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Perché continuo ad amare Nintendo

Nintendo è senza dubbio una delle aziende più influenti nella storia dei videogiochi. Non dovrebbero servire grandi presentazioni per ricordarla a tutti: fondata nel 1889 come produttrice di carte da gioco, Nintendo ha gradualmente ampliato la sua attività, passando alla produzione di altri giochi da tavolo come shogi e scacchi, transitando poi a giochi elettronici di varia natura, al punto di essere stata la casa produttrici di videogiochi più importante al mondo, e una delle più importanti adesso.

Nei suoi oltre quarant’anni di leadership del settore, Nintendo è rimasta fedele alla sua particolare concezione di videogioco come, in primo luogo, di gioco, coerentemente con la propria storia. Così come accadeva 130 anni fa, quando fabbricavano le loro carte hanafuda, l’obiettivo principe della “grande N” è rimasto quello in primo luogo di divertire.

Con le parole di Nintendo stessa:

We strive to make consumers of all ages smile through unique forms of play that anyone can intuitively enjoy. Our global teams are dedicated to this mission, and it is as much a part of Nintendo’s DNA today as in the past.

Shuntaro Furukawa, Presidente Nintendo, intervento durante il Corporate Management Policy Briefing, 2020

Ancora più diretta è la sezione “about” del sito Nintendo of America:

“Nintendo’s mission is to put smiles on the faces of everyone we touch.”[1]

Nonostante questa mission così netta e coerente, nell’arco di ormai centotrentaquattro anni di storia, Nintendo ha vissuto più di una contestazione da parte del pubblico. La sua fama di compagnia consumer-friendly è stata spesso messa in discussione, e una certa fetta di videogiocatori vede la casa di Kyoto come un relitto fuori dal tempo. Al contempo, Nintendo persiste nel proprio modo di realizzare le cose, tanto inimitabili quanto, a volte, indecifrabilmente arcaiche. Al punto di sembrare apparentemente non curante della concorrenza, del cambiamento del business, dell’evoluzione del mercato.

In un mondo che corre all’impazzata, la concezione desueta e ipertradizionalista che Nintendo imperterrita porta avanti è spesso guardata con sufficienza, un residuo del passato costretto da sé stesso ad essere meno di quel che potrebbe, bloccando talentuosi developer nello sviluppo di giochi – quando non giocattoli – inadatti al percorso di crescita e sviluppo che il medium sta portando avanti ormai da molto tempo.

Colore, colore ovunque.

Non riesco ad essere d’accordo. In un residuo del vostro cuore, se amate il medium videoludico, un po’ di affetto per Nintendo e la sua storia deve tuttora albergare, ma non deve per forza essere un affetto venato di nostalgia del passato. Personalmente, ho vissuto l’attesa per The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom con la stessa emozione che ricordo aver avuto per Majora’s Mask più di vent’anni fa. C’è qualcosa nei videogiochi Nintendo che li rende molto più che giochini per l’infanzia, e che lascia la grande N in una posizione di assoluto rilievo storico anche oggi, anche con le sue produzioni attuali. Cercherò di mostrare cosa.

Oltre l’autosabotaggio

Intendiamoci, l’avversione dei videogiocatori per Nintendo non è così agilmente derubricabile a fraintendimento. La principale contestazione alla compagnia riguarda tipicamente la difesa battagliera che la compagnia fa delle proprie IP, considerata eccessiva, frustrante per i consumatori e, in ultima analisi, controproducente.

Il rapporto di Nintendo con le proprie produzioni è effettivamente piuttosto sui generis. Le origini dell’apprensione per la difesa dei propri personaggi possono forse essere fatte risalire alla clamorosa battaglia legale con la Universal [2], che nel 1983 riteneva Donkey Kong un trademark infringement del “loro” King Kong. Nintendo vinse questa causa che si rivelò poi di importanza capitale per la storia dei videogiochi: poter continuare ad utilizzare Donkey Kong di fatto significava poter continuare ad utilizzare Super Mario come personaggio, e non serve specificare l’impatto di quest’ultimo sull’industria.

Donkey Kong (1981) – la causa con Universal è uno spartiacque nella storia del medium.

