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Unpacking non è solo la storia di una vita

15 novembre 2021

Entrare in un appartamento sconosciuto significa venire a contatto con un’esistenza.
Gli oggetti che un individuo ha scelto di esporre, conservare, utilizzare, dicono molto sul suo carattere, sul suo passato e sul suo presente. Le foto di famiglia, i libri sulle mensole, persino la disposizione degli effetti personali nel bagno ci raccontano qualcosa.

Ed è proprio attorno alla dimensione del raccontare tramite le cose e la disposizione delle cose che è centrato Unpacking (2021), un piccolo gioco in Pixel Art sviluppato da Witch Beam Games.

1997. La prima stanza.

Unpacking è incredibilmente delicato. Sarà un po’ per quel mood malinconico e nostalgico, sarà un po’ perché ci pone nelle condizioni di spacchettare gli oggetti di un altro, sarà un po’ per la meravigliosa colonna sonora di Jeff Van Dyck – che ricorda quella dimensione intimistica della fanciullezza spesa con i giochi Nintendo, non a caso protagonisti in incognito del titolo  ma è in grado di accompagnarci in un viaggio anche nei nostri trascorsi.
Un viaggio parallelo a quello videoludico e che affronteremo lungo un ventennio, dal 1997 al 2018. 

In effetti, il lavoro di Witch Beam vola attraverso un periodo definito. Iniziamo arredando la stanza di una bambina, nel 1997; chiuderemo posizionando computer e vestiti di una persona adulta, nel 2018. Pienamente cosciente di chi vuole essere e delle persone di cui desidera circondarsi.
Nel mentre, c’è la vita: con le sue sfide, i suoi intoppi, i suoi alti e i suoi bassi.

Come ci ricorda l’immortale The Voice,

That’s life
That’s what all the people say
You’re riding high in April, shot down in May
But I know I’m gonna change that tune
When I’m back on top, back on top in June

Frank Sinatra, That’s Life, di Dean Kay e Kelly Gordon, 1963-1966

Eppure non è tutto qui. Unpacking non è solo emozioni a buon mercato e una parabola della crescita, ma possiede anche un uso sapiente e consapevole del linguaggio videoludico, che esprime attraverso la cosiddetta environmental storytelling (narrazione ambientale).
Facendo anche un passettino oltre.

Tra nuova geografia creativa e narrazione ambientale

[DISCLAIMER: SPOILER]

Come si è forse potuto intuire, è attraverso gli oggetti, e la collocazione degli stessi, che conosciamo la protagonista di Unpacking e ne riusciamo a vivere i cambiamenti e le evoluzioni personali. Non faremo altro che aprire scatole e posizionare ciò che troveremo nelle stesse.

Ma c’è di più: quello che immediatamente colpisce è come gli Autori abbiano scelto di far parlare le meccaniche (o meglio, la meccanica), riuscendo così a raccontare in maniera implicita.
Insomma, sembra quasi una riedizione dell’effetto Kulešov applicato al videogioco. 

Narrazione ambientale: alla protagonista di Unpacking piace Matrix.

L’effetto Kulešov (da Lev Vladimiroviç Kulešov, 1899-1970) appartiene al medium cinematografico.
Un primo piano di un attore, montato con l’immagine di un piatto di zuppa, di una tomba o di una bambina che gioca, provoca nello spettatore delle sensazioni notevolmente diverse. Attraverso un meccanismo di cognizione, stimolato dal montaggio quale elemento distintivo del Cinema, il fruitore risponde legando i tasselli e veicolando un determinato stato d’animo (cdstimolo-risposta). Il tutto senza aver bisogno di una struttura didascalica, ma solo attraverso il racconto per immagini.

Hitchcock spiega, a modo suo, l’effetto Kulešov: in alto un uomo buono, in basso un pervertito.

Per dirla con le parole di uno dei più grandi critici cinematografici italiani,

Non è la cosa in sé a dare un senso al film, ma il rapporto fra questa cosa e le altre ad essa accostate.

