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Tag: 2019

ECHO: la perfezione è aliena

ECHO: la perfezione è aliena

  • Edoardo Fumo

  • 16 settembre 2022
  • noninteragire

Echo, forse per eccessiva onestà intellettuale, per meticolosità o per scherzo, esprime tutto sé stesso già nel titolo. L’eco è doppiezza e inganno: dove lo specchio riflette una nostra versione ribaltata, il suono può ammaliarci, illudendoci di sentire quello che vogliamo ma non restituendoci mai una copia perfetta. L’eco è riverbero, è increspatura, è conseguenza. Questo concetto copre tutto quello che il gioco ha da offrire, dalle meccaniche ludiche al design visivo, fino al messaggio.

La prima opera di Ultra Ultra, studio di Copenaghen composto da otto membri più due freelancer, si presenta subito pensata meticolosamente. Un qualcosa dove, per caso o per volontà, tutto si incastra al meglio delle possibilità del piccolo team che l’ha creata.

Le premesse narrative sono semplici, quasi banali, e la scommessa è evidente: prendere come spunto la branca di fantascienza esistenziale e filosofica europea trasformandola in qualcosa di ancora più conciso, coinvolgendo il giocatore in una rappresentazione solo apparentemente manichea, dove bianco e nero si alternano e si mescolano ripetutamente.

La fuga è la menzogna

[DISCLAIMER: l’articolo presenta degli spoiler, tutti espressi nella prima ora di gioco. Nell’ultimo paragrafo si fa esplicito riferimento al finale]

Interpretiamo En1, una ragazza in fuga, una creatura modificata geneticamente e mentalmente da un culto presieduto da una figura che lei chiama “Nonno”. Il Nonno altri non è che un patriarca privo di  scrupoli che crea e sceglie le varianti o, come le chiama lui, le “Risorse” più meritevoli di raggiungere il Palazzo, un luogo mitico capace di garantire la vita eterna.

En, dimostrando un libero arbitrio che non dovrebbe avere, si ribella e scappa dall’Eden artificiale creato dal Nonno scegliendo una vita di espedienti e raggiri resi facili dal suo essere ingegnerizzata, dal suo essere un individuo superiore.

Tutto cambia quando Foster2, un mercenario esperto in recuperi di ogni tipo, viene assunto per riprenderla e decide invece di sacrificarsi e permetterle ancora una volta di scappare. Questo gesto la spinge ad affrontare le proprie responsabilità spingendola verso un viaggio di cento anni nel fantomatico Palazzo, con la speranza di poter riportare in vita l’unica persona che le abbia dimostrato compassione. Qui la prima bugia, o forse sarebbe più appropriato definirla distorsione. En è pienamente consapevole che così facendo non stia facendo altro che assolvere il compito per cui è stata concepita, e che le sue capacità manipolatorie abbiano convinto Foster a salvarla; eppure, ridare la vita a un individuo che non sia il patriarca, è il massimo gesto di ribellione che può permettersi.

“En”, Enki Bilal, 2017.

Fearful simmetry

Il Palazzo si scoprirà essere un intero pianeta, completamente modellato su una struttura perfetta come un cristallo. Le contraddizioni però continuano a succedersi. Il pianeta non è infatti che un guscio vuoto secondo London, l’intelligenza artificiale della nave di Foster che per tutto il gioco farà da contraltare emozionale, pur nella sua estrema logicità, al pragmatismo inumano di En.

Le costruzioni di cui è composto stanno lentamente cadendo in pezzi, quasi a voler mostrare che un Paradiso è inutile senza nessuno che lo abiti o che tutto, compresa la speranza, è soggetto a senescenza

“Echo”, Nihei Tsutomu, 2017.

En si fa strada tra gli strati superiori degli edifici in un mondo che strizza l’occhio alle superstrutture di Nihei Tsutomu e del suo “Blame!”, fino a quando non riesce a entrare in uno di essi trovandosi in una perversa rivisitazione del neoclassicismo. Il contesto è simile a un libero di “Metal Hurlant”3, una breve storia a fumetti che in poche pagine creava universi credibili a completa disposizione dell’osservatore.
Lo stesso design dei personaggi e degli elementi sci-fi ricordano tanto Enki Bilal quanto Gimenez e i suoi Metabaroni. Le stanze sono perfettamente e spaventosamente simmetriche, infinite. Echo riesce a rendere alieni elementi a noi comuni, come vasi o tavoli, inserendoli in un contesto incomprensibile.

