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Dieci anni di TES V: Skyrim

Dieci anni fa usciva The Elder Scrolls V: Skyrim. Non si è soliti ricordare l’anniversario di un singolo videogioco, ma più di una saga o di una software house; eppure, questo caso è peculiare.

La longevità del titolo Bethesda, la sua importanza e ramificazione nella cultura pop è quasi leggenda ormai (o meme). Per descrivere un fenomeno così esteso e duraturo, bisogna fare qualche passo indietro e ripercorrere alcuni punti fondamentali.

Key Art di The Elder Scrolls V: Skyrim

Diciassette anni prima del volo del drago Alduin, Christopher Weaver e la sua neonata software house Bethesda presero alcuni dei titoli fantasy più in voga e influenti dell’epoca (Ultima Underworld, Might & Magic, Wizardry) e cercarono di assemblarli in un videogioco che avesse una scala estremamente più grande. Talmente grande da essere quasi impensabile.

Gli albori di TES

The Elder Scrolls: Arena (1994) si presentò certamente come strabiliante per i suoi tempi. Dava al giocatore spazi enormi, migliaia di personaggi interagibili e gigantesche città. Purtroppo cadeva nella mediocrità e nella ripetizione per colpa di sistemi abbozzati e superficiali, oltre che di dungeon monotoni. Arena era quasi un No Man’s Sky 1.0, ante litteram: un gioco impressionante e insensatamente grande, che però aveva poco da offrire oltre alle dimensioni.

Il suo sequel migliorò nettamente ogni aspetto, introducendo meccaniche procedurali innovative e lasciando ancora più libertà al giocatore. Ma puntava ancora moltissimo sulla grandezza del mondo: non per nulla la caratteristica per cui The Elder Scrolls II: Daggerfall (1996) è più famoso è l’estensione della mappa aperta percorribile, circa 160.000 km2. La più grande mai creata.

The Elder Scrolls II: Daggerfall (1996)

È qui che arriva il nodo cruciale nella maturazione, e nel consolidamento, della filosofia ludica della software house del Maryland. Al timone del terzo capitolo arriva Todd Howard, che si rivelerà essere uno dei game designer più importanti di quegli anni. Possiamo in effetti definire il lasso di tempo che va dal 2003 al 2011 il “periodo d’oro” di Bethesda, con la creazione di quattro videogiochi che influenzeranno tutto il panorama dei videogiochi open world.

Una filosofia videoludica

Howard adoperò cambiamenti concettuali per modernizzare la formula dei precedenti giochi, pur mantenendo gli stilemi della serie The Elder Scrolls. La mappe vennero drasticamente ridotte di dimensioni, ma rese più dense di luoghi, ambienti e personaggi unici e caratterizzati. Un ambiente virtuale “vivo”, ricco di stimoli esplorativi ad ogni passo.
Il videogioco doveva essere pieno, non solo vasto: fu questa nuovissima concezione di mondo aperto che sconvolse chi, nel 2003, si trovò a vagare per la Vvardenfell di The Elder Scrolls III: Morrowind.

The Elder Scrolls IV: Oblivion (2006)

Passando per The Elder Scrolls IV: Oblivion e successivamente Fallout 3, si affinò sempre più la formula che era ormai la firma dei videogiochi Bethesda. The Elder Scrolls V: Skyrim non è stato un prodotto fortuito, ma il punto di arrivo di un’idea videoludica. D’altronde è famosa per un motivo la frase di Howard: “See that mountain? You can climb It.

11-11-11

Per chi avesse seguito quel percorso gioco dopo gioco, l’annuncio di Skyrim fu un evento e tale fu anche il primo trailer, con la sua peculiare data d’uscita. Vale la pena di menzionare il trauma degli acquirenti Playstation 3, dove era quasi ingiocabile per via degli enormi bug, glitch e dell’ottimizzazione nulla.
Nel complesso non ci furono troppe lamentele, ma ancora oggi in molti ricordano i draghi che volavano in retromarcia dopo una gigantesca patch che eliminava dei bug, ma ne inseriva di nuovi: a quei tempi situazioni alla Cyberpunk 2077 su Playstation 4 e Xbox One erano molto più frequenti e accettate.
Eppure, nonostante i difetti tecnici, nel 2011 Skyrim lasciava un segno indelebile nella storia dei videogiochi.

Il finale del trailer, con la famosa data d’uscita

Come da tradizione l’opera era la quintessenza della libertà di esplorazione. Il giocatore poteva essenzialmente fare ciò che voleva e dovunque andasse, con chiunque parlasse, c’erano opportunità nuove e interessanti. La mappa, più piccola anche del precedente Oblivion, azzerava le zone vuote per far sì che ogni anfratto contenesse qualcosa: un dungeon, un eremita o un cadavere in un dirupo con il suo diario, che spiegava cosa stava facendo prima del fatale incidente.
C’era sempre un’altra caverna, un altro luogo, un altro personaggio da trovare.

