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Chibi-Robo e la non violenza nei videogiochi

Fin dagli albori del medium, uno degli obiettivi più popolari e diffusi nei videogiochi è stata la prevaricazione o la distruzione fisica di un qualsivoglia avversario o antagonista, diffusa in così tanti generi e contesti diversi da rendere una constatazione così elementare quasi nebulosa col passare del tempo.

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The Last Express: plus ça change…

Parigi, primi anni novanta. Un giovane newyorkese si gode un periodo sabbatico studiando cinema, girando documentari e innamorandosi dell’Europa. Un’amica e collega, raggiungendolo dopo un viaggio notturno in treno da Berlino, interrompe il suo idillio con queste parole.

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NORCO: un “petroleum blues” tra psicogeografia e letteratura

Con sempre maggiore frequenza giornalisti, creator e critici tendono a comparare con troppa facilità e immediatezza i videogiochi che analizzano. Se questo atteggiamento da un lato è comprensibile, data la mole di contenuti che esce periodicamente, si rischia però di fare un torto a quei titoli che solo in apparenza e a uno sguardo superficiale paiono riprendere esperienze simili.

NORCO ne è il classico esempio. Subito paragonato a Disco Elysium e a Kentuky Route Zero, è stato solo scalfito da quell’approfondimento critico che, da opera unica nel suo genere, meriterebbe. Come Elden Ring ha rivisitato il romanticismo e portato il Sublime nel medium, NORCO incorpora con estrema naturalezza generi letterari ben codificati riuscendo a rielaborarli come nuova fonte di ispirazione. Non solo raccontando una storia di grande attualità politica attraverso un percorso di crescita sia umana che di consapevolezza, ma anche seguendo una tendenza di graduale distacco dal cinema come linguaggio, che per troppo tempo ha condizionato in modo esclusivo il videogioco.

Creative Energy: The Rhythm of Louisiana” – Shell Oil Company

There was no such thing as silence. The noise never went away. The refinery exhaled an endless sigh.

Per capire NORCO bisogna prima di tutto conoscere Norco, Louisiana. Si tratta di una comunità suburbana sorta ai confini della New Orleans Refining Company e da cui prende il nome. I suoi abitanti sono operai della Shell, proprietaria della raffineria che si estende per chilometri, lavoratori dell’indotto ma soprattutto “Fenceline peoples” cioè persone che vivono nei pressi di pericolosi complessi industriali per indigenza e che vengono in qualche modo sfruttati per mantenere bassi i costi dei terreni, permettendo così alle aziende stesse di avere delle opzioni di acquisto soddisfacenti qualora avessero bisogno di espandersi1.
Aree di questo tipo sono come Stati all’interno di Stati dove i servizi, compresi quelli di sicurezza, sono spesso forniti esclusivamente dalle multinazionali di riferimento.

In questo contesto nasce Yuts, lead e game designer del gioco. Originario proprio di Norco, dopo un periodo di attivismo legato a un movimento di giustizia abitativa post uragano Katrina si laurea in “Urban and regional planning”, con una tesi sul sistema di “città petrolifere” parallele sorte in Louisiana. Comincia a lavorare per il G.I.S di New Orleans, un dipartimento dedicato alla ricerca storico-geografica atto a tracciare i cambiamenti territoriali in seguito all’antropizzazione e contestualmente forma un collettivo artistico, Geography Of Robots, per utilizzare questi dati in varie installazioni.

Presto Yuts si rende conto che il materiale prodotto non lo soddisfa, lo considera didascalico, ma sente l’esigenza di condividere l’incredibile ecosistema in cui vive2 e decide di usare il videogioco per porre questa domanda: cosa significa amare un territorio che sta pianificando la propria distruzione?

Refinery Eyes

“You thought the ghosts of the lowlands wouldn’t find you hiding along the road.”

In un 2017 distopico, Kay torna a Norco dopo aver scoperto la morte della madre Catherine, deceduta per colpa di un tumore legato con altissima probabilità al forte inquinamento della zona3. Ha girato gli Stati Uniti per trovare se stessa, periodo descritto in poche ma talmente incisive righe da valere tomi di world building (che non a caso ricordano le prime battute di “1997: Escape From New York”, battute che hanno ispirato William Gibson, uno degli autori preferiti di Yuts, nella sua visione autoriale).

Suo fratello Blake, unico familiare rimastole essendo orfana anche del padre Blue perché scomparso in un’esplosione avvenuta alla Raffineria nel 19884, è introvabile. Comincia così, con una classica e pretestuosa ricerca, un carosello di personaggi e situazioni talmente irrazionali dall’essere reali, o almeno reali come lo sono nei ricordi degli sviluppatori. È lodevole come ogni tematica trovi riscontro in ognuno di essi, riuscendo a contestualizzare una storia sì fantastica ma dolorosamente “normale”.

Il 2017 di NORCO ha poche differenze con il nostro, con degli elementi Cyberpunk che rendono finalmente giustizia non solo al genere ma al movimento, cioè una convivenza forzata tra uomo e tecnologia vecchia e nuova da parte di chi non se la può permettere ma che non può farne a meno, e non dalla quantità di led messi a schermo.

L’esempio più calzante è Million5, ex androide di sicurezza della Shield Company (l’equivalente Shell di questo mondo), ospitata e tenuta al sicuro da Catherine qualche anno prima e intenta a riparare un pickup degli anni novanta. O i richiami alla gig economy, alla bolla delle crypto e al riversamento di coscienze umane come costrutti per intelligenze artificiali, funestate però da una serie di pop-up pubblicitari e da funzionalità limitate a seconda del piano di abbonamento pre morte sottoscritto.

Forte anche l’accostamento a Jaques Derrida, per il quale

l’insegna suprema del potere è il potere di vedere senza essere visti.

Jaques Derrida, “Spectres de Marx”, 1993; trad. it. di G. Chiurazzi, “Spettri di Marx”, Cortina, Milano 1994

e nello Stato tecno-capitalista Shield si vive alla mercé di forze invisibili al di fuori del proprio controllo, non solo umane.

Southern Gothic

“You wonder if such memories hide behind her constellation of eyes”

Oltre a queste contaminazioni e per rimarcare la propria appartenenza a uno specifico territorio, Geography Of Robots decide di utilizzare gli stilemi della letteratura “Southern Gothic” per raccontare la mitologia nascosta tra le nebbie dei bayou. Questo genere letterario ha origini importanti, riconducibili a William Faulkner e ai suoi scritti ambientati nella fantastica Contea di Yoknapatawpha ed è molto affine al realismo magico sudamericano.

Si tratta di lavori che hanno una forte caratterizzazione legata agli ambienti che poi si risolvono con interventi spesso mitici o fantastici, nel caso specifico con l’Hodoo ovvero una religione sincretica che unisce Cristianesimo, Islamismo e Animismo africano con lo spiritualismo autoctono.

Catabasi

Se la ricerca di Kay è un pretesto per rivivere la propria infanzia e cristallizzare nel tempo personaggi e situazioni care a Yuts, così come si era prefissato con l’inizio del progetto GoR, la sua risoluzione lo porta inevitabilmente a scavare nel presente della comunità e a porsi domande su capitalismo e ambientalismo.

Ispiratosi già ai tempi della tesi all’ecologista marxista Mike Davis, il giudizio espresso è molto vicino a quello del suo mentore e ripetuto in varie forme durante tutta l’esperienza di gioco. Nel 1992 in “City of Quartz”, due anni prima le rivolte di Los Angeles per Rodney King e anticipando di decenni le banlieue parigine, Davis descrive come le città e più in generale i siti economicamente rilevanti non siano altro che prigioni post-liberali, con piani di urbanizzazione controllati da pochi per i pochi (come già visto nei richiami a Derrida).

In una delle sue ultime interviste si esprimeva così:

I’m a wild, extreme leftist, but to me it’s clear that global capitalism can no longer guarantee the survival of the human race, in three ways, […] It can’t generate jobs. It cannot guarantee the public health of the world. And it cannot decarbonize the economy or transfer the resources to adapt the countries that bear the brunt of greenhouse gases. […] This seems an age of catastrophe, but it’s also an age equipped, in an abstract sense, with all the tools it needs. Utopia is available to us. If, like me, you lived through the civil-rights movement, the antiwar movement, you can never discard hope. I’ve seen social miracles in my life, ones that have stunned me—the courageousness of ordinary people in a struggle. Eleven years ago, Bill Moyers brought me on his show and presented me as the last socialist in America. Now there are millions of young people who prefer socialism to capitalism.

Dana Goodyear, “Mike Davis in the Age of Catastrophe“, The New Yorker, 24 Aprile 2020

Per questo motivo una storia famigliare si trasforma in una storia di ribellione a un “sistema-ambiente” da troppo tempo controllato da colletti bianchi che sono loro stessi vittime di un meccanismo collassato, con individui che praticano atti sovversivi e sabotaggi considerati quasi etici come unica risposta a un’alienazione che ha portato al disfacimento di ogni rapporto umano per colpa del capitale e della “white supremacy”.

“This algorithm is the poetry of capital: we require semiotic weapons.”

Con una maturità inusuale, Yuts non si limita però solo a questo, ma analizza anche la posizione anarco-nichilista che hanno molti degli abitanti di Norco. Paragonandoli ai sopravvissuti all’olocausto pone ai suoi personaggi la proverbiale domanda: ”Perché vi siete fatti condurre al massacro senza ribellarvi?”. E per caratterizzazione non sarebbe strano sentire Le Blanc, un investigatore privato con la passione per la clownerie che aiuta la protagonista e che per la natura della sua professione conosce benissimo tutto l’ethos del territorio, rispondere come Sopinsky nel suo “Blessed is The Flame”:

Sebbene abbiamo ereditato molte idee su come affrontare il dominio, sappiamo che nulla è scolpito nella pietra. Dagli strumenti e dalle ossa frantumate dei nostri predecessori, creiamo le nostre armi. Niente è garantito per funzionare, eppure attacchiamo a prescindere. Lo facciamo nudi, dopo aver gettato gli stracci della morale, dell’ideologia e della politica che si erano accumulati nel tempo. Affrontiamo questo mondo crudo, in tutta la sua orribile gloria. Neghiamo ogni verità e regola e procediamo con spirito di sperimentazione incendiaria. Sogniamo in grande, ci aspettiamo poco e celebriamo ogni momento di rottura. Cogliamo ogni opportunità per garantire che chi è al potere perda il sonno e che i suoi funzionari abbiano lavori miserabili. Dedichiamo le nostre vite a strappare i gerani che fiancheggiano i sentieri del campo di sterminio, a pisciare negli ingranaggi dei macchinari della società, e quando tutto il resto fallirà, seguiremo le orme di coloro che hanno trascorso i loro ultimi minuti nelle camere a gas cantando e scopando.

Che il godimento sia la fiamma benedetta che ci guida nel vuoto.

Sopinski, “Blessed Is the Flame: An Introduction to Concentration Camp Resistance and Anarcho Nihilism”, Public Domain Mark 1.0, citazione tradotta dal redattore

Anabasi

[DISCLAIMER: da qui in poi ci saranno alcuni SPOILER sul finale]

Dopo essere quindi sceso nuovamente all’inferno, Yuts è pronto a risalire grazie all’Hoodoo, al mistico e nello specifico grazie a un Ophanim, una ruota celeste o angelica che in alcuni libri dei Profeti trasportano il carro di Dio.