Giovanni Buttafava, Il cinema russo e sovietico, a cura di Fausto Malcovati, Biblioteca B&N, 2000, pag. 51.

Dall’effetto Kulešov deriva la geografia creativa: riprese effettuate in momenti diversi vengono montate insieme, dando una sensazione di continuità e sospendendo l’incredulità dello spettatore.

Allo stesso modo, i creatori di Unpacking, mediante la collocazione di alcuni oggetti in specifici posti e momenti, messi in antitesi tra loro, riescono a comunicare con il videogiocatore senza doversi spiegare espressamente. Il momento di maggiore evidenza di questo meccanismo si ha quando la ragazza inizia la prima convivenza e la sua laurea, presa con sacrificio, finisce sotto il letto del compagno.
Non è possibile spostare altri quadri per appendere al muro il titolo di studio: va lì e basta. 

Nuova geografia creativa: la laurea era nascosta vicino ai pesi nell’appartamento dell’ex fidanzato…

Il videogiocatore, però, conosce il valore di quel documento: ha vissuto, spacchettando, il tempo del college; è cosciente perfino che la protagonista abbia una certa attitudine al disegno fin da quando era bambina. L’aver messo la laurea in bella vista nel capitolo precedente (e il tornare a farlo in quello successivo), mentre è costretto a nasconderla in questo, provoca nel fruitore una sensazione di fastidio e di rigetto dell’intera relazione. Questa danza di accostamenti, insieme ad altri artifizi peculiari come il farsi letteralmente spazio tra le cose altrui, crea un feedback negativo tanto da portare qualche redattore a definire il fidanzato come uno stronzo.

Anche se l’azione presa come tale è la medesima (posizionare il quadro), lo stimolo che fornisce il gameplay suscita una risposta differente a seconda del contesto in cui la meccanica viene collocata. La contrapposizione tra l’appendere il quadro e il nascondere il quadro riesce a creare nel fruitore un processo di cognizione non dissimile a quello dell’effetto Kulešov; e non è un caso che tale processo si esplichi proprio grazie all’intervento delle strutture proprie e caratterizzanti di queste due forme d’arte, cioè il gameplay e il montaggio.

…mentre è esposta orgogliosamente in alto a destra nell’appartamento indipendente.

Unpacking non è certo il primo a utilizzare quest’effetto: basti pensare a titoli come Papers, Please (Pope, 2013) o l’italianissimo Hard Times (Preziosi, 2019), di cui pure abbiamo già discusso.

Come suggerito in apertura di paragrafo, sarebbe esiziale confondere questo fenomeno con la mera narrazione ambientale. Unpacking è pieno di oggetti che dicono qualcosa: le copertine dei libri, dei Blu-ray e dei videogiochi della protagonista, il candelabro a sette braccia; i mezzi con cui lavora, e perfino un bastone che le serve per camminare. Un conto, però, è l’ambiente; un altro sono le meccaniche. Per non confonderci, potrebbe essere utile definire l’utilizzo a titolo comunicativo delle seconde come una “nuova geografia creativa”, parafrasando proprio quella di Kulešov e continuando nel parallelismo.

Un esempio della differenza tra queste due strutture è dato dall’uso dei peluche. Durante le varie operazioni di svuotamento delle scatole nel corso degli anni, è più volte sottolineato che la protagonista sia molto affezionata al suo orsacchiotto; nel momento in cui inizia a convivere con la sua nuova ragazza, il videogiocatore non potrà che rimanere colpito dal fatto che anche la compagna ne possegga uno. In questo caso, è il pupazzetto a parlare, a comunicare che la sua attuale partner potrebbe essere la persona giusta, non le meccaniche in quanto tali: siamo nell’ambito della narrazione ambientale e non di quella che abbiamo chiamato “nuova geografia creativa”. La decisione di mettere i peluche insieme sul letto, per quanto carina, è residuale e successiva. Arriva in un secondo momento, quando la situazione è già definita.

