alla percezione della qualità, saremmo in realtà guidati dal marketing. Ma distanziare commercio ed arte è operazione complessa, e forse è meglio evitare di soffermarsi troppo su queste sovrastrutture. Da fruitori, questo momento della storia dei videogiochi è forse uno dei più cangianti ed eccitanti: alla fine l’importante è videogiocare a quello che si vuole e si può. Sotto questo aspetto, il mercato dei videogiochi è probabilmente al suo punto più alto di sempre. E quindi, godiamocelo.

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