Sarà proprio l’apparente connessione con questa entità, forse dovuta all’essere dirette discendenti di Gesù Cristo, a spingere Catherine prima e Kay dopo a una scelta, ovvero se abbandonare questo piano terreno ascendendo tramite un razzo [sic] o continuare una (r)esistenza a oltranza. Le due donne però sono molto diverse, come a sottolineare un inevitabile distacco generazionale. Se Cat è mossa dal bisogno di lasciare un’eredità, Kay deve ancora capire chi è e abbandona NORCO, o ciò che ne resta, nella bruma mistica e sognante della palude.

“You start toward the refinery that burns on the horizon.”

Anche in questo caso ci sono molte citazioni legate all’infanzia dell’autore e a una scrittrice in particolare, Octavia E. Butler, che nel suo “Ciclo delle Parabole”6 racconta la storia di una ragazza che in seguito a un’apocalisse ambientale guida un gruppo di sopravvissuti dal sud degli Stati Uniti verso un futuro extraterrestre, mossa da una iper-empatia quasi messianica in pieno stile Southern Gothic.

NORCO è quindi tre storie in una: quella di un autore che volendo illustrare uno specifico momento del suo passato si rende conto che è impossibile, finendo invece per fotografare lo stato attuale delle cose. Quella di una comunità che è quasi inevitabilmente destinata a scomparire per colpa di poteri troppo radicati, poteri a loro volta giunti a una prossima decadenza. Ed è la storia di una famiglia perduta e ritrovata, che fa da collante politico in quanto sottolinea il riscatto attraverso la discendenza e le radici, così come fa la natura stessa del bayou tramite l’esistenza di forme di vita che si innestano su ciò che muta continuamente.

Luca 8, 17

Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce

Dal Vangelo di Luca, capitolo 8 versetto 17, C.E.I/Gerusalemme

La spiritualità contro un totalitario sistema economico disumanizzante, l’importanza di essere comunità. Questo è ciò che tiene insieme un gioco che, purtroppo, paga lo scotto di essere nato inizialmente come altro ed è, per quanto graziato da una bellissima pixel art, abbozzato e imperfetto in diverse sue parti. Però pochi prodotti di intrattenimento al giorno d’oggi offrono una così chiara visione politica: basti pensare al pur incensato Citizen Sleeper, che vorrebbe affrontare tematiche simili ma riesce appena a scalfirle, e tanto basta per renderlo degno di essere giocato e approfondito.

Sperando, in qualche forma, di ritrovare noi stessi.

EF

Si ringrazia Francesco Farina per la consulenza sull’Ophanim e per il contributo generale.

1 Rachel Massey, “Environmental Justice: Income, Race, and Health“, Tufts University Global Development and Environment Institute, 2014.

2 Marisa Clogher, “No Place Like Home a Q&A with Norco’s Yuts“, Antigravity, ottobre 2021.

3 Enviromental Racism in Death Alley, Louisiana“, Forensic Architecture, 28 giugno 2021.

4 Qui il gioco fa un riferimento all’incidente avvenuto all’impianto nel 1988 “canonico”, incidente in cui persero la vita sette persone e al quale assistette lo stesso Yuts. “Inspection: 100478866 – Shell Oil Company“, United States Department Of Labor.

5 Come Molly Million, coprotagonista del racconto Johnny Mnemonic di William Gibson.

6 “Parable of the Sower”, Four Walls Eight Windows, 1993; “La parabola del seminatore”, trad. it. Anna Polo, Solaria 4, Fanucci Editore, 2000.
Parable of the Talents”, Seven Stories Press, 1998;” La parabola dei talenti”, trad. it. Anna Polo, Solaria Collezione 4, Fanucci Editore, 2001.

The Stanley Parable, il Sein-zum-Tode di Davey Wreden

The Stanley Parable, il Sein-zum-Tode di Davey Wreden

  • Edoardo Fumo
  • novembre 2022
  • interagisci

Quante volte accade che le cose platealmente manifeste non siano viste? Perché si tende a cercare significati reconditi quando la chiave interpretativa è già evidente? The Stanley Parable: Ultra Deluxe è il tentativo decennale di un uomo, di un artista, di superare i limiti di un linguaggio.
Sacrificandosi per lasciare un’eredità e per rispondere a una domanda: si può essere davvero?

Source

Anno 2011. Il ventiduenne Davey Wreden pubblica una mod per Half Life 2 intitolata The Stanley Parable. È un esperimento finemente goliardico dove, in poco più di un’ora, viene utilizzato il genere allora molto in voga degli FPS per creare un’esperienza esclusivamente narrativa. Il fulcro del racconto è la storia di Stanley, un impiegato trovatosi improvvisamente da solo nella sua azienda. Unico suo compagno un onnipresente “Narratore”, un Virgilio che è alternativamente antagonista, guida, commentatore metafisico capace di rompere la quarta parete1. La mod ha una risonanza mediatica immediata, parecchie testate dell’epoca ne intuiscono l’acume e il passaparola fa il resto, facendola scaricare da novantamila persone in poche ore.

Anno 2013. Con la collaborazione del programmatore William Pugh, esperto del motore grafico Source, The Stanley Parable esce in versione commerciale. Il gioco assume la sua estetica definitiva, così anonima e disumanizzata da diventare iconica (tanto da ispirare a distanza di dieci anni prodotti come la serie televisiva di Apple TV Severance2) e da divertissement postmoderno si modifica in qualcos’altro.

Il Teatro

L’incipit è lo stesso: Stanley, in attesa di svolgere il suo lavoro ripetitivo e, accortosi di essere completamente solo, da spettatore diventa attore: sarà, cioè, controllato dal giocatore e seguito dal Narratore in ogni sua azione.

I ruoli diventano presto sfumati e si notano i primi accenni di rottura nel proceduralismo di Alexander R. Galloway, piccole brecce che conducono a una fondamentale riflessione sull’esistenzialismo.
Galloway, nel suo “Gaming: Essays on Algorithmic Culture”, divide l’azione di un videogioco in compartimenti precisi3. Il fruitore compierà azioni nel modo più naturale possibile secondo il contesto creato dagli autori: tirerà leve, aprirà porte, salirà scale secondo le regole del mondo finzionale in cui si trova, diegeticamente. Eppure, avrà anche interazioni con menu, interfacce, indicatori extra-diegetici che lo renderanno consapevole di trovarsi in un’interpretazione di una realtà.

The Stanley Parable va oltre questo concetto già dalla sua presentazione: ci pone nei panni di un personaggio che preme dei tasti senza sapere perché, semplicemente per “esistere”. Il movimento iniziale della cinematica parte da lontano, mostrandoci Stanley e una sezione del suo ufficio, per poi farci entrare nella sua testa spostando la visuale in prima persona e sostituendoci di fatto a lui. Viviamo direttamente il suo punto di vista, in quanto anche i giocatori, in quel momento, sono di fronte allo schermo di un computer in attesa di un comando, di un input che indichi quali bottoni premere per dimostrare di essere reali.

Ma si può essere davvero reali in una storia scritta da altri? Da qui emerge la natura fortemente teatrale, ispirata tanto dal “teatro nel teatro” pirandelliano quanto dallo psicodramma di Jacob Davi Moreno e dal “teatro dell’assurdo” di Samuel Beckett.

Wreden mostra il dietro le quinte di un videogioco, ne visitiamo sezioni ancora in costruzione come quando in “Ciascuno a suo modo” (Pirandello, 1924) gli attori, a sipario calato, discutono nel foyer e nei corridoi del teatro cosa hanno appena visto e, nella continua finzione dei ruoli, diventano ora critici, ora giornalisti, ora protagonisti di una vicenda ispirata a fatti realmente accaduti. Si può decidere anche di restare immobili, con tanto di Narratore incalzante e dubbioso sull’identità di Stanley, quasi timoroso di dover affrontare non un personaggio scriptato ma una persona che potrebbe diventare variabile ingestibile, rafforzando così il legame tra avatar e giocatore ma subdolamente costringendolo in una struttura narrativa da cui non può fuggire.

L’Ontologia

The Stanley Parable è quindi un gioco che riflette su se stesso e su come l’utente ne fruisca, sul modo in cui si possa cercare la trascendenza come “essere”, in un microcosmo costruito dove tutte le scelte sono già decise ma che esistono solo tramite il nostro intervento.
Il momento più significativo di questo discorso si raggiunge, probabilmente, in uno specifico finale.

Se si disobbedisce costantemente al Narratore saremo portati in una stanza e sottoposti a delle prove per capire, rompendo la quarta parete, dove il gioco non stia funzionando. A un tratto bisognerà evitare, ovviamente previa la pressione di un bottone, che il cartonato di un bambino in fasce finisca tra le fiamme. Compito non piacevole, dati il pianto assordante del piccolo e il tempo che dovremo investire per salvarlo. Il Narratore ci presenta la sezione come:

[…] un gioco ricco di significati – rappresenta quanto disperato e tedioso sia confrontarsi con le infinite richieste della vita familiare. Non passerà sicuramente inosservato al mondo dell’arte. Ma, ovviamente, il messaggio del gioco diventa chiaro solo dopo averlo giocato per quattro ore. Per cui dovrai giocarci per quattro ore per comprendere appieno il suo significato.

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Continuando stoicamente per due ore questo topos del salvataggio dell’innocente, subiremo ulteriori commenti, anche piccati, riguardanti l’eventuale uso di qualche script per premere automaticamente i pulsanti sottolineando che se così fosse si toglierebbe tutta l’arte dal gioco stesso. La ripetizione del gesto porta inevitabilmente all’esistenzialismo, in una sorta di crasi tra quello di Kierkegaard e quello di Heidegger dove, per dimostrare di essere, l’uomo deve cercare costantemente la propria autenticità nella ripetizione.

Per il primo ciò può avvenire solo attraverso il suo rapporto con Dio, in questo caso assimilabile alla figura di Autore/Narratore. Sul secondo ci arriveremo in seguito, ne avremo sprazzi nello stesso segmento ma sarà approfondito davvero solo nove anni dopo, nel 2022.

Terminato questo compito viene inserita un’altra variabile, un cartonato di un cucciolo di cane che lentamente sta cadendo in vasca piena di piranha, e il tutto sarà introdotto da queste parole:

Sei qui per il gioco! Per l’arte! per l’infinito senso vertiginoso di inutilità e disperazione! Sì, questo è ciò che guida ogni tua azione! Continua a fare clic su quel pulsante! Per la speranza! Per la libertà! Per la scienza! Per amore! Non fermarti mai, mai! Eccoci Stanley, è arte! Ce l’ho fatta! I videogiochi sono arte! Ah, ma hai almeno altre due ore per finire, quindi ti lascio al tuo compito

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Arrivati quasi alla fine di questa estenuante maratona, saremo pronti per l’immortalità spirituale.

[…] la trascendenza e l’unità con la bellezza e l’essenza di tutte le cose? Solo pochi secondi, eccola che arriva.”

The Stanley Parable: Ultra Deluxe. Estratto.

Uno stacco repentino ci porterà in un ambente vuoto, occupato solo da un monolite nero presentato come la ”essenza dell’arte divina” e che, quando moriremo, trasporterà personalmente il nostro spirito in un giardino costruito dalle emozioni di un fiore. Lì potremmo vivere insieme, ballare e mangiare e peccare, facendo improvvisazioni teatrali e, quindi, psicodrammi, basate però su suoi suggerimenti per tutta l’eternità. Ecco di nuovo l’ontologico, ecco di nuovo il confronto del non poter essere, se non in una gabbia decisa da qualcuno di superiore.