Una vittoria così decisiva fu celebrata adeguatamente da Nintendo, che addirittura diede ad una sua nuova IP il nome del proprio avvocato difensore nella causa: John Kirby [3]. Dare a un personaggio il nome di un procuratore dovrebbe ben indicare l’atteggiamento di Nintendo sul tema, nonostante due importanti livelli di ironia scaturiti dal fatto in sé. Il primo, naturalmente, è che l’elemento distintivo di Kirby è proprio il copiare le caratteristiche proprie altrui, e non ci sentiamo di escludere in toto una certa malizia in questa scelta. Il secondo, ben più decisivo, è che sembra oggi che Nintendo reciti spesso la parte di Universal, nelle molte cause in giro per il mondo.

La più recente è anche straordinariamente esemplificativa: lo scorso aprile Nintendo è riuscita nell’intento di bloccare numerosi contenuti di uno youtuber, PointCrow, che aveva pubblicato video contenti una versione altamente moddata di Breath of The Wild. Lo youtuber in questione ha quasi due milioni di iscritti, e i propri video superano spesso il milione di visualizzazioni. La foga con cui si bloccano queste esperienze sembra quindi andare anche contro i trend di mercato, con le concorrenti che sono tipicamente ben felici di avere questa visibilità, che costruisce la community e, quindi, nuovi consumatori.

Forse anche io sarei ossessivo con le mie IP, se ne avessi una che supera il miliardo di dollari al botteghino.

Non è evidentemente l’approccio di Nintendo, e la lista di esempi è lunga. Già nel 1989 Blockbuster fu costretta a smettere di fotocopiare i manuali di istruzioni dei giochi NES [4] in quanto la pratica avrebbe violato il copyright, e da allora il numero di casi è lievitato. Un elenco piuttosto bizzarro che non ho intenzione di esplorare oltre.[5]

Insomma, la posizione fieramente arcaica della “grande N” è piuttosto chiara, e il fastidio (quando non l’odio) che ne scaturisce per i videogiocatori è facilmente comprensibile. Sgombrato il campo da dubbi in merito, quello che mi preme raccontare è come, diversamente da quanto spesso viene percepito, questa arcaicità non si ripercuote sul modello di game design, pur rimanendo anch’esso ancorato alla tradizione.

Infantile sarai tu!

La critica a Nintendo è infatti, come anticipato, bipartita. Agli occhi dei critici, esiste da un lato la “Nintendo Corporate”, con le sue pratiche da “boomer” dell’era digitale, e dall’altra la “Nintendo SH”, che ha perso il treno della rilevanza sulla scena per dedicarsi ai suoi giochini, con un approccio infantile, inteso con accezione denigratoria. Ed è qui che perdo il filo.

Cosa c’è di più maturo che sparare ad orridi alieni?

Questa seconda parte della critica è, a mio modesto avviso, un po’ fuori fuoco. Il presupposto implicito è che la fase più strettamente ludica, l’approccio “gameplay-first”, è fuori dal tempo, surclassato da un nuovo standard aureo per cui il videogioco si è emancipato dalla necessità di divertire, forte di una grammatica propria che incorpora gameplay e meccaniche ma che non può risolversi in esse. In altre parole, se abbiamo avuto Kojima forse non possiamo più prendere pienamente sul serio Aonuma; se ho visto la mia violenza in Hotline Miami, forse non ha più senso far combattere due Pokémon per sport. E ancora, dopo aver visto come mi parla Immortality, posso forse accontentarmi di saltare in testa ad un fungo? Dopo essere stato abbagliato dal sublime in Elden Ring cosa potrà lasciarmi la ventosa prateria di Hyrule?

Sono argomentazioni interessanti, ma se assolutizzate rappresentano soltanto una bugia colta. Benché sia certamente legittimo preferire un approccio diverso da quello di Nintendo, infatti, disconoscere in toto il valore di un videogioco integralmente sostenuto dal suo gameplay e dalle sue meccaniche significa avere la pretesa che esista una sola strada, una sola evoluzione coerente con il percorso di crescita del medium.

Non credo sia però corretto ridurre in categorie, derubricare la strada di Nintendo a progetto di Serie B. Più onesto sarebbe piuttosto riconoscere che siamo noi a non avere più interesse in questo approccio, per la nostra storia personale, le nostre attitudini. Nintendo invece, nel focalizzarsi sulla propria mission ricordata in apertura, raccoglie l’eredità della propria storia secolare e la coniuga alle ragioni prime della nascita del videogioco stesso.