Presto si intuisce che il Palazzo cerca di creare un ambiente tanto accogliente quanto repulsivo nei confronti del suo ospite. L’intelligenza che ne decide le azioni, di cui poco sapremo pur riuscendo a raccogliere vari collezionabili (ovviamente audio, ché l’occhio è ingannatore), e che ne illustreranno la storia, è simile a quella di una pianta carnivora o di qualsiasi altro organismo che imiti un ambiente familiare per ingannare la sua vittima.

“Guarda, ho creato dei fiori per te. Non ti piacciono?”

Poco dopo averne varcato le soglie il Palazzo metterà in campo la sua difesa finale, l’idea trasfigurante tanto a livello di gameplay quanto narrativo. Dopo aver appreso abbastanza informazioni su En inizierà a creare dei suoi cloni, gli Echo del titolo, che agiranno in base alle azioni che noi stessi compieremo.

Ogni gesto, che sia aprire una porta, usare un ascensore, nascondersi fino alle più offensive come stordire o sparare saranno da essi memorizzate. Come, del resto, risulteranno liberi di usare le nostre stesse mosse per difendersi e attaccare, trasformando quello che all’apparenza sembra un banale stealth in un puzzle ambientale. Un gioco di scacchi dove i neri muovono contemporaneamente contro altri neri e dove l’avversario non siamo altri che noi stessi.

fra le mute tombe del monumentale,
non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità.

Baustelle, Monumentale dall’album Fantasma, 2013

Questo meccanismo di apprendimento è regolato da quello che, narrativamente, viene giustificato come un malfunzionamento del sistema di difesa. Imparate un certo numero di mosse, il Palazzo resetterà il ciclo “spegnendosi”: ci renderà, cioè, liberi di comportarci come vogliamo nelle fasi di buio, presentandoci il conto con la successiva fase di luce, dove gli Echo ricorderanno tutto quello che avremo fatto. Questo concetto, all’apparenza semplice, genera tutto l’insieme di considerazioni, afferenti sia al ludico che ad ampio spettro.

“Posso lasciarti un opuscolo che parla di Dio?”

Sarebbe semplice, in un’orgia iconologica alla Panofsky, inserire nell’opera tutti i riferimenti psicologici e religiosi che una natura dualistica di questo tipo giustificherebbe: l’archetipo dell’ombra di Jung, cioè la somma delle caratteristiche personali che l’individuo vuole nascondere agli altri e a sé stesso perché lo porterebbe a commettere azioni malvagie4. Il Samsara induista, l’eterna ruota di morte e rinascita causata dal dolore subito e ricevuto, nell’illusione del Maya; altro non sarebbe che il Palazzo stesso. Per non parlare del karma, volendo restare a oriente, o di penitenza, espiazione per tornare a riferimenti culturali a noi più vicini.

Il Palazzo è Dio, come si ostina a credere il Nonno, perché genera e ridà la vita. Il Palazzo è il destino, come desidera con tutta sé stessa En, perché è la sua ultima speranza di salvezza e riscatto e l’ultimo posto in cui può mostrarsi come gli altri vorrebbero che fosse. Il Palazzo è l’alieno, è l’incomprensibile, è un’intelligenza che sempre è stata e sempre sarà.

Lo stile neoclassico che lo caratterizza non è un caso. Echo racconta il suo falso dualismo attraverso tutta l’architettura Illuminista: quindi troviamo le “Carceri di Invenzione” di Piranesi, che simboleggiano l’essere eterni prigionieri; in più, quell’aggiunta di Panopticon perfezionato dall’essere noi stessi i nostri carcerieri, fino ad arrivare a Boulée e al suo culto divino.

“Carceri VII”, Giovanni Batista Piranesi (o Nihei Tsutomu), 1760.

