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Maladaptive daydreaming: sogno o son pazzo?

Quando ci si trova a dover parlare di un concetto scientifico come il maladaptive daydreaming per applicarlo al linguaggio artistico, può capitare di starsene a roteare le dita sulla tastiera prima di iniziare a scrivere la famosa prima lettera e, quando succede, la soluzione al problema è semplicemente affidarsi alla definizione. Giusto per mettere subito le cose in chiaro.

Per parlare di maladaptive daydreaming ci affideremo a quella data proprio dal suo creatore, il Professor Eli Somer dell’Università di Haifa in Israele che, nel 2002 l’ha definita:

Un’estesa attività della fantasia che sostituisce l’interazione umana e/o interferisce con il normale funzionamento accademico, professionale, interpersonale.

Eli Somer, Maladaptive Daydreaming: A Qualitative Inquiry, Journal of Contemporary Psychotherapy, Vol. 32, Nos. 2/3, Fall 2002.

La letteratura scientifica identifica il soggetto affetto da maladaptive daydreaming come un individuo in grado di produrre fantasie estremamente strutturate in termini di ambientazione e trame: è proprio qui che il sognare perde la sua accezione fisiologica per sfociare nel patologico. Il piacere esercitato da quella che chiameremo altra vita sul sognatore compulsivo è così appagante da portarlo a sostituire completamente la vita reale con quella che si svolge all’interno della sua mente.

Se ora state passando mentalmente in rassegna tutti i mattacchioni del cinema e delle serie tv, siete sulla buona strada perché arte e maladaptive daydreaming sono legati a doppio nodo. Se, infatti, è vero che il maladaptive daydreamer trova in ogni declinazione di linguaggio artistico spunti per arricchire il suo “altro mondo”, lo è altrettanto che l’arte si è sempre nutrita del lato oscuro dell’essere umano per produrre meraviglie.

Nelle prossime righe, proveremo, quindi, ad analizzare più da vicino due produzioni appartenenti rispettivamente a una serie tv e a un film di animazione; entreremo nell’altrove creato dai protagonisti per capire se ci troviamo al cospetto di un caso di maladaptive daydreaming o solamente a un adorabile picchiatello.

USS Callister

Tra le verità inconfutabili del nuovo millennio, c’è quella che disagio interiore e racconto distopico facciano coppia fissa. Se parliamo poi di distopia nel mondo delle serie tv non possiamo non parlare di Black Mirror (e infatti ne abbiamo parlato anche qui e qui).

Sarebbe un errore dire che Robert Daly, interpretato da Jesse Plemmons, viva in due mondi perché quella che conduce in orari di ufficio non è vita, ma una semplice e piatta esistenza. È la mente geniale dietro al videogioco multiplayer online Infinity, ma è anche totalmente incapace di interagire con le persone diverse da lui: questo lo rende socialmente un gregario che ha paura di chiedere un caffè a un suo dipendente.

La seconda vita di Robert Daly inizia quando anche lui si collega a Infinity, rigorosamente in modalità offline, e si sistema il ciuffo, diventando il Capitano della USS Callister.

USS Callister, l’equipaggio al completo

A bordo della sua astronave, Daly si sente onnipotente e al sicuro. Sarà sempre lui il vincitore: è sua la mente che ha programmato il gioco e la libertà di ogni singolo membro del suo equipaggio è limitata a quello che soddisfa l’ego smisurato del suo creatore.

Quello che, all’inizio, appare come un goffo tentativo di inventarsi un’autorità diventa ben presto lo scenario di una follia crudele: l’uomo cerca vendetta nei confronti di quelle persone che, nella vita reale, considera nemiche e lo fa intrappolandole nella sua realtà virtuale.

Trasformare chi ha osato contraddirlo in un animale mostruoso non è solo un tributo al genere sci-fi e alla serie Star Trek, ma ci mostra una persona che è rimasta emotivamente bloccata in una parte della sua storia personale e che “usa i giocattoli da nerd” come fonte di ispirazione per punire i traditori.