Wreden si chiede quindi se i videogiochi, con la loro volontà di rappresentazione di potenza, non siano altro che un premere in modo costante dei pulsanti per avere l’illusione di essere. Questa si può chiamare arte o, per utilizzare un termine che erroneamente l’ha sostituita in termini recenti, capolavoro? Non siamo in realtà solo degli impiegati chiamati a ripetere sempre la stessa azione in contesti diversi per darci l’illusione di aver appreso qualcosa di più su di noi? Forse no, ma trasformare questo concetto in performance crea un cortocircuito e trasforma The Stanley Parable stesso in arte.

Il gioco è un successo di critica e pubblico ma non come l’autore probabilmente si aspettava. Si era nel boom dei primi influencer su Youtube e per i format dell’epoca The Stanley Parable era perfetto. Permetteva di montare clip di pochi minuti ma questo portava due problemi: il disvelamento dell’aspetto meta del gioco e il fatto che venisse ridotto prosaicamente a parodia, concentrandosi solo sull’aspetto weird e non sui sottotesti pur ben evidenti. 

Excursus: The Beginner’s Guide

Anno 2015. Wreden, continuando la sua ricerca su cosa sia arte, rilascia The Beginner’s Guide, un “mockugame” dove invita i giocatori a seguirlo nella scoperta di un misterioso programmatore chiamato Coda, conosciuto a una Game Jam qualche anno prima e che, per sua stessa ammissione, ha influenzato molto il suo lavoro. Questa volta è proprio lui il Narratore che accompagna i fruitori in una serie di demo mai rilasciate chiedendo a se stesso e agli altri, con tanto di indirizzo email comunicato dopo il primo livello per discuterne insieme, se sia possibile ricostruire la personalità di un individuo solo tramite questi frammenti.

Come in The Stanley Parable, anche qui si vede il dietro le quinte, si attraversano spezzoni di giochi incompleti utilizzando glitch e modifiche ad hoc per scavare nel codice e trovare un significato.  Questo fino a quando, superando ostacoli quali labirinti invisibili, porte invalicabili o navigando nei sottomappa non si giunge ad un messaggio lasciato da Coda personalmente a Wreden, in cui viene ringraziato per l’interesse ma anche accusato di aver voluto, per un bisogno personale, attribuire a delle opere non sue dei simbolismi e delle sovra-interpretazioni improprie, commettendo di fatto l’errore che i critici avevano compiuto con i giudizi su The Stanley Parable. Il tutto per colmare il bisogno di trovare sollievo dalla crisi emotiva e creativa in cui si trovava in quel momento. 

Durante l’epilogo, Wreden ammette di avere problemi di validazione sociale e di “Sindrome dell’Impostore” e decide di farsi da parte, facendo concludere lo stralcio finale senza nessun commento, ormai sopraffatto dal tormento che lo ha investito e dall’accettazione di aver coinvolto un’altra persona in qualcosa che non voleva, solo per sentirsi partecipe e vivo.

Unity

Anno 2022. Dopo una campagna pubblicitaria cominciata nel 2018 – e che meriterebbe un approfondimento a parte – esce, per la prima volta su tutte le piattaforme e non solo su PC, una versione riveduta e ampliata di The Stanley Parable chiamata Ultra Deluxe.

Come pochi autori di videogiochi prima di lui Wreden riesce a ingannare il pubblico sui suoi reali scopi. Perché sì, The Stanley Parable: Ultra Deluxe è effettivamente quello che il marketing ha fatto credere fino al momento della sua pubblicazione, ma in realtà è molto altro. Già dall’inizio i conoscitori del gioco originale troveranno alcuni elementi, apparentemente innocui, che presagiscono un ulteriore livello di interazione, genialmente nascosti nei menu di calibrazione. I quali assurgono, di fatto, al compito di fondere il diegetico con l’extra diegetico, portando a termine un lavoro iniziato anni prima. Tali menu diventano, a ogni riavvio, sempre più bizzarri, fino a trasformarsi da semplici aggiustamenti di luminosità e orario in una sorta di dialogo con l’autore.

Si ha la possibilità di rigiocare interamente l’originale, anche per permettere ai neofiti di apprenderne le meccaniche, fino a quando non si sbloccherà il tanto famigerato “nuovo contenuto”. Nuovo contenuto dove, restando fedele al precedente lavoro di decostruzione, verranno messe alla berlina tutte le contraddizioni e le evoluzioni che il videogioco, ma anche l’industria dell’intrattenimento tutta, ha avuto dal 2011 a oggi.

Non si tratta però di gatekeeping o di nostalgia dei bei vecchi tempi, anzi. Nonostante l’umorismo caustico su come una riedizione non sia che un modo spesso utilizzato per aggiungere delle sciocchezze marginali atte solo ad appropriarsi del tempo (e dei soldi) di chi ne fruisce, la svolta vera e propria si ha proprio quando si guarda al passato ed è lì che Wreden si fa carne, si mostra reale e affronta a viso aperto i suoi demoni.

Il Narratore, rimasto deluso dalla pochezza delle nuove idee, ci porta nel suo rifugio che lui chiama la “Zona dei Ricordi” dove rivivere tutti i gloriosi momenti del passato. In questo luogo, una baita situata in un paesaggio bucolico, si ritroveranno le reali recensioni positive e i premi ricevuti dal gioco nel corso negli anni fino a giungere a una zona abbandonata, una discarica, dove sono nascosti i pareri negativi degli utenti lasciati su Steam. Questo lo porterà a commettere l’errore di dare ragione ai suoi detrattori (vero Mass Effect 3?) e a effettuare modifiche inutili che renderanno sì il giocatore libero come desidera, ma in un ambiente desolato e distrutto.

The Stanley Parable 2 (e 3, 4, 5…)

Non arrendendosi all’evidenza, perché “lo spettacolo deve continuare”, il Narratore decide di “propria” iniziativa di attuare un massiccio rebranding di The Stanley Parable, trasformandolo all’atto pratico in un secondo capitolo con tanto di nuova introduzione, inserendo elementi completamente slegati dal contesto originario solo per accalappiare nuova utenza. È il momento in cui Wreden si scatena e satiricamente si scrolla di dosso la sua ansia sociale, il suo dover piacere a tutti i costi, manifestando quanta sofferenza abbia dovuto processare per il suo essere stato osannato per i motivi sbagliati.

Se volessimo fare un parallelismo con un’opera pop recente la cosa che più gli si avvicina è “Rebuild of Evangelion” di Anno Hideaki. Le reazioni e la misinterpretazione da parte del loro pubblico sono identiche. Entrambi gli autori riprendono gli stilemi che li hanno resi famosi e li sovvertono mettendosi completamente a nudo, nella speranza di far passare il loro messaggio originale.

La similitudine è ancora più evidente nel vero epilogo, sbloccabile solo dopo aver provato le fallimentari nuove meccaniche create per far felici i fan. Accedendo nella parte finale a un terminale si avrà un ultimo scambio con Wreden, scambio che introduce diversi livelli di analisi oltre a richiamare direttamente Coda dal suo gioco precedente.

[…] È bello vederti. Ma è terribile sapere che non ci sarà mai un altro The Stanley Parable. Hai letto cos’hanno detto gli sviluppatori?? “Preservare l’integrità del franchise”?! Che assurdità!
The Stanley Parable non è sacro, non dobbiamo proteggerlo. Al diavolo l’eredità! Creiamo altri Stanley Parable finché non esplode il sole!
Buttiamo questo titolo per terra, trasciniamolo nel fango, sporchiamolo. E se alla gente non piace? Chi se ne frega? Vedi, era quello il problema del Narratore. Lui era ossessionato da quello che pensava la gente del suo lavoro. Non fare il suo errore. Non aggrapparti all’eredità. Lasciala bruciare. Non è difficile. Anzi, ti faccio vedere. Insieme faremo The Stanley Parable 3. È semplice, dobbiamo solo cambiare il numero nella schermata del titolo. Ci serve anche un sottotitolo davvero stupido per il gioco, qualcosa di chiassoso e pacchiano
The Stanley Parable non può finire. Può solo svilupparsi a spirale su sé stesso, per sempre. Devo continuare a far girare la ruota. Io sono pronto, e tu?

Davey Wreden (ma anche Hegel)

Con queste parole l’artista distrugge la sacralità della sua opera, una sacralità mai ricercata e che altri gli hanno imposto. Wreden si sacrifica, chiarendoci una volta per tutte che non c’è uscita da The Stanley Parable se non smettendo di giocare e cominciare a vivere la propria vita. Perché, ed è qui che ritorna prepotentemente Heidegger: basta esserci per diventare coscienza trascendentale in grado di progettare il proprio mondo, ben consci di avere una finitezza sancita solo dalla morte. Insomma, l’immanenza.

Con la stoccata finale di poter considerare il gioco completato nella sua interezza solo non giocandoci per dieci anni, Wreden non fa che rimarcare ancora di più la necessità di non dover esistere esclusivamente per premere dei bottoni decisi da qualcun altro, ma che la salvezza possa avvenire tramite techne e cioè attraverso la creazione di una propria arte che dia un senso a ognuno di noi.

Questo sacrificio, come le parabole prevedono, è un insegnamento. Balliamo, beviamo e pecchiamo, esperendo solo attraverso noi stessi senza imporre ad altri il nostro vissuto e ciò che ci rende essere.

Sein-zum-Tode. Essere-per-la-morte, Davey.


NOTE:

1 Come il modello descritto da Tzvetan Todorov nel suo “Poetica della prosa Le leggi del racconto” (Milano, Bompiani, 1995)

2“Erickson’s various influences speak to the show’s premise of a workplace keeping dark secrets: films like The Truman Show, Office Space, Brazil, the video game The Stanley Parable, and the Dilbert comic strips.” Eric Francisco, Severance reveals the “scary” and “surreal” underbelly of office work in 2022, (Inverse 2022)

3“Video games are actions. Let this be word one for video game theory…. Consider the form differences between video games and other media: […] One plays a game. And the software runs. The operator and the machine play the video game together, step by step, move by move…. The video game, like the computer, [is] an action-based medium.” Alexander R. Galloway, Gaming: Essays on Algorithmic Culture (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2006) 


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Edmund Burke avrebbe giocato a Elden Ring

“Salisbury Cathedral from the Meadows” è un quadro del 1831 di John Constable, meraviglioso paesaggista inglese. La scena che si presenta agli occhi del moderno visitatore del Tate Britain, uno dei più grandi musei di Londra, è di controversa ricezione: se da un lato non è replicabile nell’uggiosa modernità di cui tutti – chi più e chi meno – siamo quotidiani spettatori, dall’altro è capace di evocare nel piccolo uomo una sensazione di impotenza che forse ha già avvertito in passato e che, confrontandosi con altri piccoli uomini, capirà essere addirittura comune.
La centralità della scena non è dominata dalla Cattedrale di Salisbury, da cui l’opera prende nome; al contrario, è data dalla tensione tra due elementi, la natura imponente e l’abbraccio dell’edificio al cielo tempestoso. Esprime, insomma, il conflitto tra due realtà, l’umana e la divina, con la prima che si lacera cercando di raggiungere, affascinata, la seconda. John Constable aveva dipinto il Sublime e, senza poterlo prevedere, aveva immaginato Sepolcride, la prima regione di Elden Ring (FromSoftware, 2022), già nell’Ottocento.