Come scrivono Rabreau e Morin,

I suoi progetti per edifici religiosi, metropoli, templi, chiese riflettono le nuove forme di religiosità che si manifestarono con lo spirito dell’Illuminismo, il culto della Natura o dell’Essere Supremo, il culto della Ragione Scientifica e dei Grandi Uomini, la religione civile, il misticismo massonico, eccetera. Tutte queste tendenze si compenetrano in una pseudo-religione inventata dall’architetto. L’architettura sacra di Boullée illustra il suo desiderio di applicare la sua concezione del progresso sociale alla religione.

Cos’è se non la sintesi di ciò che sia En che il Nonno credono, rivelandosi così l’una fin troppo simile all’altro?

“Projet de cathédrale métropolitaine en forme de croix grecque avec un centre bombé”, Étienne-Louis Boullée, 1782.

Echo è però grande fantascienza, e per quanto ci permetta di vagare con la mente in cerca di teorie, in parte auto assolutorie, ci mette di fronte al semplice fatto compiuto: non siamo che il risultato delle azioni compiute da noi stessi e dell’ambiente in cui siamo vissuti. L’eco non è uno specchio, non stiamo osservando una versione rovesciata di noi stessi da cui possiamo distogliere lo sguardo quando la vista ci diventa insostenibile.

L’eco è quel riverbero che continueremo costantemente a sentire e che ci ricorderà ciò che abbiamo fatto nelle e delle nostre vite, così come En si dimostra schiava di quella che dovrebbe essere la sua maggiore libertà e cioè la possibilità di scelta. 

Così parlò Zarathustra

Per quanto l’opera parta da presupposti piuttosto meccanicisti e nichilisti, alla fine lascia un messaggio di speranza. Pure se intrappolati in una ricerca che non avrà mai fine né risposte, possiamo scegliere in ogni momento di compiere qualcosa che ci rappresenti davvero. Qualcuno la interpreterà come trascendenza, qualcun altro come spinta biologica che ci porta a voler continuare a esistere nel ricordo di altri, come meme kojimiani.

“Cattedrale Spaziale”, Ultra Ultra, 2017.

La decisione presa da En alla fine del gioco, il suo sacrificarsi per ridare la vita a Foster, può essere sì vista come la massima espressione di sé stessi ma è anche voglia di spezzare il cerchio, con un ultimo rimando citazionista a “2001: Odissea nello spazio” (Kubrick, 1968). En decide di non trasformarsi in un essere divino, e nessuno suonerà “Also sprach Zarathustra Op. 30” per lei.

Resta però il sottile dubbio che gli autori, fedeli al loro assunto iniziale, lo considerino comunque un gesto controverso e in parte egoista.
Resuscitare un povero Cristo, letteralmente, a duecento anni di distanza dalla sua vita precedente per un proprio desiderio di espiazione: bene ma non benissimo.

Echo non è perfetto nell’esecuzione ma lo è nel suo essere compiuto; in effetti, il suo difetto più grande è che sia l’unico gioco di Ultra Ultra, che ha chiuso nel 2019. Uno studio che con pochissime risorse, un unico modello poligonale e un talento purissimo nel rappresentare un inconcepibile infinito attraverso il copy and paste di una generica libreria di elementi grafici, ha cercato, ed è in parte riuscito, a porre profonde domande esistenziali.

EF


NOTE:

1 “En” in svedese significa uno. Ogni elemento in Echo ha un suo peso sia narrativo che esperienziale.

2 Letteralmente “l’adottante”.

3 Metal Hurlant fu una rivista francese dedicata alla fantascienza al fantasy nata nel 1975 per volontà di Jean Giraud e Philippe Druillet. Ebbe anche una versione americana conosciuta come Heavy Metal e fu pubblicata per un breve periodo anche in Italia.

4 “Il libro rosso. Liber Novus” di Carl Gustave Jung, traduzione di Anna Maria Massimiello, Bollati Boringhieri 2012.