Il mondo del gaming è molto grande, abbracciarne tutte le possibili sfaccettature è una gioia. C’è ancora oggi quella fantomatica “Nintendo Difference” promessa, ed è davvero un dono per tutti, anche per chi ha già amato Disco Elysium.[6]

L’eccesso di significante

Non ho veramente interesse a legittimare, ad ammantare di profondità la mia passione per le opere Nintendo. Trovo però che sia opportuno da un lato contestare l’enfasi intellettuale con cui si mette in risalto l’infantilità supposta di Nintendo, e dall’altro sottolinearne la maturità e raffinatezza ludica.

In primo luogo, il concetto stesso di infantilità andrebbe rimesso a fuoco. Personalmente ho un’idea profondamente diversa dell’opera di Nintendo. Per descriverla prendo spunto dalle parole di Robert Walser, poeta svizzero della prima metà del Novecento:

“L’arte non consiste nel dire delle parole, bensì nel formare un corpo poetico, cioè nel far sì che le parole non siano che lo strumento per la costruzione di un corpo-poesia […]”

R. Walser, Briefe

In questo senso, l’arte non è vincolata alla necessità di produrre un senso, poiché l’impegno dell’artista è diretto alla formazione di un corpo. L’arte in questo senso diventa “eccesso di significante” che sembra presentarsi paradossalmente come rinuncia al significato stesso.

L’arte può certamente essere letta puntando al suo significato, ma non è questo ad animarla, o perlomeno non necessariamente. Ritengo non sia troppo diverso nei videogiochi, che perdipiù fra i medium sono quello più strettamente ludico in assoluto. È sotto questa luce che suggerirei di guardare, per esempio, il levigatissimo gameplay di un Super Mario, sicuramente la serie simbolo per eccellenza di Nintendo. La infinita varietà di situazioni, l’impareggiabile level design che esalta il moveset e precisione dei controlli di Mario, si mostrano nel loro esaltante splendore e divertono, trovando in questa progressiva e continua evoluzione degli stessi elementi distintivi dei primi episodi una proprio felice autoconsistenza.

Non è opportuno scambiare questo approccio con infantilità. È anzi piuttosto ingenuo ritenere che il tentativo di mostrarsi maturi sia di per sé stesso l’opposto dell’infantilità. Il pericolo è quello di considerare come meritorio l’utilizzo strumentale del medium videoludico come ennesima via per comunicare forzatamente un’opinione precostituita, di qualunque natura e indipendentemente dal contenuto. Per questa strada l’arte diventa un mezzo per veicolare informazioni; la concezione precede la realizzazione e l’arte si riduce a mera illustrazione.[7]

Questa inversione fra l’apparentemente infantile e l’apparentemente maturo ha in realtà una storia antica, molto più antica dei videogiochi stessi. Un copione non troppo dissimile si è riproposto ciclicamente anche, per esempio, in ambito musicale. Il “pio” quattordicenne Nietzsche rifletteva sulla musica, il cui scopo precipuo sarebbe “guidare i nostri pensieri verso l’alto”; la musica non poteva quindi essere usata per divertimento, anche se “quasi tutta la musica moderna ne mostra le tracce”. La critica ai suoi allora coetanei è quindi che a essi mancherebbero “pensieri propri”, cercando quindi “di ammantare la loro mancanza di idee di uno stile splendido e rutilante”. [8]

Piccolo intervallo musicale.

All’opposto, in età adulta Nietszche celebra la leggerezza della Carmen di Bizet, da contrapporre alla pesantezza dell’opera di Wagner, definita brutale e artificiosa:

Questa musica invece mi sembra perfetta. Si avvicina leggera, morbida, con cortesia. È amabile, non fa sudare. “Il bene è leggero, tutto ciò che è divino corre con piedi delicati”: principio primo della mia estetica.

F. Nietsche, Il caso Wagner, 1888

Tradizione è innovazione

Messi da parte questi distinguo concettuali, una dichiarazione d’amore per Nintendo non può certamente prescindere dal merito ludico, come ampiamente chiarito fin qui. È soprattutto qui, mi perdonerete, che mi commuovo.