C’è un aneddoto che vale la pena riportare. Al Tate, accanto all’appena citata tela di Constable, ve n’è un’altra di William Turner, “Caligula’s Palace and Bridge”, a essa contemporanea e che suscitò addirittura un alterco tra gli artisti per la disposizione delle due presso una mostra, durante il 1831. Il giocatore di Elden Ring non avrà grosse difficoltà a riconoscervi la gloriosa decadenza di Leyndell, Capitale Reale che, proprio come l’Impero Romano di Caligola, ha lasciato tracce di sé dopo la fine. 

In alto: “Caligula’s Palace and Bridge”, di William Turner. In basso, “Salisbury Cathedral from the Meadows”, di John Constable.

I misteriosi resti del passato si fondono con le tinte opache dell’immaginato da Turner, il quale assume il sapore dell’indefinito. Glorioso, eterno, indefinito. In un gioco di specchi rispetto a Salisbury Cathedral, stavolta l’uomo non si spinge verso l’alto ma è ridimensionato a essere riassorbito dalla forza che aveva osato sfidare in grandeur, con la storia della viva pietra che ne restituisce le ambizioni fallite. A conti fatti, però, il risultato non cambia: l’osservatore si sente minuto e miserabile, in balia del piacere derivante da una forza che annienta, volendo parafrasare Schopenhauer. Di nuovo, ecco il Sublime.

È proprio il filosofo di Danzica, partendo dalle considerazioni di Kant, a definirlo così nel suo grado più profondo:

Ma l’impressione è ancora più potente quando l’infuriare delle forze della natura ce l’abbiamo davanti agli occhi in grandi proporzioni (…). Di fronte a uno spettacolo di questo genere lo spettatore imperturbato acquisisce nel modo più chiaro la consapevolezza della duplicità della propria coscienza: sente se stesso contemporaneamente come individuo, come fragile manifestazione fenomenica della volontà, che può essere mandata in frantumi dal più piccolo colpo di quelle forze, inerme di contro alla potenza della natura, dipendente, in balia del caso, un nulla evanescente di fronte a potenze inaudite; e d’altra parte egli, allo stesso tempo, sente se stesso come esterno e sereno soggetto del conoscere (…). È questa l’impressione piena del sublime, prodotta qui dalla vista di una potenza che minaccia di annientare l’individuo e che è senza confronto superiore a lui.


Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giorgio Brianese, Piccola Biblioteca Einaudi 604, Libro Terzo, Paragrafo 39, pag. 271, ed. 2013 (ed. princ. 1819).

Di esempi e paragoni se ne potrebbero fare tanti. Si potrebbe citare “The Dreamer”, di Caspar David Friedrich: se solo non fosse stato realizzato nel 1840, sembrerebbe una fanart di un Senzaluce che si riposa presso la Chiesa di Elleh, nel tardo pomeriggio. Ancora, “Guisborough Priory, Yorkshire”, di Thomas Girtin, anno domini 1801, pare una riproduzione plastica di uno splendido rudere qualunque a nord di Liurnia dei Laghi, prima dello Altus Plateau; per capirci, la zona dove avviene il secondo incontro con Ranni. Eppure quest’operazione di ricongiungimenti platonici, seppure all’apparenza interessante, risulterebbe a un certo punto istrionica. 

Questo aspetto va necessariamente chiarito. Che Elden Ring rappresenti visivamente il punto apicale del videogioco romantico, volendo con questo termine riferirsi proprio al Romanticismo inteso come movimento storicamente originatosi a fine Settecento, è fattuale. Ne mutua, d’altronde, molti capisaldi artistici, espressi puntualmente dall’immagine di un Cavaliere che galoppa sui rimasugli del mondo che fu, costantemente orientato alla scoperta delle forze che lo regolano e attraversato dal timore di non poterle comprendere. Da quest’angolo, la danza degli accostamenti non solo è automatica, ma pure francamente banale. 

A sinistra la “Chiesa di Elleh”, in Elden Ring. A destra, “The Dreamer”, di Caspar David Friedrich.

Vale la pena di evidenziare con forza che Elden Ring non solo saccheggia il paesaggio romantico ispirandosi alle produzioni del periodo, ma arriva a realizzare la potenza del Romanticismo nel suo medium, e cioè il videogioco. In altre parole, il lavoro di FromSoftware non impatta solo sulla dimensione artistica, ispirata al Romanticismo, ma restituisce tutte le sensazioni, e i correlati temi, tipici di quella corrente. Per farlo, Miyazaki, Martin e gli sviluppatori del team giapponese hanno utilizzato come perno il Sublime, quale concetto centrale dell’intera impalcatura romantica. Ed è per questo che Edmund Burke, autore de “Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello“ (1757), non avrebbe certo disdegnato il poterci giocare.

Ciò comporta, di conseguenza, non solo un passaggio verso una critica che si muova attraverso questa particolare categoria dell’Estetica, e che conduca a rimodulare da quel punto di vista l’intero impianto analitico, ma rappresenta, contemporaneamente, un’incredibile opportunità.
Come si vedrà in seguito, proprio in questi anni c’è stata un’interessante operazione di recupero del Sublime, declinato in termini videoludici: questo apre a nuove chiavi interpretative che vanno anche oltre il Romanticismo, superando di gran lunga persino lo stesso Elden Ring. Ma ci arriveremo con calma, partendo da quello che quest’ultimo dice quando mostra.

Dal Gotico a Goethe…

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER su Elden Ring]

Se è vero che “l’architettura è un riflesso della spiritualità dell’essere umano nel suo tempo” ed “è una pericolosa commistione di onnipotenza e impotenza”,1 questa disciplina non può che assurgere a un ruolo centrale nel passaggio discorsivo dal Sublime al Sublime Videoludico. Elden Ring, infatti, comunica costantemente attraverso i suoi castelli, forti, chiese, complessi monumentali: hanno il compito di schiacciare il videogiocatore, costringendolo a una dimensione infima e, in ultima istanza, lo terrorizzano (è importante tenere a mente questo concetto, sarà utile in seguito).

Non solo. Gli edifici si pongono in una relazione di sequitur con la Natura, un ciclo continuo di costruzione e distruzione dove l’artificiale non si presenta in opposizione a campi, colline, laghi, cieli infernali, distese innevate e autunni perenni ma, casomai, stabilisce se stesso come prolungamento di ciò che già è. Tutto diventa, allo stesso tempo, sia un prodotto dell’Uomo che un precipitato di una forza esterna, la cui sintesi non può che trovarsi nell’azione divina. Deus sive Natura,2 l’Albero che genera la Vita, le Rune che determinano il piano dell’esistenza e l’Anello come indice dell’armonia: queste sono le coordinate di Elden Ring, la cui grandezza e potenza si manifesta nei confronti del minuscolo fruitore. L’Ordine (Aureo) si realizza, perciò, con una manipolazione della Natura, un’operazione che appartiene solo a colui che è in grado di correggerne le disfunzionalità. E cioè, di nuovo, a Dio.

Due esempi di Gotico. Vittoriano a Raya Lucaria (in alto), Temperato a Villa Vulcano (in basso).

Lo stile scelto per simboleggiare questo ponte non poteva che essere il Gotico. FromSoftware ha disseminato la sua opera soprattutto di quello Fiammeggiante, presente a Sud, ma si ritrova agilmente il Germanico – nelle guglie impazzite e dorate di Leyndell – insieme a tracce vittoriane nell’Accademia di Raya Lucaria; ovvero il Gotico italiano, dalle forme meno esasperate e più solide, nella rossa Volcano Manor. Si sfruttano continuamente i cambi di stato, con ampi spazi artificiali rivelati da strettoie naturali e spettacolari orizzonti anticipati da corridoi. Senza contare i continui sussulti ricevuti dalla palette cromatica.

I due esempi di scuola sono certamente l’arrivo alla Capitale, che emerge nella sua grandiosità dopo un viaggio cunicolare dovuto alle caratteristiche fisiche del luogo, e l’apertura di Liurnia dei Laghi, posteriore all’attraversamento del cuore pulsante di Grantempesta.

A tal proposito, è fondamentale sottolineare il cambiamento che si presenta nel momento in cui il videogiocatore scende nelle profondità dell’Interregno, tra l’Acquedotto Siofra, Nokron e Nokstella, fino al Palazzo di Mohgwyn. Il Gotico cede il passo a uno stile Classico, il cielo diventa stellato e la composizione complessiva tende a rassomigliare più al mondo ellenistico – dov’è nato proprio il concetto di Sublime – che al medioevo europeo e romantico. Il fruitore si trova, dunque, a subire lo scarto che separa il “Sublime dinamico” dal “Sublime matematico”, di matrice kantiana.

È Gilles Deleuze a rimarcare, in una sua lezione del 1978, la differenza tra i due:

La risposta di Kant [è che] vi sono due categorie di sublime: il sublime “matematico” (definito matematico perché è estensivo), e quello che è chiamato sublime dinamico (un sublime intenso). Ad esempio, (…) la volta celeste ricca di stelle quando il cielo è limpido è il sublime matematico (…). Il sublime dinamico è il mare agitato, è la valanga. In questo caso, subentra il terrore.

Kant: Synthesis and Time, seminario del 28 marzo 1978. Citazione tradotta dal redattore.

Perciò il piccolo, pavido, minuscolo avatar è intrappolato tra la potenza della superficie, fatta di costruzioni che tendono a una Natura capace di affascinare nel suo orroredelightful horror, direbbe appunto Burke3e l’estensione illimitata del sottosuolo, con le sue, ossimoriche, costellazioni sotterranee. Inizia i suoi dungeon legacy – le città nella città – quasi sempre schiacciato dalla monumentalità dei luoghi e accecato dalla tensione verso l’alto degli archi, con una riverenza sacrale che deriva dalla percezione senza comprensione. I luoghi dei boss, dei semidei, diventano immagine degli stessi, della loro maestria combattiva e, più in generale, dello status che possiedono all’interno dell’universo, capacità di bloccare gli astri compresa. “L’infinito non è comprensibile come un tutto ma è pensabile come un tutto”, sostiene Lyotard;4 e in quell’ambivalenza si sviluppa il Sublime, tra paura ed esaltazione.

Leyndell, Capitale Reale. Particolare dei “cambi di stato”.

Non finisce qui. In un videogioco dove la spazialità, in generale, e l’architettura, in particolare, hanno il compito di generare costantemente il sentimento del Sublime, non sorprende che gli sviluppatori di Elden Ring abbiano affidato, in maniera primigenia, proprio al secondo aspetto la rivelazione cruciale del titolo, il suo punto di svolta narrativo. La riduzione effettuata sulla statua di Marika rivela l’intimo segreto di quest’ultima: e cioè che è, in realtà, Radagon. Pur rinviando ad altri luoghi l’analisi strettamente narratologica della cd. lore del lavoro di FromSoftware, è innegabile che il dualismo Marika-Radagon generi una certa risposta nel videogiocatore, e lo induca a provare terrore verso un fenomeno che non è in grado di capire. 