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Outer Wilds e la conoscenza come progressione

Outer Wilds e la conoscenza come progressione

  • Vito Carluccio

  • 23 luglio 2021
  • noninteragire

[DISCLAIMER: Siamo consapevoli del fatto che Outer Wilds sia un titolo poco conosciuto, pertanto riteniamo necessario spendere qualche riga per presentarlo. Chi lo avesse già giocato o chi conoscesse il titolo può direttamente saltare al secondo paragrafo.]

Categorizzare un gioco come Outer Wilds è difficile. Partendo dalla banale definizione di wikipedia si potrebbe ritenere un Action-adventure open world; all’atto pratico, però, è molto più vicino ad puzzle game esplorativo.
Il gioco ci chiederà di esplorare diversi pianeti, studiare la loro conformazioni e le antiche rovine presenti per risolvere un grande mistero. Come in No Man’s Sky i viaggi spaziali sono importanti ma il fulcro dell’esperienza è da ricercare nell’esplorazione dei diversi mondi e nella risoluzione di un oscuro mistero che coinvolge la fine dell’universo stesso.

L’esplorazione dello spazio è molto più contenuta rispetto a No Man’s Sky. Impareremo a conoscere il nostro sistema solare dopo poche ore di esplorazione.

Chi siamo, da dove veniamo e…

Il giocatore è chiamato ad interpretare un alieno che abita un piccolo pianeta insieme alla sua specie. Questa particolare razza denominata “Hearthiani” è specializzata nell’esplorazione dello spazio e degli altri pianeti, alla ricerca di antichi manufatti e monumenti Nomai, una razza di precursori tecnologicamente molto avanzata, ormai estinta.

Non appena avviato il titolo ci ritroveremo sdraiati accanto ad un fuoco, il nostro compagno di campeggio ci dirà che il grande giorno è giunto: siamo pronti per il primo decollo verso lo spazio, dobbiamo solo recuperare i codici di lancio. Nessun dialogo è obbligatorio al di fuori di quello iniziale, l’universo è nelle nostre mani fin da subito. Recuperati i codici non dobbiamo far altro che salire sulla nostra navicella ed esplorare.

Il nostro pianeta Natale ci fa da tutorial, ma niente ci vieta di salire subito a bordo della navicella e partire.

…dove siamo diretti

Come abbiamo spiegato poco sopra, il giocatore interpreta un astronauta alla ricerca di vecchi manufatti e monumenti. La nostra missione, detta cosi, potrebbe sembrare alquanto tranquilla e lineare, magari anche poco avvincente. Ma dopo pochissimo tempo ci renderemo conto che la nostra direzione non è cosi scontata come sembra. Una volta fuori dal nostro pianeta natale scopriremo un sistema solare instabile, vicino al collasso. I diversi pianeti che orbitano intorno al sole sono, chi più chi meno, tempestate da catastrofi naturali e non; il nostro compito sarà scoprire cosa sta succedendo al nostro sistema solare e cercare un modo per impedire la distruzione dell’universo.
Inevitabilmente moriremo molte volte, ma la morte non è solo che l’inizio di questa meravigliosa e a tratti terrificante avventura.

Alcuni esseri sono bellissimi da vedere grazie anche alle loro movenze.

Ricomincio da capo, il game over non esiste.

Ogniqualvolta un asteroide ci colpirà, un vulcano ci scioglierà completamente o il nostro ossigeno finirà, moriremo. Ma con la morte non ci sarà una schermata di game over ad accoglierci, bensì un nuovo risveglio affianco al fuoco proprio come quello che abbiamo avuto appena avviato il titolo la prima volta. Siamo in un loop, immortali ma intrappolati nello stesso identico giorno. Ogni volta ci risveglieremo sotto le stelle e ricominceremo la nostra esplorazione dello spazio come se fosse la prima volta, proprio con Bill Murray in Ricomincio da capo (Groundhog Day del 1993).

Il loop è parte centrale del mistero dell’universo, dell’antica razza Nomai e delle catastrofi che affliggono i pianeti, ma non solo. Questa anomalia temporale è anche la principale colonna che regge il magnifico game design messo in piedi da Mobius Digital.

Dopo ogni morte, anche la più terribile, ritorneremo al falò iniziale. In compagnia del nostro amico Slate.