2015. Entrambi i peluche delle ragazze sono sul loro letto matrimoniale.

A tal proposito, è molto interessante rendersi conto di come Unpacking ci porti naturalmente a controllare il trasloco non di una, ma due persone: il semplice cambio di colore delle scatole indica di chi siano gli oggetti che stiamo per sistemare. In questo caso, l’avanzamento della storia implicita conduce a un raddoppio degli oggetti da spacchettare, in antitesi a quanto accaduto in precedenza quando erano questi ultimi, insieme alle meccaniche, a fungere da apripista alla narrazione.
Un’inversione a U funzionale allo stesso ritmo del titolo.

Fenomenali poteri cosmici in un minuscolo spazio vitale

Il passaggio dal ridisporre i memorabilia della sola protagonista a farlo anche per la fidanzata è utile per svelare l’ultimo tassello di Unpacking: il videogiocatore. Che ha, infatti, potere decisionale nelle piccole stanze dove colloca gli oggetti.

Due scatole, due personaggi.

Ogni partita di Unpacking è diversa da persona a persona. Per quanto vi siano delle ristrettezze alla libertà di chi è dall’altra parte dello schermo per ragioni narrative – sottolineate in precedenza – esistono molte variabili da tenere in conto. C’è chi organizza i libri per grandezza e chi, invece, li butta un po’ a caso; chi individua degli spazi precisi per Blu-ray o videogiochi e chi, al contrario, li ammassa sulle mensole; chi dispone gli abiti ordinatamente, dividendo pantaloni e vestiti e chi, viceversa, riempie i cassetti di calzini e magliette come capita. Ancora, anche il modo di spacchettare cambia: c’è chi svuota subito la scatola per toglierla davanti al naso e chi si muove di oggetto in oggetto. Chi preferisce mettere in evidenza certe suppellettili invece di altre, e via dicendo.

Unpacking è stato definito, scherzosamente, il videogioco di Marie Kondo; ed è stimolante cercare di capire come si interfacci al titolo Witch Beam quella categoria di persone frustrata dal sistemare dopo un trasloco, e che magari trova appagante, invece, ordinare gli oggetti in un videogioco. Banalmente, il quesito è se ci sia lo stesso interesse nell’organizzare casa, nella vita reale e virtuale.

Ancora una volta, si ripropongono i grandi temi di identificazione (o di separazione) tra il  e il sé videoludico, che in questo caso arrivano perfino all’analisi dei disturbi ossessivi compulsivi (non è una battuta e nemmeno un’esagerazione). Ovviamente, la personalizzazione della partita spinge alla creazione di vari contenuti meta, con i quali possono essere condivisi e confrontati gli arredamenti.
Torna, insomma, il discorso di Kiri Miller sul turismo del videogiocatore.

Ma non è finita. Unpacking è anche una grande storia d’amore, dopotutto. E di normalizzazione di alcune tematiche, la relazione e la famiglia omosessuale, di cui si sente un gran bisogno al giorno d’oggi. Si fa carico di rappresentatività. Ci fa indossare i panni della ragazza, spingendoci a empatizzare: sul divano a guardare la TV quando fuori fa freddo, con il sogno di illustrare un libro per bambini e il plaid sulle gambe. Gli assorbenti da riporre in bagno, le foto e le calamite sul frigo per ricordarci chi siamo, i nostri affetti.

La fragilità dell’essere umani, d’altronde, si rispecchia anche nella forza di trovare il modo di uscire da situazioni complesse. Di trovare l’indipendenza dopo la fine di un amore.
Un po’ come (500) giorni insieme (Webb, 2009), Unpacking racconta di pessime fini e bellissimi inizi.
A cui possiamo assistere, con un gran sorriso in faccia e un certo calore nel cuore.

AAS


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