Il rapporto di unità tra il genere maschile e femminile della divinità – insieme alla capacità di generare figli con se stessa – viene dunque accettato come un dogma e, contemporaneamente, funge da catalizzatore per spingere il fruitore alla soglia più alta. A ciò si aggiungono, ovviamente, i rilievi successivi che individuano la distruzione dell’Anello Ancestrale da parte di Marika come vero e proprio atto di consapevole ribellione verso un’altra entità – la Greater Will – in un gioco di scatole cinesi e motori immobili che si è solamente in grado di sfiorare, rimanendo ammaliati e atterriti dalle poche briciole di cui è possibile godere. Si impatta in un limite della ragione, di cui si riesce a sentire istintivamente il margine superiore ma non a farlo realmente proprio. Senza che, dopotutto, l’insieme perda di fascino.

Classicità e vastità dei cieli stellati.

Proprio la circolarità del passaggio dalla donna Marika all’uomo Radagon, e viceversa, simbolicamente rappresentata dal famoso ed equivoco disegno della dea crocifissa, dove effettivamente si presenta una certa illogicità delle forme capace di generare una paura primordiale, ricorda la lettura di Margaret Fuller dell’eterno femminino di Goethe. 

Il maschile e il femminile rappresentano le due facce del dualismo più radicato. Ma, nella realtà delle cose, si muovono costantemente l’uno nell’altro. Ciò che è fluido si indurisce e diviene solido, il solido precipita nel fluido. Non esiste uomo mascolino per davvero e non vi è donna esclusivamente femminina.

Margaret Fuller, citata in The Woman Question: Society and Literature in Britain and America, 1837-1883, Volume 1: Defining Voices, Di Elizabeth K. Helsinger, Robin Lauterbach Sheets, William R. Veeder, 1989. Citazione tradotta dal redattore.

Il concetto espresso dal trascendentalismo femminista ha due grandi meriti oltre, s’intende, a realizzare il fondamento filosofico del twist proposto da FromSoftware. Il primo è nella riflessione, conseguente e necessaria, sul punto di equilibrio tra le spinte verso l’alto provenienti dalla donna e la funzione conservativa dell’uomo (Marika distrugge l’anello, mentre Radagon prova a ricomporlo), il che si associa all’idea dell’essere umano dilaniato da desideri contrapposti, riflessi da forme fisiche mutevoli. Il secondo, maggiormente consono al perimetro di questo contributo, è da ricercarsi nel più generale argomento del Sublime Videoludico. 

…e dal Sublime al Sublime Videoludico

Dopo aver analizzato la dimensione – si potrebbe dire, quasi ironicamente – statica del Sublime in Elden Ring, cioè le modalità con cui lo studio giapponese ha realizzato la componente visiva del Sublime, attraverso una notevole direzione artistica basata sul dualismo tra Uomo e Natura, per il tramite dell’architettura e rinforzando poi il tutto attraverso un modello narrativo criptico e per dogmi, è tempo di allargare l’obiettivo. Come suggerito in apertura, si tratta di utilizzare Elden Ring in vece di esemplare perfetto della teoria generale del Sublime Videoludico, aiutando a confermarne la validità ad ampio spettro, proprio in rapporto al mezzo attraverso cui si esprime.

Illogicità e paure ancestrali.

In realtà, va sottolineato che negli ultimi anni si sono intensificati gli sforzi per un’impostazione dottrinale di questo tipo, che va ovviamente utilizzata quale base della nostra indagine. L’ultimo intervento in materia è da ricercarsi nell’eccezionale libro di Matthew Spokes, “Gaming and the Virtual Sublime: Rhetoric, Awe, Fear, and Death in Contemporary Video Games”, pubblicato nel 2020 da Emerald Publishing e, purtroppo, totalmente inedito in Italia. Dopo una veloce panoramica sulla storia filosofica del Sublime, passando dal “Trattato del Sublime” attribuito a Longino al techno-sublime di Fedorova, l’autore scopre finalmente le sue carte.

Essenzialmente, il mio obiettivo è quello di portare alla luce la complessità insita nei videogiochi tanto quanto nell’utenza e di riflettere su come il coinvolgimento che si pone in essere tra noi e queste esperienze emotive possa essere compreso attraverso il concetto del Sublime.

M. Spokes, Gaming and the Virtual Sublime, p. 61, citazione tradotta da Luca Rungi.

In altre parole, l’approccio metodologico di Spokes tradisce la volontà di superare il conflitto tra ludologi e narratologi, ormai arrivato a un punto morto e diventato addirittura parossistico. È solo la Critica sviluppatasi attorno al Sublime a esaltare le qualità uniche del videogioco. Grazie a una riedizione delle dinamiche soggetto-oggetto, sarebbe infatti in grado di amplificare l’ergodicità5 di questo medium, afferrandone la complessità ed evitando certi pericolosi strutturalismi, insieme ai morbosi tentativi di stabilire un confine arbitrario tra gli stessi. Pertanto, attraverso il Sublime si coglierebbe la totalità del videogioco.

Meraviglie e parallelismi. “Apertura di Liurnia”, in alto; “Viandante sul mare di nebbia” (Friedrich, 1818), in basso.

Per portare avanti la sua trattazione, lo studioso anglosassone utilizza quattro parametri che identificano il Sublime Videoludico: Rhetoric (retorica), Awe (meraviglia), Fear (paura) e Death (morte), conditi da vari esempi pratici, come God of War (Santa Monica Studio, 2018), Sekiro: Shadows Die Twice (FromSoftware, 2019), Red Dead Redemption II (Rockstar Games, 2018) e Silent Hill 2 (Konami, 2001). Quello che Spokes non poteva sapere è che, solo due anni dopo l’uscita del libro, sarebbe arrivato sul mercato Elden Ring, capace di rispondere in maniera perfetta a ognuno di questi criteri, diventando a sua volta il metro di paragone futuro. 

In effetti, di Elden Ring si sono lette lodi sperticate in ogni dove. C’è chi ha speso litri di inchiostro virtuale magnificandone l’open world rivoluzionario, mentre altri si sono lasciati ingolosire dall’art direction o ne hanno celebrato alcuni aspetti relativi alle meccaniche-dinamiche di gioco. Eppure, l’unico frangente in cui emerge davvero come titolo di rottura, dato dal modo in cui tutte queste grandezze si mescolano tra loro per generare, nel fruitore, il sentimento del Sublime, è stato paradossalmente ignorato.6 

Andiamo con ordine. Per “meraviglia” Spokes si riferisce a quella derivante dalla spazialità del videogioco: in un certo senso, agli “interminati spazi al di là di quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete”7 così perfettamente espressi dalla poesia Leopardiana. Eppure, ciò a cui Spokes fa riferimento quando parla di “realistic environments” non è la mera grandezza e vastità degli ambienti, perfettamente espressa dalla prima menzionata apertura di Liurnia e dalle tecniche usate da FromSoftware per suscitare stupore descritte nel paragrafo precedente (lo stretto che sfocia nel largo e viceversa).

Schiacciati dal Sublime, in Farum Azula.

No: non è solo il semplice saccheggio delle tecniche costruttive del Colonnato del Bernini, che emergeva dalla Spina di Borgo, generando un contrasto tra ambienti. È qualcosa in più, che si lega alle peculiarità del quest design, all’assenza di quest marker, alla feralità degli NPC, alla difficoltà tipica di un Souls, al sovraccarico emotivo che va oltre ciò che si vede. È la molteplicità degli elementi di cui si compone il game design – e in maniera più impropria, il gioco – a investire il singolo individuo, generando il distacco tra soggetto e oggetto e quella sensazione di meravigliosa sopraffazione tipica del Sublime, appunto. Il quale spinge ad apprezzare e studiare il tutto, non la parte.

Retorica” e “paura”, invece, sono strettamente collegate.
Rifacendosi proprio al Sublime classico di Longino, Spokes scrive:

Longino descrive questa grandiosità cangiante come una portatrice di sentimenti singolari. La retorica del sublime produce estasi [ekstasis] piuttosto che persuasione nell’ascoltatore grazie a una combinazione di stupore [ekplêxis] e meraviglia [thaumasion], qualcosa di diverso da ciò che egli descrive come “semplice piacere”. (…) 
La retorica procedurale può spingere i videogiocatori verso un’esperienza quasi trascendentale così come descritta da Longino stesso: la combinazione di una narrazione attraverso elementi architettonici e di tutto ciò che spinge il videogiocatore a procedere offre la possibilità di instillare meraviglia e sbigottimento nel caso gli sviluppatori intendano creare un videogioco proprio a questo scopo. 

Ibidem, cap. 5. Citazione tradotta da Luca Rungi.

Se la retorica longiniana è perfettamente rappresentata dalla capacità dei pochi dialoghi di perturbare, a causa dell’utilizzo di un Old English decisamente evocativo – le “Marika’s own words”8 su tutti – il discorso si fa lievemente più complesso per quanto riguarda la cd. retorica procedurale, considerata in forza di retorica propria del videogioco. Nel caso della procedura che persuade, Spokes ne determina un complesso perimetro di elementi narrativi e ludici; incidentalmente, è perorata nuovamente la causa della “Critica del Sublime” come sintesi tra le due prima segnalate scuole di pensiero sul videogioco.

La Elden Beast contiene in sé stelle e galassie, unendo il Sublime matematico a quello dinamico.

Più precisamente, è la sensazione di terrore a ridurre la distanza tra controllante e controllato, avvicinando il primo, emotivamente, all’oggetto videogioco; si fonde, perciò, con la retorica “monodimensionale” di Longino, rendendola effettiva. Supera gli spazi meramente narrativi che sono incapaci ex se di colmare il naturale grado di separazione tra avatar e giocatore, riuscendo quindi a combinare la persuasione con la suggestione. In sostanza, Spokes rivede l’idea di Bogost-Frasca,9 arrivando a una concezione diversa e più ampia proprio attraverso il Sublime. La paura che deriva dalla precedentemente discussa transizione continua di genere tra Radagon e Marika, in quanto incomprensibile alla ragione, viene amplificata dal fatto che l’unico personaggio a poter fare altrettanto è proprio quello gestito dal videogiocatore. 

All’anonimo Senzaluce è concesso di potersi muovere a piacimento da un corpo femminile a uno maschile (e ritorno) durante la partita, sia all’hub di gioco che presso Rennala. Ecco che una semplice opzione di “modifica aspetto” acquisisce un nuovo significato, perché praticata da un’attrice la cui vita è stata devastata proprio dal dualismo Marika-Radagon. Chi è dall’altra parte dello schermo intuisce istintivamente il collegamento e, anche se non gli si presenta chiaramente agli occhi, lo conduce a sentirsi coinvolto dall’oggetto del suo terrore: è l’unico possibile destinatario di quella realtà, dopotutto. Colui che la svela e le si avvicina.

Ovviamente, a tutto questo vanno ad aggiungersi le immagini cristologiche di Radagon e l’apparente, successiva, anticlimaticità della battaglia con l’Elden Beast, l’araldo del vero Dio che sale in alto prima di attaccare in maniera incredibilmente aggraziata. Ogni componente di Elden Ring è (dis-)armonicamente collocata in modo da fondersi all’interno di un flusso ludonarrativo preciso, che arriva al giocatore e, parafrasando Longino, lo conduce all’estasi.

Eucaristie e crocifissioni.

L’ultimo parametro è “morte”. Spokes, a tal proposito, lo utilizza quasi come un equivalente di “Failure” (fallimento) e “Repetition” (Ripetizione), con delle lievi gradazioni.