Il loop presente in Outer Wilds è particolarmente interessante per via della completa mancanza di accumulo che ha il titolo: niente punti esperienza, monete di gioco, armi o strumenti da cercare e collezionare. Non c’è nulla di tutto ciò. Il giocatore viene munito di pochi strumenti subito, e quegli strumenti resteranno con noi per tutto il tempo senza subire upgrade e senza aggiungerne altri. Ogni volta che moriremo ritorneremo esattamente all’inizio del gioco, e tutto quello che avremo fatto o raccolto tornerà al suo posto: reset completo.

Questa particolare scelta di game design ci permette di svincolarci dalla ricerca di loot o upgrade di sorta e ci spinge verso l’esplorazione più pura: pochi strumenti e tanta ricerca.

Dall’inizio alla fine avremo sempre gli stessi strumenti, imparare ad utilizzarli è fondamentale per ottimizzare l’esplorazione.

La conoscenza è la chiave della progressione

Come avrete ben capito Outer Wilds non presenta nessuna forma di accumulo, non ci sono nemmeno abilità da sbloccare. Dall’inizio alla fine il nostro avatar avrà sempre le stesse capacità e strumentazioni. Come si progredisce nella storia allora? Beh, l’unico strumento che effettivamente ottiene una progressione è la nostra mente, ovvero la conoscenza che acquisiamo man mano che esploriamo e sperimentiamo (oltre che la nostra capacità di ottimizzare la navigazione tramite la navicella o l’utilizzo efficiente degli strumenti).

Durante i nostri viaggi potremmo incappare in delle rovine Nomai e studiandole con il nostro traduttore potremmo apprendere che quel luogo un tempo era utilizzato per tracciare una luna che di tanto in tanto scompare. Eccoci qui a smanettare con la tecnologia aliena pronti a risalire alla fonte del loop e perché no, al più grande mistero del mondo: “L’occhio dell’universo”.

Il traduttore ci permette di studiare a fondo la civiltà Nomai per scoprire i loro segreti e obiettivi.

Il gameplay di Outer Wilds è molto razionale: come sostenevamo in apertura, di fatto si tratta di un puzzle game molto complesso, pieno di variabili e di sistemi che vanno prima studiati, compresi e poi usati e manipolati.

Nelle prime fasi si potrebbe rimanere sbigottiti e spiazzati di fronte alle anomalie della fisica quantistica. Ma studiandone i comportamenti, sia in modo empirico che in modo diretto dalle rovine Nomai, inizieremo a comprenderne il funzionamento e a manipolare queste reazioni per continuare ad esplorare.

I buchi bianchi di Rovo Oscuro richiedono sperimentazione empirica per riuscire a comprendere il funzionamento.

L’universo è vivo, si muove: i pianeti compiono le loro rotazioni in modo realistico e le lune che vi orbitano attorno possono alterare i pianeti stessi (proprio come fa la nostra luna con la Terra). La gravità varia da pianeta in pianeta e con essa anche la modalità di esplorazione (un pianeta con alta gravità ci costringe a cercare percorsi di scalata anziché compiere salti molto alti per superare gli ostacoli).

C’è un pianeta ricoperto d’acqua e dilaniato dagli uragani, un altro letteralmente bombardato da mini-asteroidi provenienti dalla luna vicina, un altro ancora che viene ricoperto di sabbia col tempo… tutto è in costante mutamento. Diventa quindi fondamentale agire in modo tempestivo, è importante trovarsi in un determinato punto ad una determinata ora per poter scoprire qualche rovina, o magari un ingresso di una città fantasma sotterranea. Esiste sempre la possibilità di mancare il momento giusto e perdere l’occasione di scoprire qualche punto di interesse, o magari ci schianteremo nel tentativo di raggiungere un’antica tecnologia. In questi casi, è il loop a venire in nostro soccorso: alla prossima morte potremo riprovare e riprovare, imparando dai nostri errori, affinando le nostre abilità e ampliando le nostre conoscenze. In questo aiuta molto la dimensioni ridotta dell’intero universo, navigabile in pochi minuti, soprattutto per i piloti più esperti.