La maestria di Nintendo è per l’appunto commovente: la sublimazione della componente ludica già citata non arriva con una perpetua riproposizione del passato[9], ma con una innovazione costante.

Ora, non ho la pretesa che questo sia vero sempre e per tutte le saghe Nintendo. Nel corso del tempo abbiamo visto uscire da Kyoto anche numerosi errori (quando non orrori), veri e propri money grabber, remaster improbabili e quant’altro, senza nemmeno entrare nel merito del servizio online. La colonna portante della storia degli ultimi quarant’anni è però un’altra.

Quando nel 1983 Nintendo lancia il proprio Nintendo Entertainment System (Famicom in Giappone) sta già dando prova della propria portata innovativa. La console avrà il merito di risollevare praticamente da sola l’intera industria da quello che è definito come il “secondo collasso” del mercato dei videgiochi[10]. A dirla tutta, lo fece non tramite una estrema focalizzazione sulla potenza dell’hardware ma concentrandosi su quelli che saranno i propri centri gravitazionali per tutti gli anni a venire: accessibilità, per esempio tramite il rivoluzionario joypad che per primo incorporava una croce direzionale, ed estensione dell’esperienza di gioco, in questo caso per esempio tramite la pistola a fotocellula Zapper che, insieme al gioco Duck Hunt, trasformava la console casalinga in qualcosa di simile ad una esperienza da sala arcade.

Un divertentissimo esempio della “Nintendo Difference”.

Il desiderio di essere sempre per tutti, e sempre per qualcuno in più, sarà la vera stella polare dell’operato Nintendo. Laddove le principali concorrenti attuali sono tech company, Nintendo si conferma una entertainment company [11], interessata non tanto ad innovare verticalmente, sulla tecnologia, ma orizzontalmente, sulle possibilità del medium [12], così facendo allargando ed ampliando un mercato sempre più grande, per il beneficio di tutti.

Questa filosofia sarà particolarmente evidente a partire dal 2006, con il lancio del fortunatissimo Wii, ma è in realtà massima espressione di un’attitudine presente da sempre [13], resa ancor più palese dal contrasto con l’evoluzione lineare dei competitor.

Ambidestrismo magico

L’innovazione lato console, per quanto mirabile, non spiega da sola il successo di Nintendo, e ancor meno spiega il mio amore per loro. Al cuore della questione c’è il software, i giochi, quelle serie leggendarie che ancora oggi stupiscono. I giochi Nintendo hanno più volte contribuito a settare gli standard, sia dei loro generi di riferimento che dell’industria tutta. Il trittico formato da Super Mario, The Legend of Zelda e Metroid, oltre ad essere qualitativamente sensazionale, già negli anni Ottanta fissava stilemi e definiva generi, con impatti che tuttora stiamo riscontrando.

Se Metroid ha dato addirittura il suo nome ad un genere che in tempi più recenti ha visto una sorta di resurrezione, Mario e Zelda hanno collettivamente definito una enorme parte dei mattoncini fondamentali che costituiscono la grammatica del medium, tanto negli anni Ottanta quanto poi con il loro approdo alla tridimensionalità. Per approfondire quanto e come del mondo dei videogiochi sia fondamentalmente indebitato con queste due saghe servirebbero studi dedicati e certamente articoli a parte. Il mio interesse qui è invece provare a sottolineare la grandezza del processo innovativo insito nelle due serie principali di Nintendo.

Il segreto è di quello che nel mondo business verrebbe definito come ambidestrismo. Nintendo, fra un capitolo e l’altro delle sue serie, produce innovazioni verticali (nuovi poteri, nuovi power-up, nuove meccaniche) migliorando costantemente il suo gioco. Nel mentre, assistiamo ad un processo di continua riscoperta dei fattori alla base della grandezza della serie, una perpetua introspezione di Nintendo che viene poi riversata nel capitolo. È questo il paradosso: il feroce attaccamento alle proprie tradizioni e alla propria storia si mescola con l’attitudine a stupire sempre, a ribaltare il proprio tavolo e ricostruirlo partendo dagli stessi pezzi.