A questo proposito, è possibile comprendere i concetti di fallimento e agency tenendo in considerazione il concetto virtuale del sublime, in quanto esperienza emotiva in grado di destabilizzare il soggetto (ovvero il videogiocatore) andando a minare la sua relazione con l’oggetto (il videogioco). In un’ottica Kantiana, la possibilità di avere una forma di controllo sulle conseguenze di ciò che si fa, di dirigere il cambiamento, viene sradicata.

Ibidem, cap.8, citazione tradotta da Luca Rungi.

Il rapporto tra il genere Souls e la morte è uno degli aspetti più investigati da parte della critica moderna. In questo frangente, però, non è inserita nella ricerca della perfezione del gesto tipicamente giapponese, l’arte quale techné, al cui culmine si arriva per approssimazioni successive e con il fallimento che ne delinea un passaggio fisiologico. È immaginata, per converso, quale perdita di controllo sul videogioco stesso, che dunque si rivela altro rispetto a chi, concretamente, lo sta giocando. Ma la morte non inferisce solo sul rapporto soggetto-oggetto: piuttosto,“symbolises or actualises the individual’s confrontation with their limit”; permette proprio al videogiocatore di spingersi oltre il limite. Questa struttura ludica indica “a subjective personal attempt at reconciling the absolute”,10 cioè un tentativo soggettivo di comunicare con quella potenza che potrebbe annientarlo, tornando a Schopenhauer.

Elden Ring fornisce, sul tema della morte, una risposta dotata di diversi layer, narrativi e ludici. Dal ruolo dell’Albero Madre nella rinascita alla quest di Fia, è a essa associata – con la morte di Dio e Fractured Marika come l’ultimo “Luogo di Grazia” visitabile durante il filone principale  – addirittura il finale del gioco. Ugualmente, è una componente fondamentale del core gameplay, al punto da essere estremamente caratterizzante, soprattutto nei confronti con i boss. Si potrebbe addirittura sostenere che Elden Ring sia il gioco della morte: ancora una volta rappresenta un limite verso cui tendere, seppur atterriti, prendendo in considerazione anche il livello di abilità personale.

La morte di Dio, in prima persona.

Metaforicamente, l’intera conclusione della storyline di Ranni esprime la potenza del Sublime attraverso le quattro grandezze di Spokes.
Profetizza così la strega, con il volto di Marika-Radagon appena riposto (simbolo della morte), lasciando pochi dubbi su quale fosse il vero e proprio cuore di Elden Ring e decretando proprio il passaggio tra le ere per il tramite del Sublime:

Oggi ha inizio la notte del gelo che tutto abbraccia, proteso verso il grande oltre. (Meraviglia)
Tra paura, dubbio e solitudine… (Paura)
Un sentiero che si inoltra nelle tenebre… (Retorica)
Ordunque, è tempo?

Elden Ring, monologo finale di Ranni. Aggiunte in parentesi del redattore.

Oltre Elden Ring c’è Disco Elysium

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER MINORI su Disco Elysium]

L’ultima parte del nostro lungo contributo è dedicata al superamento di Elden Ring. Stabiliti, dunque, gli aspetti più centrali del Sublime Videoludico, è tempo di portare questi affilati strumenti su campi di battaglia diversi. 

In tal senso, la scelta di Disco Elysium non è casuale: data la complessità del titolo di ZA/UM sia in termini narrativi-tematici che puramente ludici, anche in questo caso il filtro del Sublime risulterà appropriato per coglierne il discorso unitario. Quello che, insomma, viene recepito istintivamente dal videogiocatore, soggetto, in rapporto con il videogioco, oggetto.

Eppure, Disco Elysium non è un videogioco artisticamente ispirato al Romanticismo. Anzi, dalla sua si spende per una Revachol espressionista, fino a toccare perfino l’espressionismo astratto quando c’è da raffigurare distorsioni dello spazio-tempo dovute a differenze di reddito troppo pronunciate. Harrier Du Bois non si muove in uno spazio segnato dal Gotico che desidera toccare la Natura, ma attraverso i dolori della Rivoluzione fallita, in un mondo decadente e decaduto.

“Watercolor Expressionism”.

Eppure, allo stesso tempo, Disco Elysium è il videogioco del non misurabile e dell’indefinito, grandezze in cui si muove il sentimento del Sublime.
Scrive Deleuze a riguardo:

Non riesco più a riprodurre delle parti, non riesco più a riconoscere le cose […] è l’infinito che racchiude in sé tutto lo spazio, oppure lo ribalta; se la sintesi della mia percezione è inibita, lo è in quanto la mia stessa comprensione estetica è compromessa, ovvero: non mi trovo in un ritmo, ma nel caos.

Kant: Synthesis and Time, seminario del 28 marzo 1978, citazione tradotta da Luca Rungi.

Il ritmo, caratteristica più intima della musica, diventa il modo per ricondurre a coerenza ciò che ha inevitabilmente alterato la percezione, minando la comprensione. Per ridurre il caos. E se su quel filo sottile tra queste due grandezze – ritmo e caos – si muove il Sublime, diventa chiaro che la danza si esprime come anti-Sublime, un modo per riaffermare il soggetto e la sua centralità nel mondo. Disco Elysium è già dal nome un ossimoro, il quale trova la vetta espressiva nella sua versione “Hardcore to the Mega” della chiesa. 

La chiesa e la danza. Disco (più) Elysium.

Questa piccola costruzione umana è, dopotutto, edificata attorno al Sublime, e in particolar modo a The Pale, l’antimateria, il Nulla che assorbe il Tutto, la Natura selvaggia e cattiva, l’entropia, il mare bianco di Saramago11 e, di nuovo, forse il Dio spinoziano. Accanto a The Pale, al suo andare e tornare dal mondo così come si viene e si va dagli stati che comunemente chiamiamo vita e morte “after life, death; after death, life again” e“after the world, the pale; after the pale, the world again” – c’è il ballo di Harry. Un ballo che il fruitore può o meno sbloccare, così come può o meno inchinarsi davanti alla figura di Dolores Dei, di nuovo il femminino eterno di Goethe;12 e il videogioco diventa un unicum restituito solo dalla dimensione ambivalente del Sublime. 

Lo stesso giocatore si trova davanti l’Amore – a suo modo un Sublime anch’esso, per il desiderio di giungere a una dimensione troppo elevata da capire appieno, tra terrore ed estasi – raggiungendolo solo da lontano: un telefono, un sogno. Dora diventa Dolores, il sovrumano si perde in un sentimento e, di nuovo, si è molto piccoli. 

All’opposto, Disco Elysium potrebbe edificare un nuovo Sublime, il Sublime politico: quella sensazione che si prova rendendosi conto di aver mancato clamorosamente l’appuntamento con la Storia, che quando si faceva non c’eri e, anche se ci fossi stato, non sarebbe cambiato nulla. Eppure si rimane legati al cambiamento mai avvenuto, per l’attrazione terribile che porta con sé, così come un disertore su un’isola disabitata. La Natura non è più tale, perché l’immutabilità è ora creata dagli Uomini, un eterno ritorno dell’uguale a cui nessuno può sfuggire.

Un giorno.

Eppure eccolo lì, il Fasmide. La potenza che atterrisce, la vendetta delle forze oltre la comprensione – anche del videogiocatore. Il terrore, la meraviglia, la morte, la retorica (qui addirittura un elemento di gameplay) si fondono insieme, generando il Sublime. A Harry non rimane che una mano tesa in una foto, simbolicamente avente lo stesso significato del Gotico: tensione perenne, tensione per sempre.

L’arte rende l’infinito avvertibile”,13 sostiene Andreij Tarkovskij. La grande lezione di Elden Ring è di avercelo ricordato, così come a memorie lontane ci riporta una gomma da masticare. Magari al gusto albicocca.

AAS 


NOTE:

In copertina: “The Abbey in the Oakwood” (1809-10) di Caspar David Friedrich.

1 Queste le definizioni, rispettivamente, di Mathias Goeritz e Rem Koolhaas. Qui per leggerne altre.

2 Si tratta di un concetto appartenente alla filosofia di Baruch Spinoza, presente nella sua Ethica (1677).

3 Nel già citato “Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello”.

4 Più precisamente, lo sostiene nel suo splendido “Lezioni sull’analitica del sublime” (1991), edito in Italia da Mimesis (2015).

5 Cfr. con Cybertext: Perspectives on Ergodic Literature by Espen J. Aarseth, John Hopkins Univ. Press, 1997. 

6 Tranne che dall’utente lowercase di YouTube che, in questo video purtroppo con pochissime visualizzazioni, ha colto pienamente la faccenda.

7 Il riferimento è, ovviamente, a “L’Infinito” (1819).

8 Un esempio: “In Marika’s own words. O Radagon, leal hound of the Golden Order. Thou’rt yet to become me. Thou’rt yet to become a god. Let us be shattered, both. Mine other self”.

9 Per approfondire:
Bogost, I. (2007). Persuasive games: The expressive power of videogames. Boston Review.
Simulation versus Narrative: Introduction to Ludology, Gonzalo Frasca, Video/Game/Theory, Edited by Mark J.P. Wolf and Bernard Perron, Routledge, 2003.

10 Questo virgolettato, così come il precedente, è tratto da “M. Spokes, Gaming and the Virtual Sublime”, pag. 141.

11 Così in “Ensaio sobre a Cegueira”, tradotto in italiano con “Cecità” (1995).

12 Stavolta nella sua versione più “pura”, come ben analizzato in questo articolo.

13 In “Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema”, Ed. Ubulibri, 1995, pag.39.

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Metti l’orrore, togli l’orrore

Quando ripensiamo a un videogioco horror che ci ha colpiti o coinvolti, tra ciò che può rimanere con noi dopo la fruizione ci sono anche quei momenti che sono riusciti a inquietarci o spaventarci in maniera particolarmente efficace. Tuttavia, si tratta talvolta di piccoli frammenti, erosi ferocemente dal passare del tempo; al contrario, sono gli eventi, i fatti, a catturarci e rimanere fissati nella memoria. E forse questo non è un caso.

Nel documentario scritto e presentato da Slavoj Žižek, “Guida perversa al cinema” (A Pervert’s Guide to Cinema, Sophie Fiennes, 2006), il celebre filosofo e politologo sloveno, nel suo fiume impetuoso di considerazioni psicoanalitiche o di altra natura, a un certo punto sfodera una chiave di lettura alquanto intrigante e promettente riguardo il genere horror, attinente quindi anche al videogioco:

The first key to horror films is to, say, let’s imagine the same story but without the horror element. This gives us, I think,  the background.

Slavoj Žižek, A Pervert’s Guide to Cinema

Un’affermazione che potrebbe dapprima lasciare un po’ spiazzati, ma la sua applicazione sul film trattato in quel momento nel documentario, ovvero “Gli Uccelli” (The Birds, Alfred Hitchcock, 1963) ne dimostra già un piccolo assaggio del potenziale. Ed è proprio da questa considerazione che è scaturita la scintilla per questo pezzo.

Ma non è tutto. Le cose si fanno infatti ancora più interessanti non appena subentrano i film di David Lynch, dove Žižek inquadra in una maniera precisa e sorprendente tutte quelle figure maschili prive di redini e imprevedibili come Frank, interpretato da Dennis Hopper, in “Velluto Blu” (Blue Velvet, 1986). Queste sono le parole usate:

It’s not simply that they possess phallus, that they have phallus as the insignia of their authority. In a way, they immediately are phallus. […] This is the most terrorizing experience you can imagine: directly being the thing itself. […] The provocative greatness of these Lynchian obscene paternal figures is that not only they don’t have any anxiety, not only they’re not afraid of it. They fully enjoy being it. They are truly fearless entities beyond life and death […]. And then, in the end, [they] are sacrificed.

