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Ammazzati amore mio: nuove declinazioni di maternità

Siamo nel 2022, l’amor cortese è finito da un bel pezzo, il genere femminile non viene quasi più visto solo come un pargolificio con qualche altro organo intorno e, da diversi secoli, le donne stanno occupando le poltrone di prima fila nel grande teatro del mondo.

Tutto bellissimo, tutto verissimo e con qualche leggero tocco di girl power che male non fa; ma come si giunge ad Ammazzati amore mio in questo scenario intriso di positività? Un po’ di pazienza e ci arriviamo.

Una volta superato il clamore degli slogan instagrammabili che dipingono le donne come guerriere resilienti e influencers, ci ritroviamo faccia a faccia con un dogma vecchio come il cucco, secondo il quale, per una donna, la via per una vita completa deve necessariamente comprendere il matrimonio e la maternità.

Retaggi culturali con il mantello da supereroe? Circoli viziosi di modelli comportamentali o solo un incrollabile romanticismo forgiato nel fuoco incrociato della Mattel e della Disney? Non esiste una sola risposta per questa domanda e potete pure smettere di googlare “massimi sistemi” perché non è questo l’argomento dell’articolo, quindi non ne avrete bisogno.

Ariana Harwicz

Pensiamo, invece, a quando le parole moglie e mamma non fanno più idealmente rima con amore ma assumono nuove declinazioni; pensiamo anche a quando ci si infila letteralmente in quei “ruoli” non per amore o per una scelta consapevole, ma con il solo scopo di dimenticare se stesse. Crollo rovinoso del sogno romantico o una malinconia che diventa patologia? Riflessioni di questo genere non sono solo elementi di rottura per uno schema, purtroppo, ancora così radicato, ma creano uno spiraglio sui lati oscuri della maternità e della vita coniugale.

Nel corso di queste righe parleremo di una scrittrice che ha deciso di raccontare l’inquietante altrove di una donna che non voleva diventare e che non si sente madre. Il suo nome è Ariana Harwicz e Ammazzati amore mio, edito da Ponte alle Grazie, è il primo dei tre volumi che l’autrice ha dedicato al disagio femminile.

Ed è subito flusso di pensieri

Com’era possibile che io, una donna debole e malata che sogna di avere un coltello in mano, fossi la madre e la moglie di quei due individui?

Da Ammazzati amore mio (p.7)

Questa domanda è contenuta nella prima pagina del libro e le poche righe che la precedono sono cariche della stessa veemenza. Come si risponde ad un quesito del genere? E, soprattutto, è una domanda che vuole davvero conoscere la risposta?

È così che il fruitore viene accolto nel mondo della protagonista, strappato alla sua realtà di lettore da divano o da metropolitana e scaraventato in malo modo in quella raccontata dall’autrice.

L’intera narrazione è costellata dalla formula interrogativa e, sebbene in prima analisi possano sembrare tutte “domande da un milione di dollari”, in realtà la prima assume un ruolo completamente diverso nell’economia generale della storia.

L’utilizzo dell’aggettivo “malata” apre un varco di empatia tra l’autrice e il lettore, che non può far altro che aprirsi alla narrazione. Questa sensazione di scambio, però, cede sotto il peso di un’introspezione così chirurgica da portar via alle domande la loro capacità di oltrepassare la carta e diventare pensiero nella mente di chi legge.

Non esiste oggettività tra le righe di Ammazzati amore mio: ogni singolo elemento è storpiato e alterato dallo stato d’animo della protagonista. La banalissima descrizione di un barattolo di marmellata pieno di mosche al suo interno non è solo un elemento d’arredo narrativo: è un espediente. Un espediente per scoprire che è stata proprio lei a far entrare le mosche nel barattolo, perché nella sua mente drogata dal fastidio, quella marmellata rappresenta la vita che la protagonista odia e dalla quale vorrebbe scappare.

Christina’s World di Andrew Wyeth è stato scelto per la copertina spagnola del libro 

La stessa crudele precisione viene usata anche per descrivere i momenti passati con suo figlio. Ogni respingente e nauseabonda sfumatura del distacco provata nei confronti della sua creatura viene descritta nei minimi dettagli, animata dal desiderio di abbattere secoli di pregiudizi infiocchettati e profumati di lavanda.

La prosa di questo romanzo non è accogliente, l’intimità che lo permea è urlata ma non condivisa. È un vero e proprio viaggio al cardiopalma che non lascia spazio a considerazioni mentre lo si legge. Quelle arrivano dopo, a ondate; e si fatica a tenerle a bada.

Una, nessuna o forse tutte (almeno una volta)

Sono una, il mio corpo sono due.

Ivi, p. 24

Nel paese di Ammazzati amore mio sono banditi i nomi propri. La protagonista, infatti, non cela solo il suo di nome ma estende questa atipica usanza a tutta la fauna dei personaggi e, anche in questo caso, la sensazione che ne riceve il lettore ha una duplice funzione.

Da una parte rende ancora più netta la volontà da parte dell’io narrante di prendere le distanze da se stessa e dalla sua vita; dall’altra, questo anonimato, trasforma il dolore di una sola donna in quello di tutte le donne che, anche solo per un minuto della propria vita, hanno sperimentato la sofferenza di un amore sbagliato o la rabbia per una vita che non è andata proprio secondo i programmi.