Cosa c’è al cuore di Mario

Facciamo degli esempi, partendo in primo luogo da Super Mario. Dal 1985, anno di uscita del primo Super Mario Bros., all’uscita di Super Mario 64 nel 1996, la serie ha sfornato un buon numero di capitoli che continuavano a migliorare verticalmente la stessa formula. Le caratteristiche fondanti rimanevano inalterate: si trattava sempre di platform a scorrimento orizzontale, caratterizzati da numerosi mondi a tema dal tono tendenzialmente scanzonato, una gran varietà di colori e fondali, power up di varia natura e, naturalmente, un level design eccezionale con una pulizia di controlli che ha fatto scuola.

Pur nella stessa cornice i diversi giochi non sembrano mai capaci di stancare, perché le migliorie fra uno e l’altro erano sufficienti a variare la formula per riuscire a generare platform sempre originali, senza mai dare la sensazione di un more of the same, con l’eccezione di Super Mario Bros.: The Lost Levels che aveva in verità il gusto di un moderno DLC e che peraltro non fu commercializzato in occidente, almeno inizialmente.

Quarant’anni e non sentirli.

Con l’avvento del 3D, Nintendo scelse di non difendere una posizione di rendita che sembrava inscalfibile e produsse il nuovo Super Mario 64 stravolgendo i canoni dei platform che lei stessa aveva fondamentalmente creato. La scelta, che oggi sembra ovvia ma che all’epoca rappresentava un enorme balzo in avanti, avveniva a meno di un anno dall’uscita di Super Mario World 2: Yoshi’s Island, l’ultimo capitolo in 2D della serie: un grosso successo di pubblico e critica.

Insomma, Nintendo ribalta il tavolo all’apice del successo, anticipando qualsiasi momento di stanca della serie e realizzando un gioco meraviglioso, un pezzo di storia del medium che fece scuola per la sua capacità di gestire la tridimensionalità e che anche oggi, se rigiocato, non risulta realmente antiquato se non per la sua gestione della telecamera.

Dal 1996 in avanti Nintendo ha quindi dovuto portare avanti due storie, per Super Mario: quella tradizionale, fatta dei rapidi livelli 2D, e quella più recente, la versione nuovamente pioneristica in 3D. Se alla base di entrambe vi erano sempre level design e controlli, è pur vero che la versione 64 introduceva anche elementi che andavano in altre direzioni: Super Mario 64 aveva importanti componenti di esplorazione, soprattutto nel grande hub del castello ma anche all’interno dei livelli, che pure diverse volte provavano a replicare l’esperienza di rapidità e costante movimento dei capitoli originali.

Super Mario 64 ti fa innamorare già nel “tutorial”, quando capisci davvero che cosa hai per le mani.

I successivi capitoli hanno dovuto fare i conti con questa doppia anima. Sunshine (2002) provò ad insistere sulla parte esplorativa, creando un hub ancora più grande e vivo e cospargendolo di segreti, affidandosi poi in toto alle dinamiche date dallo Splac 3000 (la “pistola ad acqua”; uno strumento principalmente esplorativo) e relegando la componente più puramente platform a sezioni brevi e marginali nel più ampio contesto. A mio parere, pur trattandosi di un gioco comunque molto divertente, Sunshine è forse quello che meno cattura l’essenza di Super Mario, e dunque meno riuscito.

Probabilmente simili ragionamenti li fecero anche in Nintendo, ed è qui che partirono con l’introspezione. Cospargere di segreti una enorme area 3D del gioco era davvero necessario? O forse l’esplorazione era una felice aggiunta al contesto e non il nuovo contesto? Dal 2002 in avanti, La casa di Kyoto portò avanti una rifocalizzazione della serie, restringendo progressivamente la hub e lavorando su rapidità e varietà di livelli e situazioni, con i due eccezionali Galaxy [14], mentre parallelamente provava a riprodurre integralmente la formula 2D, con New Super Mario Bros. e i Super Mario 3D. Se i “New” erano una riproposizione piuttosto acritica, i “3D” colgono il segno, restituendo precisamente l’esperienza anni ’80, fatta unicamente di salti millimetrici e corse contro il tempo, ma in un contesto in cui la tridimensionalità degli spazi aggiunge valore all’azione e non resta mero vezzo estetico.