Ibidem

Ed è qui che giunge l’epifania di questa introduzione, la luce che filtra dal vetro della chiesa e investe John Belushi in The Blues Brothers in tutta la sua forza rivelatrice: come si fa ad ascoltare questa descrizione senza andare subito col pensiero a una delle figure più perturbanti (ma anche morbosamente affascinanti) uscita dalla mente di Masahiro Ito? Stiamo parlando, naturalmente, del ben noto Pyramid Head presente nel famoso videogioco horror Silent Hill 2 (Konami, 2001).

In “Velluto Blu”, Frank in realtà non punta la mano verso il protagonista (non sa di essere spiato),
ma i due gesti sono molto simili.

A questa considerazione ne è seguita subito un’altra, quasi prepotente un po’ come queste figure paterne deviate appena descritte. Se David Lynch è stato in grado di dare corpo a queste entità fuori dal comune semplicemente incanalando il talento dei suoi attori in carne e ossa, di conseguenza l’approccio estetico dei Silent Hill, così “sboccato” e sopra le righe, è da considerarsi un espediente maturo dell’horror psicologico a tutti gli effetti?

Questo interrogativo è volutamente provocatorio e, per ora, verrà lasciato in un cassetto. Torniamo invece alle premesse dell’articolo: togliere l’horror dal videogioco, o meglio da quei titoli da esso contraddistinti, per vederci più chiaro e, chissà, magari ricavare qualcosa di più da ciò di cui si è discusso e ridiscusso fino a oggi. E perché non cominciare proprio… da Silent Hill?

In effetti, per gran parte di questo articolo saranno affrontati i primi capitoli di Silent Hill. Essendo un filone piuttosto importante abbiamo ritenuto che adottare quest’ottica curiosa proprio sui primi tre titoli (molto simili e diversi al tempo stesso), poteva mostrarne le potenzialità creando anche una base coesa per il discorso. Le vicende rispettive saranno richiamate quanto basta a sostenere il discorso per non allungare il brodo in maniera superficiale.

Crescita, identità, separazione e ricongiunzione

[DISCLAIMER: Oh, va da sé che ci saranno pure i cosiddetti SPOILER qua e là. Pronti? Si parte]

Il primo capitolo della saga1 è stato un fulmine a ciel sereno per la community degli appassionati del videogioco survival horror (e non) dell’epoca, un genere che proprio in quel periodo stava ancora forse costruendo il suo linguaggio nel medium, sondando il terreno riguardo la possibilità di muoversi liberamente in un ambiente totalmente tridimensionale. Il primo Silent Hill è molto importante in questo e molti altri sensi, e anche se ne ribadissimo in questa sede tutte le ragioni (come meriterebbe), difficilmente aggiungeremmo qualcosa rispetto ai molti contributi e dibattiti che si sono sviluppati in seno a questo capitolo fondamentale negli anni.

Sì Cheryl ora parliamo anche di te, non ti preoccupare.

Cominciamo invece la nostra “Cura Alfredo” proprio su questo titolo di culto (il nostro direttore non stravede per tutte le manifestazioni del perturbante, soprattutto lato videogioco horror, da cui il nome goliardico). Via l’orrore. Al bando le presenze striscianti, saltellanti, gorgoglianti e poco sensibili al nostro spazio personale. Le grate arrugginite che si affacciano sull’abisso non ci sono più. Il comune ha riparato le voragini delle strade e disinfestato il vicinato. Via persino gli orrori non riconducibili al soprannaturale (stiamo parlando, naturalmente e purtroppo, delle vessazioni subite da Alessa Gillespie). Ecco fatto.
Che rimane? Che ci crediate o no, moltissimo.

Tutto comincia con la scelta di un viaggio. A scegliere la destinazione, tuttavia, non è il protagonista Harry Mason, ma sua figlia Cheryl. Quest’ultima sente il richiamo della sua altra metà, Alessa Gillespie, che la (ri)conduce a Silent Hill. Questo fattore tuttavia fa già parte innegabilmente della sfera del soprannaturale ed è quindi da accantonare ai fini della “Cura Alfredo”. Teniamo presente invece, semplicemente, il fatto che Cheryl abbia detto al padre dove voleva andare. Questa bambina ha sette anni e, solitamente, le vacanze vengono organizzate dai genitori e non dai figli. Ma non questa volta.

In seguito all’incidente d’auto ritratto nella scena introduttiva, Cheryl fugge improvvisamente dal padre mettendosi tra l’altro, per un attimo, in una posa molto curiosa e difficilmente riconducibile all’indole di una bambina. Sembra già adolescente, quasi indisposta e distante.

Questa breve cutscene serve proprio a far intendere al giocatore che Cheryl non è già più la stessa.

Il cambiamento avviene all’improvviso e forse, con un poco di fantasia, persino l’automobile in cui stanno Harry e Cheryl può essere interpretata come un nucleo protetto in cui a guidare c’è il padre (la moglie di Harry è morta qualche anno prima dell’inizio della vicenda). L’incidente quindi potrebbe rappresentare una rottura del patto, unita al desiderio della futura adulta di essere più indipendente. Di lì a poco, infatti, verrà assorbita da una ragazza che ha il doppio dei suoi anni (e quindi adolescente a tutti gli effetti).

Cheryl non conosce Alessa: è una sconosciuta, ma percepisce che c’è un legame tra loro indissolubile, che la richiama. Volendo, si potrebbe leggere questa dinamica come il processo in cui si va a formare la propria personalità crescendo: sai che diventerai qualcosa di diverso, ma non esattamente cosa.

Silent Hill, insomma, potrebbe avere come tematica centrale e sullo sfondo (il background, per usare le parole di Slavoj Žižek citate in apertura) proprio la tematica della crescita. Harry, spiazzato da questo cambiamento in Cheryl, continua a cercare sua figlia inseguendo ciò che conosce di lei, forse in un’iniziativa alimentata dal suo rifiuto di accettare la realtà: la cerca nella scuola elementare, all’ospedale, in giro per la città inseguendo e servendosi, tra l’altro, di oggetti legati all’infanzia. Ma senza successo, perché Cheryl non è più una bambina e, forse, quella figura che grida aiuto, che si vede brevemente nei tubi catodici del centro commerciale, è nient’altro che un imbroglio: la Cheryl fanciulla a quel punto, probabilmente, non esiste già più.

Alcuni criticarono l’aspetto tecnico del primo Silent Hill, nonostante abbia, di fatto, ambientazioni spesso più dettagliate dei fondali pre-renderizzati del primo Resident Evil, un altro famosissimo videogioco horror.

L’adolescenza è un’età turbolenta, un ricettacolo di cambiamenti profondi e non solo fisici e Alessa, completamente bendata a causa delle ferite che si incontra a fine gioco, potrebbe, volendo, essere interpretata come un bozzolo pronto a schiudersi (il gioco dà ampio credito a questa lettura, in uno dei finali). Se continuiamo ad applicare questo approccio alla storia, la migliore conclusione ottenibile ci restituisce una lettura interessante e, forse, più positiva di quella offerta da Silent Hill stesso, se preso alla lettera.

La nuova figlia di Harry, frutto dell’unione tra Cheryl e Alessa2, è una congiunzione, una “fusione completa” (come quella che avviene tra Motoko Kusanagi e il puppet master in Ghost in the Shell, se vogliamo), tra la sua indole fanciullesca e quella adolescenziale. Il risultato di questo processo non è del tutto l’una o l’altra metà, ma, appunto, qualcosa di completamente nuovo. E se questa “nuova Cheryl” prende la forma di una bambina appena nata, beh, con un piccolo sforzo di fantasia si potrebbe spiegare in una maniera molto semplice: per quanto noi cresciamo e cambiamo, i nostri genitori ci vedranno sempre come i loro pargoli.

Poi chissà, magari il Team Silent voleva proprio omaggiare le nuove fattezze di Kusanagi (seppur alla lontana) rappresentata nella trasposizione in film di animazione (Mamoru Oshii, 1995).

Col senno di poi, è quasi assicurato che il Team Silent abbia reso omaggio anche
a questo film di animazione, nella loro opera prima.

È chiaro come questa interpretazione ignori o reinterpreti volutamente molti elementi legati al sovrannaturale, come anticipato, ma l’obiettivo non è snaturare la vicenda, bensì provare a offrire una lettura ulteriore interpretando la storia basandosi sull’essenziale.

Liberarsi dello strato nero e appiccicoso dell’orrore dai capitoli successivi fino al terzo (un limite scelto arbitrariamente per motivi di continuità e logistici), produce effetti molto diversi tra loro. Questo strumento di interpretazione, forse, ha quindi un’altra peculiarità che vedremo proprio ora.

Togliere l’orrore, uno strumento critico

Silent Hill 2, il “gigante in casa” non solo della serie ma all’interno del videogioco survival horror, reagisce molto bene a questa operazione di “disorrorizzazione” (sarà l’ultima volta che leggerete questa parola, promesso) e per un motivo molto semplice. Banalmente, tutto ciò che è perturbante e disturbante è costruito creativamente – e fedelmente – sulle premesse narrative, insieme ai background dei compagni di sventura che ne compongono il cast. Levare l’orrore in Silent Hill 2 non è un’operazione distruttiva per la trama, in quanto questa carica serve quasi esclusivamente come sovrastruttura atta, come suggerito, a poter collocare quest’opera sotto il genere del videogioco survival horror.

Tuttavia, certi elementi perturbanti in Silent Hill 2 creano scene anche toccanti: come dimenticare il dialogo tra James e Angela, poco prima che quest’ultima salga su per una scala circondata dalle fiamme? “Lo vedi anche tu? Per me è sempre così”. Escludere l’orrore da Silent Hill 2, riflettendoci, è un po’ come adottare il punto di vista di un personaggio molto speciale: Laura. Questa bambina può infatti girare per la città indisturbata e interagire con tutti i personaggi vedendoli semplicemente per ciò che sono, così come è possibile per noi utenti parlare del dramma di James Sunderland senza citare una sola creatura. La parola “amore” potrebbe lasciare stupiti trattandosi di un videogioco survival horror, ma è tutt’altro che fuoriluogo: Silent Hill 2 è, a tutti gli effetti, anche una storia d’amore.

Questo approccio, a conti fatti, forse non offre interpretazioni ulteriori quando un’opera è stata realizzata in maniera così competente, così conscia del fatto che l’orrore certe volte non è altro, in fondo, che un buon trucco applicato su un attore talentuoso. Per tornare all’interrogativo provocatorio posto a inizio articolo, se Pyramid Head fosse stato semplicemente un doppio disinibito di James Sunderland in tutto e per tutto, il gioco avrebbe avuto forse qualche problema in più con la censura e ci saremmo persi nel frattempo un’entità irripetibile (e purtroppo poi riproposta fuori contesto per motivi squisitamente commerciali), ma non sarebbe stato violato il “patto tematico” con il fruitore.

Se non conoscete la storia di Silent Hill 2 non sta a noi raccontarvela: giocatelo e fatela vostra.

La città di Silent Hill non ha orrori in serbo per Laura, ma Laura non ha peli sulla lingua per James e Eddie.
Questo è tutt’altro che casuale.