Il mistero della vita, l’orrore cosmico e la fisica quantistica

Spoilerare Outer Wilds sarebbe un delitto terribile:ci farebbe troppo male sapere di aver privato o rovinato le sensazioni che riesce a trasmettere un’intuizione giusta, un pezzo del puzzle perfettamente incastrato. Parlare dei temi che affronta è complicato, lo faremo senza scendere nel dettaglio ma piuttosto spiegandone il mood e alcune situazioni decontestualizzate.

Come abbiamo detto, l’esplorazione dell’universo può essere molto veloce, se si è esperti e informati, ma la scoperta e lo studio di esso è quanto di più vicino a 2001: Odissea nello Spazio, quanto meno nei momenti finali del film o quando entra in scena il misterioso monolite. Il gioco è ricco di momenti inquietanti di difficile comprensione, accompagnati da musiche sempre calzanti e misteriose. Il primo incontro con la roccia quantica ci riporta lo straniamento provato ammirando il monoliti di Kubrickiana memoria, la tensione è alta e la comprensione delle leggi fisiche che regolano il suo comportamento è sfuggente nelle prime battute.

Siamo sicuri che il comportamento bizzarro della roccia quantica farà uscire di testa più di qualcuno. Va studiata!

L’esplorazione dell’universo ci porterà presto a capire che c’è un piano superiore che collega ed intreccia i Nomai, il loop e la creazione dell’universo stesso. Troveremo diverse informazioni riguardo a questo “Occhio dell’universo” e studiarne le relazioni ed i legami che ha con quanto sta succedendo è affascinante quanto terrificante, ineffabili quanto gli esseri partoriti da H.P. Lovecraft.

Le frequenze e le note musicali giocano un ruolo importante, sia come guida nel vuoto dell’universo che come panacea utile a stemperare la tensione. È come se la musica fosse una costante anche attraverso i diversi piani dimensionali, giungendo fino ad un valore creazionistico così come nell’universo creato da Tolkien, ma meglio non andare oltre.

Ogni personaggio principale possiede un strumento musicale e può diventare un punto di riferimento durante l’esplorazioni, basta puntare il microfono direzionale per provare ad orientarsi.

La fisica quantistica che regola molte situazioni, oggetti, momenti e pianeti è difficile da comprendere e complessa da manipolare. Ci sono rocce che scompaiono non appena giriamo lo sguardo e interi luoghi visibili e visitabili solo e soltanto dopo aver compreso il funzionamento della materia quantica. I Nomai sono spariti dall’universo ma si sono lasciati dietro tecnologie, studi, laboratori e città che nascondono misteri pronti per essere svelati.

Io ne ho viste di cose…

Outer Wilds è un tripudio di emozioni, si passa dal sense of wonder più tipico delle space opera alla dolcezza di alcuni momenti rilassati, dallo sgomento provato la prima volta che si ammira l’esplosione di un corpo celeste al terrore cosmico provocato da luoghi impossibili e indecifrabili.

L’impatto visivo del titolo sorprende per direzione artistica più che per potenza grafica. Gli effetti particellari sono curatissimi e l’illuminazione dinamica provocata dalla rotazione dei pianeti intorno al sole può regalare dei momenti di contemplazione unici.

I pianeti sono molto variegati, letali e bellissimi da vedere.

Outer Wilds è un piccolo grande gioiello venuto dallo spazio che ci racconta l’universo con delicatezza e sostanza. Questo è un titolo che mette alla prova la mente e l’intelletto del giocatore prima ancora che le abilità e la capacità di accumulare. Il premio però non è il solito loot, il numerino che cresce o le monete in game. Giocare e completare Outer Wilds restituisce emozioni, esperienze e situazioni che in nessun altro media potremmo mai vivere.

Vivendo ed esplorando questo splendido gioco, forse potremmo sentirci più vicini al povero Roy Betty (Blade Runner, 1982) e anche noi potremmo dire:

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
i gemelli clessidra che danzano connessi dalla sabbia intorno al sole,
e ho visto i buchi bianchi di Rovo Oscuro, cosi piccoli eppure così immensi.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo di giocare.”

Outer Wilds typical player

VC


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