Super Mario Odyssey (2017) è quindi il punto di arrivo di un percorso molto chiaro. L’ampiezza e la varietà dei livelli dei Galaxy si fonde alle dinamiche di platform ultra-compatte dei 3D, e genera una sequela di livelli che auto-contengono dei simil-hub e, nella loro estesa apertura, lasciano lo spazio per vivere sequenze puramente “platformiche” in porzioni localizzate della mappa. È l’unione perfetta delle due storie, di Super Mario Bros. e di Super Mario 64, in cui c’è lo spazio per l’esplorazione e la caccia di segreti ma anche per sezioni adrenaliniche e tecniche all’interno di livelli sempre ispirati.

Super Mario Odyssey è il punto di arrivo di un percorso estremamente coerente.

Basta prenderlo in mano per innamorarsene, ed è un testamento alla capacità di Nintendo di divertire unendo l’innovazione continua ad uno sguardo di fiducia alla propria storia, che non è solo una cantina polverosa o una mucca da mungere ma una riserva di valore ed esperienza.
Chissà come fanno.

Ocarina of Time era già un tradimento

Mi chiedo come fanno perché io non sono in grado. Giocando alla serie Zelda, che non nascondo essere la mia preferita in assoluto, vedevo anche io i problemi sempre più evidenti ma non riuscivo a spiegarmeli, a trovarne una causa [15]. Anche in questo caso, me l’ha mostrata Nintendo stessa, tornando sui suoi passi.

Partendo da presupposti simili ai Mario, gli Zelda hanno avuto più di un inciampo nel corso del tempo, forse perché la sua essenza era più nascosta, o meno focalizzata. Uscito per NES nel 1986, The Legend of Zelda era un meraviglioso videogioco che incorporava elementi action/adventure e RPG in un overworld enorme ed aperto, cosparso di dungeon intricati e ricchi di puzzle e nemici di abbattere. Anche in questo caso il salto al 3D ha prodotto un pezzo di storia importante, quell’Ocarina of Time (1998) che molti fan di Zelda spesso considerano tuttora il miglior videogioco della storia. Naturalmente sbagliano di grosso.

Forse il frame più famoso della serie.

Intendiamoci, Ocarina of Time è davvero un gioco maestoso. Inoltre, è un altro pezzo fondamentale della storia del medium, con una legacy colossale, talmente grande da essere difficile da tracciare. Il mondo di gioco era sì enorme, divertente, bello da vedere e ricco di personaggi memorabili. Viaggiare per quell’Hyrule era davvero una emozione, un privilegio. Già allora però Ocarina of Time pagava un pegno al 3D che Mario non si trovò mai a dover pagare. Ocarina of Time è una trasposizione 3D degli originali in 2D, laddove Super Mario 64 era un ripensamento della serie. E nel scegliere gli elementi da trasporre, nell’identificare il cuore della serie, in origine Nintendo fece un po’ di confusione, prendendo puzzle e convenzioni e non la libertà di esplorare e scoprire un mondo di gioco.

Ocarina of Time è meraviglioso, ma anche il suo bellissimo mondo di gioco non è in realtà un “mondo” come lo era in The Legend of Zelda, bensì un elaborato marchingegno reskinnato, un labirinto in cui si susseguono serrature da aprire con la giusta “chiave”, che a volte sono le effettive chiavi dei dungeon e altre sono oggetti. Un palo di legno è una serratura, e richiede un hookshot come chiave; un masso è una serratura e, a seconda del colore, potrò mettere la relativa chiave, sia essa una bomba, un martello o dei guanti magici. In questo senso, Ocarina of Time è facilmente intellegibile, e quindi non misterioso.

La prima vista dell’Hyrule Field in Ocarina of Time è comunque memorabile.

In seguito a Ocarina of Time, le convenzioni si ripeteranno sempre di più ritorcendosi su sé stesse, i puzzle ambientali saranno sempre intimamente gli stessi, e la serie finirà immersa in una sorta di dimensione parallela, una sacca fuori dal tempo. Una sacca da cui usciranno anche delle perle, intendiamoci. Majora’s Mask, pur frainteso in un primo periodo, sarà un gioco clamoroso, la cui cupezza e il cui brillante utilizzo del tempo metteranno in ombra qualsiasi limite. Anche The Wind Waker, complici uno stile grafico mirabolante e il suo tentativo di utilizzare l’oceano come chiave per la costruzione di un mondo vivo, riuscirà nell’intento di portare un po’ di magia ad Hyrule.