Un mondo contestuale

Skyrim possedeva infatti un open world densissimo, intessuto su di una mappa varia, dettagliata e creata su misura per essere esplorata. L’infinita quantità di contenuto presente non era pensato per essere completato da cima a fondo come una scaletta, ma era inteso come un enorme insieme di possibilità che il giocatore poteva scovare. Non a caso ad inizio avventura la mappa era completamente sgombra da segnalatori di sorta; solo viaggiando o parlando con gli altri personaggi  si potevano scoprire nuove posti. Una differenza importante rispetto ai mondi aperti dello stesso periodo, che porta l’esplorazione della mappa ad essere uno dei punti principali del gioco.

Whiterun e la fortezza di Dragonsreach

Girovagando per Skyrim non si poteva fare a meno di sentirsi all’interno di un mondo fantasy corposo e dettagliato. La “società” era legata alla geopolitica, ogni città aveva i suoi problemi da risolvere, i personaggi avevano le loro routine di vita quotidiana e i loro battibecchi coi vicini. In altre parole ogni cosa era contestualizzata, rendendo il mondo “vero” e credibile. Un simulacro in cui immergersi.

Atmosfera e intuitività

Anche esteticamente, le lande di Skyrim erano incredibili. Montagne innevate, città scavate nella pietra, caverne di ghiaccio, cascate e fiumiciattoli, foreste autunnali, catacombe norrene e tundre, in un misto tra Il Signore degli Anelli e uno stile vichingo rivisitato. L’atmosfera suggestiva che veniva a crearsi, anche grazie alle maestose musiche di Jeremy Soule, era evocativa e perfetta per accompagnare i viaggi del nostro Dragonborn.

Markarth, la città nanica

Non mancarono, però, le critiche. I cambiamenti fatti al gameplay, reso più accessibile rispetto ad Oblivion, fecero storcere il naso ai fan storici della saga. Eppure era palese un miglioramento della giocabilità su tutti i fronti: Skyrim era meno macchinoso e molto più fluido, adatto ad ogni tipologia di fruitore. Tutti i sistemi di potenziamento e crescita del personaggio erano facili e intuitivi, rendendoli appaganti e interessanti.

Il punto d’arrivo

Tornando al discorso affrontato a inizio articolo, Skyrim rappresenta la fine di un percorso.
In quest’opera troviamo probabilmente l’apice del concetto iniziato con Morrowind: la grandezza spropositata non era più nella scala del gioco, ma nell’enormità di esperienze che si potevano trovare e nella densità con cui erano posizionate. Tutto era finalizzato e affinato al meglio per creare un mondo interagibile, capace di lasciare sia libero il giocatore che proporre momenti di meraviglia.

In poche parole Skyrim era iconico, diventando un cult già nel 2011.

Le pozze sulfuree dell’Eastmarch

Così cult che, dopo dieci anni, esiste ancora un discorso che lo circonda. La sua incredibile longevità è dovuta, oltre che alle infinite mod create dagli utenti, al fatto che il gioco è invecchiato discretamente bene. Ciò per cui veniva criticato, lo snellimento del gameplay, l’ha reso praticamente immortale.

Riprendendo Skyrim oggi si notano subito alcune meccaniche vetuste: le routine sono ormai superate, il combattimento è superficiale, le animazioni legnose. Eppure, nel complesso, tutto funziona bene e l’immediatezza del gameplay non respinge il giocatore; anzi, quest’ultimo verrà quasi sicuramente catturato dal mondo e dall’atmosfera unica, immutata negli anni (bug permettendo).

Un’opera intramontabile

Skyrim ha regalato qualcosa anche al videogioco moderno. È da ricordare, per esempio, la scia di giochi “norreni” che è iniziata da lì in poi. Oppure l’interesse rinnovato nel pubblico per gli action RPG (era il periodo di massima fama degli FPS). Ha esportato quella filosofia del mondo aperto già più volte menzionata, dove l’esplorazione, la densità, il sense of wonder e il contesto sono i pilastri portanti. Non è un caso se software house storiche come Obsidian abbiano prelevato questo sistema per creare i loro RPG non isometrici (Fallout New Vegas, The Outer Worlds e il prossimo Avowed), o che grandi capolavori come The Legend of Zelda: Breath of the Wild ne siano stati influenzati.

Una statua di Talos sulla costa del Mare dei Fantasmi

Nuovi videogiochi hanno già rimpiazzato Skyrim dal suo trono, è inevitabile col il passare del tempo. Anche un fenomeno che ha lasciato milioni di persone meravigliate, generando una legacy importante per il medium videoludico, prima o poi finisce. E, per chi lo vorrà, ci saranno sempre quelle atmosfere, quei luoghi, quel mondo, da vivere ancora e ancora.

Dieci anni fa usciva The Elder Scrolls V: Skyrim, un’opera che ha saputo raggiungere le ambizioni di una idea, concretizzandola al meglio possibile per la sua epoca. Celebriamolo, quindi, ancora una volta.

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