Un altro aspetto importante ai fini della caratterizzazione di questo oscuro personaggio sta nell’aver creato dei cloni sprovvisti degli organi genitali. Dietro questo gesto, non si nasconde solo la volontà di annullare totalmente il lato umano dei suoi collaboratori, ma ci mette di fronte a un essere umano che non prova emozioni semplicemente perché ne nega l’esistenza e trasforma in crudeltà la sua patologica insicurezza.

Decontestualizzare questi comportamenti dalle trame del racconto ci riporta al concetto di maladaptive daydreaming e a come, spesso, sia associato a disturbi come depressione e incombente senso di impotenza.

Basterà un briciolo di umanità sfuggita durante la programmazione a innescare la rivolta da parte dell’equipaggio e portare lo spettatore verso la fine dell’episodio. Robert Daly rimarrà intrappolato nel suo nulla, punito dalla sua stessa cattiveria e destinato a ripetere “Exit Game” per tutto il resto della sua vita in un eterno limbo tra realtà e finzione.

Se non riesci a uscire dal tunnel….

Semplice: disegnane un altro! È questo che fa Coraline per sfuggire alla noia diroccata della nuova casa a Pink Palace e a due genitori troppo indaffarati per considerarla.

Attraverso una porticina nascosta dalla carta da parati, Coraline accede in un’altra dimensione: la copia di quella reale, ma più sfavillante e in technicolor. In quella che lei chiamerà “l’altra casa”, la bambina troverà le attenzioni e il calore che in quella vera le mancano. Nei suoi strampalati vicini di casa troverà spettacoli teatrali ammalianti e circensi al posto di caramelle gommose vecchie di secoli e tendoni rattoppati.

Il personaggio di Coraline nasce dalla penna di Neil Gaiman e nel 2009, con la sceneggiatura di Henry Selick, diventa film di animazione. Le atmosfere burtoniane e la portata mediatica dei suoi creatori contribuiscono a rendere la produzione un cult e, come spesso accade in casi come questo, diverse scuole di pensiero si sono create attorno alle vicende narrate e al vero significato che nascondono.

Quello che faremo noi, però, è accantonare per un istante tutte le spiegazioni e i rimandi artistici per soffermarci sull’immagine della nostra eroina dai capelli blu.

Coraline è una bambina che non si sente ascoltata dai suoi genitori e che si rifugia, quindi, in una realtà completamente nuova in cui non ha bisogno di chiedere nulla in quanto sembra costruita apposta per lei. Questa perfezione affascina così tanto la nostra protagonista al punto da portarla a non accontentarsi più di aspettare la notte per scappare nel suo personalissimo altro mondo: ogni fastidio nella vita reale diventa un pretesto per gattonare verso quella porticina.

Tentazioni

La trasformazione progressiva dell’idillio in incubo non solo restituisce all’opera i tratti distintivi di una fiaba, ma corrisponde alla presa di consapevolezza di Coraline: il momento in cui capisce che l’altrove potrebbe inghiottirla. Vuole tornare indietro.

Sicuramente non siamo al cospetto di una personalità tossica come quella descritta nell’episodio di Black Mirror, ma il desiderio di evasione di un bambino nell’età dello sviluppo emotivo può essere forse ancora più pericoloso del desiderio di rivincita di un adulto frustrato.

Quindi sì, possiamo parlare di maladaptive daydreaming ma in una versione meno acuta: il personaggio di Coraline rimane a dondolare sospeso sul filo che divide la normale attività onirica di una ragazzina dalla condizione per cui l’altra vita che si è disegnata risulta talmente convincente da non permettere più di capire la differenza fra cosa è vero e cosa non lo è.

Quelli appena riportati rappresentano dei frammenti dell’intero mondo di possibilità narrative create dall’elaborazione della psiche umana attraverso lo specchio della cinematografia; questo grazie al concetto di libertà insito nel concetto stesso di arte e nella sensibilità dello spettatore che trasforma il mondo in un universo, e in un altro ancora, e in un altro ancora.

SL