Gioghi di ruoli e veli di Maya in versione country

Lo so, lo so che il mio amore è una patologia, vorrei che mi uccidesse ora.

Ci sono molti modi, Afterhours

Come già anticipato, Ammazzati amore mio rappresenta un grido di ribellione ad uno schema culturale che si fonda su un solo aspetto di un concetto infinitamente più complesso come la maternità.

Vediamo però di analizzare ancora e scoprire come tutte le note e le armonie di cui si compone questo grido lacerante e primitivo.

Alla base della rabbia che domina la protagonista, e anima ogni parola del libro, c’è il totale rifiuto di piegarsi al sistema e annullare se stessa per poter essere solo una buona moglie e una buona madre. L’imponenza sociale di questi ruoli rappresenta una sorta di velo di Maya che impedisce, alla malcapitata donna che si nasconde sotto il peso di queste pesanti coccarde, di vedere la vera realtà delle cose.

La donna raccontata dalla penna di Ariana Harwicz fa una sua personalissima versione delle tre vie della redenzione di Schopenhauer e lacera il velo con una violenza spiazzante. A volte prova a nascondersi in registri linguistici discutibili ma l’essenza non sfugge alla potenza della penna e, quando la si trova, il personaggio esce dalla carta e diventa una persona. Diventa una donna.

Tra attimi di tenerezza sbilenca, vaneggiamenti onirici e fantasie criminali l’autrice tira fuori dal cilindro passioni e pensieri di una donna ottenebrata dal dolore, apolide nella sua stessa anima, che si arrabatta come può per rimanere viva.

La narrazione, una volta spogliata degli orpelli a sfondo sessuale, della pazzia recitata e dei vaneggiamenti a punta di coltello, mostra una persona all’affannosa ricerca di un ruolo che sia talmente definito da farle dimenticare se stessa, ma che non sia così doloroso da diventare un giogo e farla annullare completamente.

Un bestiario dell’anima


E nel mio folle desiderio, sono una mucca con la testa incastrata. E se brucio di desiderio, sono un cervo che entra nel bosco come un promesso sposo entrerebbe in chiesa

Ivi, p. 75

Immagini come quella citata qui sopra non sono affatto insolite all’interno del romanzo e meritano sicuramente una più attenta analisi.

Un esemplare di cervo

La prima cosa che salta agli occhi è che l’utilizzo dell’elemento animale viene elevato dalla funzione di espediente narrativo per diventare un vero topos letterario. Attenzione però: non lasciatevi ingannare da questa definizione e non pensate subito a uno schema narrativo che si ripete fino all’esasperazione. La presenza così massiccia di riferimenti al mondo animale ha una duplice funzione nell’economia dell’intera narrazione.

La prima è indubbiamente quella di enfatizzare la differenza tra la vita rurale che conduce la nostra protagonista con la sua vera natura di donna acculturata e laureata.

Gli uomini qui preparano l’inverno come le bestie. Niente ci distingue da loro. Io stessa, colta e laureata, sono più bestia di queste volpi, spacciate, con il muso macchiato di rosso e un palo che gli attraversa la bocca da parte a parte.

Ivi, pagina 8

Le semplici immagini di quotidianità campagnola vengono stuprate dalla rabbia che riempie la penna di Ariana Harwicz, si fondono con l’odio che lei prova per se stessa e affogano nel mare torbido della sua insoddisfazione patologica.

Per trovare la seconda funzione, invece, bisogna accantonare per un istante il sangue delle volpi, dimenticare tutte le altre simpatiche bestiole che popolano la foresta privata dell’autrice e dedicare tutta la nostra attenzione alla figura del cervo.

A salvarmi questa notte, e tutte le altre notti, non è affatto l’amore de mio uomo, o quello di mio figlio. A salvarmi stanotte è l’occhio dorato del cervo, che ancora mi guarda.

Ivi, pagina 69

Perché, tra tutti gli animali del creato, proprio il cervo? La quantità considerevole di miti e leggende che vedono questo animale ammantarsi dei significati più svariate offre spiegazioni più che valide a questa domande e potrebbero essere tutte vere ma, ancora una volta, la vera risposta va cercata nel mondo intimo della protagonista e, per lei, il cervo rappresenta tutto ciò che non è umano e che la allontana dalla sua realtà di madre e moglie.

Ritratto della Donna Cervo

Le parole che rimangono

La penna di Ariana Harwicz, fortunatamente, non è la sola ad aver delineato un ritratto alternativo della figura di madre.

In questi anni, infatti, stiamo assistendo ad una vera ondata di controtendenza che non ha paura di svelare anche i lati più dolorosi della maternità e che se ne frega del giudizio altrui anche quando parla della tragedia della morte di un figlio e della spirale di dolore che si innesca prima dell’elaborazione del lutto. State pensando a Pieces of a woman ma non vi ricordate come va a finire? Nessun problema: ne abbiamo già parlato su queste pagine, tempo fa.

Ammazzati amore mio, in conclusione, non è solo la storia di una donna nel suo anno e mezzo di disperazione dopo la nascita di suo figlio, ma è una voce che si unisce al grido di questa rivoluzione non sponsorizzata che sta cercando di mostrare al mondo una nuova declinazione della parola mamma e, con esso, un nuovo paradigma di donna che la descriva nella sua interezza e non soltanto in base alle caratteristiche biologiche che la contraddistinguono.

SL