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Le sorelle Macaluso, dal teatro al cinema

Prima di approdare sui tappeti rossi del Festival di Venezia, Le sorelle Macaluso di Emma Dante hanno danzato a piedi nudi sul palcoscenico di un teatro. La pièce teatrale debutta nel 2014 e nel 2020 e, dopo un lavoro di adattamento scritto dalla stessa Emma Dante con le collaborazioni di Elena Stancarelli e Giorgio Vasta, diventa film e partecipa alla famosa kermesse cinematografica, vincendo il Premio Pasinetti per la migliore performance femminile all’intero cast.

La scelta di inserire dettagli sulla genesi dell’opera non è un modo per riempire le righe prima di affrontare il succo del discorso, ma risulterà importante nel corso dell’articolo perché rappresenta una vera e propria chiave di lettura. 

Emma Dante.

Adattare al cinema uno spettacolo teatrale, infatti, non è solo un trasloco ma una vera e propria traduzione, con altri tempi e altre caratteristiche. Nelle prossime righe analizzeremo alcuni tratti fondanti del film e cercheremo di comprendere com’è stato realizzato il cambio di linguaggio.
Fino a scoprire se portare ‘Le sorelle Macaluso’ al cinema sia stata una magia o un sortilegio.

Quella delle cinque sorelle Macaluso, sette nella versione teatrale, è una storia di matriarcato, di sorellanza e di tragedia.
L’occhio della telecamera si apre su una mattinata allegra e rumorosa, piena di tutti i preparativi per trascorrere una giornata al mare e dimenticare, per qualche ora, la monotonia svolazzante di colombi da affittare e faccende da sbrigare. Lo sguardo di Emma Dante passa in rassegna tutte le protagoniste, scattando istantanee precise che individuano le peculiarità del singolo, tracciando i confini dell’intreccio.

La sensazione di coralità e spensieratezza, sottolineata da un momento che strizza l’occhio al genere musical, viene bruscamente interrotta dall’arrivo dell’elemento tragico: la morte della più giovane delle sorelle, che spezza le dinamiche costruite fino a quel momento e porta lo spettatore negli anfratti più crudi e spietati di ognuna delle Macaluso.

La sesta sorella Macaluso

L’immagine della morte, cristallizzata nella figura della piccola Antonella che ammira Pinuccia mentre si trucca allo specchio, non rappresenta solo un punto di rottura narrativo ma si fonde con la visceralità del legame tra sorelle, portando il mondo dei morti sullo stesso piano di quello dei vivi e, in un certo senso, umanizza la morte rendendola compagna di vita, sesta sorella Macaluso.

Ancora in cinque, ancora per poco.

Da questo punto in poi, il tema della morte, personificata o meno, si unisce alla potenza narrativa del tema della casa; saranno questi due elementi a tracciare tutti i confini del nuovo palcoscenico delle sorelle Macaluso, quello della battaglia quotidiana per continuare a vivere. Nonostante tutto.

Nessuna delle sorelle Macaluso riuscirà mai a superare il dolore per la perdita di Antonella, con buona pace dei cinque stadi del cordoglio di Elizabeth Kübler Ross, e il modo in cui Emma Dante racconta allo spettatore le esistenze di queste quattro donne dona all’intera opera i tratti distintivi della tragedia greca e, più nello specifico, dellAntigone di Sofocle. Esattamente come nell’opera del tragediografo, il dolore della perdita e la follia non si impossessano di un solo protagonista ma abbracciano l’intera platea dei personaggi, cambiandone irrimediabilmente le sorti pur senza snaturare i tratti distintivi presenti fin dalle prime scene.

A rafforzare il carattere tragico de ‘Le sorelle Macaluso’ ci pensa la casa, quell’appartamento situato all’ultimo piano di un palazzo della periferia di Palermo, il quale non racconterà tutti gli altri  dolori che si aggiungeranno a quello della perdita, ma che servirà da scrigno per custodirli tutti, condannando le protagoniste a vivere una vita in cui il tempo le invecchierà senza farle crescere e a fare i conti con un dolore sempre presente.

La soggettività del tempo

Nelle righe precedenti abbiamo anticipato come la morte abbia cambiato non solo le vite delle sorelle Macaluso, ma sia riuscita a ribaltare il concetto di tempo, aggrovigliando tutte le stagioni dell’esistenza in un unico, lungo e tormentato inverno. Tutto questo ci riporta al tema della soggettività del tempo e di come l’anima riesca a far girare le lancette dell’orologio adeguandole ai suoi sussulti e ai suoi tormenti.