Oltre The Wind Waker, Nintendo perse le fila. Twilight Princess (2006) fu già un tentativo di rimessa a fuoco, ma gravemente fuori strada. Provando a ripensare alle caratteristiche primigenie della saga, finì invece per esacerbare i limiti di Ocarina of Time, velandolo di una maturità fuori luogo, e quelli che erano sassolini divennero massi ciclopici. Ancora più puzzle ambientali, ancora più dungeon e convenzioni desuete e colli di bottiglia, ma sempre meno libertà e un mondo svilito, che cade già al paragone con Ocarina.

Se nel 1998 per raggiungere il deserto avrei avuto la necessità di liberare un cavallo, prendere la rincorsa e saltare un ponte, per poi farlo ricostruire, in Twilight Princess ci vengo sparato con un cannone, arrivando in un’area isolata e sconnessa dal resto dell’overworld. Sempre più serrature, sempre più chiavi. Ocarina of Time era una pietra miliare per tutti, Twilight Princess era un gioco per fan, un anacronismo. E per quanto riguarda Skyward Sword, mi limiterò a dire che in esso almeno si colgono veri tentativi di ripensamento, per quanto nuovamente falliti.

Bell’idea davvero grazie mille.

Raccontare i fallimenti di Nintendo nel ripensare Zelda serve però ad esaltare la grandezza di quando il tentativo è invece riuscito. Come per il recente scudetto del Napoli, una lunga attesa costellata da insuccessi dolorosi rende ancora più dolce la vittoria, ancora più evidente l’amore.

Perché The Legend of Zelda: Breath of the Wild (2017) è questo, è la più grande vittoria di Nintendo, e rispecchia di nuovo i canoni descritti in apertura: da un lato l’innovazione tecnologica, ovvero il nuovo motore fisico, dall’altro la riscoperta della grandezza del passato: mondo di gioco e libertà, finalmente ripensato per il 3D. In questo senso, Breath of The Wild è l’equivalente di Super Mario 64 per gli Zelda.

Abilitato da un motore fisico eccezionale, che permette la generazione di numerosi sistemi e lo sviluppo di gameplay emergente, la nuova Hyrule è viva e sempre nuova, non è più intellegibile a prima vista. Le modifiche sono anche concettuali: via gli oggetti da recuperare (sono finite le serrature!), via la struttura rigida, dentro un mondo apertissimo, gigantesco, approcciabile quando e come si vuole grazie ad un nuovo set di poteri disponibile praticamente da subito e alla barra della stamina, che permette di arrampicarsi.

Di per sé, si tratta di un lavoro di decostruzione della saga, effettuata rimuovendo l’inutile, alleggerendola da polverosi dungeon, dimenticandosi della confusa timeline e lasciando in campo soprattutto il wild, la natura selvaggia da cui Link deve dipendere. La chiesa al centro del villaggio. Di nuovo, la riscoperta della storia e di sé come trampolino per la proiezione nel futuro.[16]

È una gioia, questa riscoperta, ed è per questo una gioia anche il risultato: un gioco clamoroso, tuttora inimitato, dalle potenzialità immense. Forse anche per questo, una parte di fan non l’ha capito. Abituati alla propria nicchia autoreferenziale, si sono alzate molte critiche, alcune certamente legittime e altre meno, in primis focalizzate sul basso numero di dungeon e, soprattutto, sulla distruttibilità delle armi. Ma non fa niente, Nintendo ha già pronto il prossimo passo.

E così, eccoci a The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom

Quest’articolo è stato programmato per il dodici maggio 2023, giorno di uscita del seguito diretto di Breath of the Wild. Celebrare Nintendo in questo giorno è di fatto l’obiettivo di questo mio indegno pezzo[17]. Mentre scrivo, non ho ancora giocato a Tears of The Kingdom, ma alcuni semi di novità, coerenti con il percorso descritto, si vedono chiaramente già dal materiale a disposizione.

Innanzitutto, da quanto visibile, Nintendo sembra spingere sul pedale della libertà. Mentre per via del riutilizzo di asset, mondo e motore fisico di gioco alcuni osservatori isolati hanno invocato il “more of the same, Nintendo ha invece scelto di aumentare esponenzialmente l’interattività, e quindi la dipendenza, con l’ambiente. Laddove Breath of the Wild era un action/adventure con elementi sandbox, sembrerebbe che in Tears of the Kingdom la parte sandbox, e quindi la parte in mano alla libertà del giocatore, sia stata incentivata. Anche in questo caso, Nintendo sembra aver fatto tesoro dell’esperienza data dal precedente capitolo, andando ad esaltare il meglio del proprio titolo.