Pensiamo alla frase del filosofo Sant’Agostino e al suo tempo come “distensio animi; o agli orologi molli di Dalì. Non ci sarà difficile capire che si, le lancette dell’orologio ci indicano l’ora esatta ma è l’anima a determinare il peso specifico di ogni istante sulla nostra pelle e sul nostro vissuto.

Orologi molli e tempo soggettivo.

Per le sorelle Macaluso il tempo, nella sua accezione cronologica, si è fermato quando il respiro di Antonella è diventato vento e da quel momento è stato quello dell’anima a scandire i giorni, con i suoi ritmi concitati, con i ricordi che ci illudono di essere andati altrove e invece sono sempre rimasti lì, come lo svuota tasche sul mobile o come i segni delle sigarette spente sul muro del balcone.

Il tempo “privato” di ognuna delle donne rappresentate da Emma Dante si fonde e si attorciglia con quello della sorellanza e prende il posto di quello biologico, fatto di mura che anneriscono, di figli che crescono, di malattie che consumano e di morti che arrivano a donare un po’ di pace.

Too much simbolismo will kill you (semi-cit.)

All’inizio di questo articolo abbiamo parlato di come sottolineare la genesi teatrale dell’opera fosse una chiave di lettura importante ai fini della comprensione della stessa. Ebbene, è arrivato il momento di scoprire il perché.

La prima cosa che salta agli occhi, confrontando la rappresentazione teatrale alla versione per il cinema de Le sorelle Macaluso, è la presenza di una scenografia pressoché inesistente nella prima e una casa piena di oggetti nella seconda. Una delle possibili spiegazioni per questa scelta potrebbe nascondersi nelle caratteristiche peculiari del linguaggio teatrale. Se nel teatro, infatti, grazie allo scambio empatico che si crea tra attore e spettatore, il rumore di passi può farci immaginare un pavimento e una danza può farsi allegoria di un decennio che passa, nel cinema invece abbiamo bisogno della vista per immaginare il tatto e una danza, senza un testo che ne decifri i passi, rimane solo una serie di movimenti scomposti. Alla luce di tutto questo, la sensazione è quella che Emma Dante abbia deciso di trasformare in “cose” tutto il non detto delle protagoniste nella versione teatrale, per colmare il gap di pathos creato inevitabilmente dal passaggio ad un linguaggio artistico completamente diverso.

Quello che voleva essere una sorta di scivolo da un mondo all’altro, risulta essere un dosso che affatica la visione da parte dello spettatore, il quale si ritrova ad ingozzarsi di simbolismo, come Maria di fronte al vassoio di dolci; e proprio come lei non si sazia mai veramente. Parafrasare quindi un testo celebre dei Queen non è solo una trovata un po’ irriverente per parlare di una criticità di quest’opera, ma risulta essere una descrizione piuttosto chiara di quello che, in realtà, è il vero grande problema di questo film.

La presenza, troppo massiccia, di elementi simbolici non appesantisce solo l’incedere del racconto, ma confonde tutti gli elementi narrativi, generando una coltre d’ombra su quale sia il vero motore dell’intera storia. Insomma, forse le sorelle Macaluso sarebbero riuscite a raccontarci la propria vita anche senza tutte quelle cianfrusaglie a corredo, e forse lo spettatore sarebbe riuscito a percepire il dolore straziante di ognuna di loro solamente guardandole negli occhi nonostante il filtro dello schermo: ma queste sono tutte chiacchiere che appartengono al mondo del “poi“, e che poco contano nel percorso compiuto dall’autrice nella stesura dell’opera prima, e nella successiva realizzazione.

Presagi.

Quello che rimane della storia de Le sorelle Macaluso è un racconto dalle linee temporali accartocciate; ed è proprio questa dimensione del “quando”, così scomposta, che restituisce all’intera opera una sorta di immortalità, donando al fruitore la possibilità di indossare il dolore raccontato e farlo proprio.
Senza curarsi dei simbolismi troppo stretti, dei piatti rattoppati con la colla e, perché no, anche dei colombi che volano lontano ma non vanno mai via veramente.

SL