Non vedo l’ora di giocarci.

In secondo luogo, non posso che sottolineare la maternità di Nintendo nel rispondere alle esigenze dei fan. Nell’aumentare la dipendenza ambientale la grande N viene anche incontro ai critici del sistema di distruttibilità delle armi, che è oggi incorporato negli elementi sandbox grazie al nuovo set di poteri che permette di combinare e rinforzare le armi per potenziarle.

Questa particolare scelta sembra il miglior esempio possibile dell’oculatezza di Nintendo. La critica alla distruttibilità delle armi era, il più delle volte, completamente fuori fuoco: tale feature era assolutamente indispensabile a creare quella dipendenza di Link da Hyrule, che tramite armi e ingredienti gli forniva gli elementi per sopravvivere e contemporaneamente lo incentivava a esplorare luoghi reconditi. Eliminarla poteva significare tornare al sistema di oggetti, alle convenzioni da sacrestia di Twilight Princess. Senza distruttibilità, insomma, non poteva esserci Breath of the Wild.

Nonostante questo, Nintendo ha ascoltato i propri fan, ed è andata a lavorare per migliorare questa sfaccettatura. Non eliminandola, ma scommettendoci sopra, ricostruendo una nuova meccanica che potenzia la propria visione senza scendere a compromessi, e al contempo andando a limare un concept che per molti era un limite del gioco originale. Un approccio folgorante.

Sarà sempre questo, quello che chiederò a Nintendo. Di folgorarmi con una trovata delle loro, di guardare più avanti di me e della mia limitata visione, ma al contempo di pensare a me. Lo avete mai chiesto a qualche altra Software House?

FSF


NOTE:

[1] https://www.nintendo.com/about/

[2] Per approfondire, si consiglia il video-essay al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=i13hrynnGNY

[3] Sulle origini di Kirby si consiglia l’approfondimento su Kotaku: https://kotaku.com/the-accidental-origins-of-kirby-1794773483

[4] https://www.nintendotimes.com/1989/08/19/nintendo-sues-blockbuster-video-for-copying-instruction-books/

[5] Per un elenco comunque non esaustivo: https://www.thegamer.com/the-dungeons-dragons-movie-is-a-blueprint-for-adapting-breath-of-the-wild/

[6] Cioè tutti, spero. Chi è che non ama Disco Elysium?

[7] Per approfondire questa concezione si consiglia “Le non cose: Come abbiamo smesso di vivere il reale” di Byung-chul Han, 2022.

[8] Friedrich Nietszche, Scritti giovanili 1856-1864.

[9] Ok, magari un pochino con Pokémon lo fanno.

[10] Cfr. Conoscere i videogiochi. Introduzione alla storia e alle teorie del videoludico, di M.Pellitteri e M.Salvador, Tunuè, 2014, pag. 40-45.

[11] Nelle parole dell’allora presidente di Nintendo of America Reggie Fils-Aime, in questa intervista del 2018.

[12] Che, intendiamoci, utilizza anche l’innovazione tecnologica, ma come strumento e non come fine.

[13] Un’attitudine che continua imperterrita, con Nintendo che si è buttata poi su console ibride (Nintendo Switch), mobile gaming (Super Mario Run, Fire Emblem Heroes…), realtà aumentata (Mario Kart Live: Home Circuit) e su Nintendo Labo, un misto fra gioco fisico e digitale a cui personalmente non so dare una definizione congrua.

[14] Personalmente, i miei preferiti.

[15] Altri invece vi sono riusciti con il giusto anticipo. Per esempio Tevis Thompson, in questo lungo blog che, pur con degli estremismi non condivisibili, c’entra il cuore del problema, ed è una fonte fondamentale del paragrafo.

[16] Un simile tentativo di decostruzione e ricostruzione degli elementi fondativi di Zelda è stato anche realizzato in Tunic, di Andrew Shouldice.

[17] Rigorosamente a titolo gratuito.


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