L’orrore nasconde le criticità, ma non i protagonisti

La “Cura Alfredo”, invece, mette in luce alcune debolezze del terzo capitolo della saga di Silent Hill. Lungi dall’essere un brutto gioco, opera però uno squilibrio pesante tra elementi soprannaturali e una controparte tangibile, per noi, su cui lavorare. Questo probabilmente è dovuto al fatto che l’intera vicenda poggia e si sviluppa su una base prevalentemente irrazionale, in quanto seguito diretto del primo capitolo. Proviamo a stilare un elenco di queste criticità per poi passare, invece, a un tentativo di interpretazione capace di elevare questo videogioco il quale, seppur forse non all’altezza dei suoi predecessori horror in toto, rimane comunque più che degno di essere affrontato.

Che poi Silent Hill 3, col tutto che gira su una PS2, è uno spettacolo.

Prima di partire con la lista, è curioso notare come l’esistenza della protagonista Heather tecnicamente non sarebbe plausibile3, in quanto creata da un miracolo perpetrato dalla “fusione completa” di Cheryl e Alessa. Ma non è questo il modo corretto di applicare questa chiave di lettura e quindi ciò rimarrà solo una postilla leggera leggera. Partiamo, invece, con le reali criticità:

  1. Molte creature che fungono da nemici non corrispondono a un’elaborazione meta-referenziale di traumi o complessi della protagonista o altri personaggi, creando quindi un vuoto strutturale una volta rimossi dall’equazione. Le elucubrazioni dei fan, per quanto interessanti, non possono concretamente fare testo e sopperire a queste mancanze.
  2. Un’attenzione ed espansione eccessiva di tutto ciò che riguarda il culto segreto presente nel primo capitolo, un elemento che non mai avuto veramente peso e che è destinato a non apportare nulla in questa sede.
  3. Infine, Silent Hill 3 comincia forse a mostrare tutti i limiti di un approccio estetico troppo diretto, volutamente morboso e votato all’eccesso per quanto concerne le creature che fungono da ostacoli e nemici (ma anche le ambientazioni raggiungono vette mai viste in SH3). Un limite, per metterla giù in maniera forse un po’ brusca, probabilmente legato al fatto che i tipi di genitali umani sono due e non dieci (i riferimenti visivi alla sessualità e alla gravidanza si sprecano in questo capitolo). Ciò è riscontrabile sia quando esista o meno un background (di nuovo questa parola) per le fattezze di questi esseri.
Masahiro Ito esprime in questi tweet una delle criticità. E chi meglio di lui?

Se è vero che escludere l’orrore da Silent Hill 3 non lascia granché su cui elaborare rispetto ai predecessori per i motivi sopracitati, sicuramente non esclude la centralità della sua protagonista. I colori scelti per i suoi vestiti hanno tanto da dire e, forse, tale discorso impatta anche sull’antagonista Claudia, se presa nella sua essenza.

In primis, di Heather si nota una giacca smanicata bianca su cui torneremo a breve. Subito sotto, invece, una magliettina a collo alto senza maniche e di colore arancione. Questo tonalità è tutt’altro che casuale e si ottiene attraverso l’unione di altri due colori (chiaro, no?), cioè il giallo (Cheryl) e il rosso (Alessa). Questo abbinamento è perfettamente coerente con le personalità del primo capitolo. Abbiamo, infatti, una Cheryl solare, allegra, spesso sorridente; al tempo stesso, un’Alessa legata a sentimenti impulsivi e a elementi quale il sangue e la ruggine.

A onor del vero, il rosso ha naturalmente anche connotazioni positive e, forse, anche queste traspaiono nel finale canonico del primo Silent Hill che dà luogo alle vicende del terzo capitolo: non è forse un atto di amore quello di dare al povero Harry Mason la possibilità di crescere una nuova figlia? Il colore arancione, inoltre, è presente in ben due braccialetti indossati da Heather, un modo forse per simboleggiare il fatto che la ragazza non reprime completamente se stessa, ma è semplicemente estremamente cauta per cause di forza maggiore.

Non abbiamo l’arroganza di pensare di essere stati i primi a proporre questa interpretazione basata sui colori,
ma possiamo garantire sulla spontaneità dell’intuizione.

Questi due tratti si traducono in una Heather tecnicamente pronta ad amare, già molto affezionata a suo padre e capace di dimostrarsi sia premurosa che pronta a tirare fuori le unghie per difendersi da chi ha intenzioni poco chiare. Ciò si riassume nell’arancione, acceso e quindi vitale ma che, inoltre, può sottintendere una certa difficoltà nell’aprirsi agli altri. Non è un caso che questa tonalità sia nascosta, quasi del tutto, da una giacchetta di colore bianco che suggerisce sì purezza ma, al tempo stesso, forse negazione e un celarsi a scopo protettivo: le tasche piene danno quasi l’impressione di cuscinetti anti-urto. Anche questa è una scelta non casuale, come se Heather volesse nascondere con una maschera incolore la sua identità – per proteggersi anche dal culto che le dà la caccia, senza dubbio.

Claudia, antagonista del titolo, rappresenta (forse banalmente) la parte più istintiva e negativa di Heather e, non a caso, fin dall’inizio del titolo cerca di risvegliare in lei istinti violenti4 che, non a caso, porteranno al possessed ending nel caso il giocatore faccia strage delle creature nel corso della partita. La presenza di un boss ulteriore che è, in tutto e per tutto, una metà oscura della protagonista, potrebbe risultare quasi didascalico proprio alla luce di queste considerazioni.

Un ultimo dettaglio degno di menzione, sempre riguardo gli indumenti, potrebbe essere la gonna verde scuro di Heather, quasi a simboleggiare l’equilibrio (o un desiderio dello stesso).

Oltre la siepe della collina silenziosa

Dopo aver affrontato i primi tre esponenti della saga di Konami, proviamo ad adottare questo metodo anche per altri titoli ma senza perdere però d’occhio il director del primo capitolo: stiamo parlando di Keiichiro Toyama. Nonostante non fosse particolarmente devoto al genere horror all’inizio della sua carriera, dopo il primo Silent Hill andrà a realizzare un titolo forse ancora più spaventoso e opprimente, ovvero Forbidden Siren (2003).

A long time ago, when I was getting materials from the foreign press for [sic] Silent Hill, they would ask me things like, “You’re Japanese – why are you making a game that sounds like a Hollywood movie?” (laughs). But I guess they were [sic] right. Also, […] the movie version of The Ring and Kiyoshi Kurosawa’s “Cure” had achieved worldwide popularity… It was also around the time I read Fuyumi Ono’s horror novel “Shiki”, which left a strong impression on me. I guess you could summarise the phenomenon as a “J-horror” boom. That’s when I decided I wanted to try showing the world original Japanese horror.

Keiichiro Toyama, riportata su Siren Maniacs

Siren (サイレン, titolo originale giapponese), per chi non lo sapesse, si svolge nel villaggio fittizio di Hanuda che viene improvvisamente colpito da una pioggia rossa insistente. Questa pioggia, oltre a circondare il villaggio di montagna con un lago cremisi, converte la quasi totalità della popolazione in shibito (屍人, letteralmente “persone morte”), contraddistinte da lacrime di sangue che però conservano, almeno in uno stadio iniziale, tutte le fattezze originarie delle vittime di questa trasformazione. Solo una manciata di abitanti conserva la sua umanità e sarà controllata, di volta in volta, dal giocatore per cercare di portarli tutti in salvo. Una peculiarità del titolo è il fatto che i sopravvissuti hanno un’abilità detta sightjacking che permette loro di vedere attraverso gli occhi degli shibito circostanti, vero motore delle meccaniche stealth dell’opera.

E se levassimo tutto l’orrore, quali letture si potrebbero avanzare? Senza dubbio più di una: per esempio, si potrebbe mettere sul tavolo il fatto che una manciata di individui, improvvisamente, si ritrova a essere la minoranza di una piccola società la quale, per sopravvivere, è costretta ad adottare letteralmente il punto di vista della nuova maggioranza per passare inosservati e confondersi con gli altri. A questo punto possiamo applicare a questa base diverse letture ulteriori, come il fantasma di regimi totalitari se non addirittura il timore xenofobo di ritrovarsi improvvisamente circondati da stranieri. E come non dimenticare il detto giapponese sul “battere i chiodi che sporgono”, che richiama il concetto per cui il gruppo viene prima dell’individuo?

La tecnologia usata per creare i volti dei personaggi è terribilmente efficace. Siamo sempre su PS2 e questa è una cattura a risoluzione originale.

A questo punto potrebbe essere interessante, e forse persino divertente, applicare questo processo un po’ a tutti i nostri titoli horror preferiti – siano essi un videogioco o meno – e scoprire se il perturbante serve a celare qualcosa di più oppure è un semplice divertissement5. Qualche rapido esempio in soldoni:

  • Danganronpa (Spike Chunsoft), tolti gli omicidi e con una spintarella in questa lista, non è forse la riproposizione volutamente marcata dell’individualismo che ci costringe, seppur indirettamente, a liberarci della concorrenza per realizzare i nostri desideri e ambizioni ogniqualvolta si passa per un processo di selezione?
  • The Missing: J. J. Macfield and the Island of Memories (White Owl Inc, 2018), tolte le automutilazioni volte alla risoluzione di enigmi e l’entità che ci perseguita, è nella sua essenza una storia molto toccante di cui non vogliamo privarvi del piacere di scoprire.
  •  In Ghostwire: Tokyo (Tango Softoworks, 2022) troviamo un nemico che che racchiude un po’ tutti i timori e ansie del periodo liceale. La cosa particolare e parecchio brillante è il modo in cui può annunciare la sua posizione nell’ambiente: la suoneria di un cellulare, simile a quella udita quando si riceve un messaggio. Informazione di gameplay e sottotesto in un unico pacchetto.

Ma stiamo cominciando a perdere il fuoco della questione ed è meglio fermarsi qua. Dopotutto, è impossibile fare esempi davvero validi e approfonditi senza affrontare in maniera dettagliata altri videogiochi e questo articolo è già abbastanza “longevo” così com’è. Come dite? Pensate che questo aggettivo sia fuori luogo? Non avete torto, ma non è neppure così azzeccato anche per i videogiochi che vantano una durata eccessiva se ci si riflette bene. Ma questa è un’altra storia.

Rimuovere l’orrore per vederci più chiaro, in fondo, non è poi affatto diverso dal rimuovere anche quegli elementi spiccatamente di fantasia o fantascientifici in modo da percepire gli eventi sotto una lente che ci restituisca uno scenario purificato e raffinato da quei dettagli costruiti intorno alla struttura portante di un’opera. Talvolta, come nel caso dei fratelli e autori di fantascienza russi Boris e Arkady Strugatksy6, il punto di affidarsi proprio a questo genere era quello di distrarre i censori.

Per fare un esempio classicissimo e forse scontato: che cos’è l’anello del potere di Tolkien se non altro che un oggetto che finisce per possedere le persone? E questo oggetto non ne abbiamo ora uno tutti in casa? Stiamo parlando, naturalmente, dei telefoni cellulari. Ma la lista sarebbe infinita, e non solo relativa all’unica casistica del videogioco horror.

LR


1 Pur essendo, senza per questo voler essere riduttivi, una rielaborazione di Carrie (1974, trasposizione cinematografica del 1976 di Brian de Palma) di Stephen King. E, forse, pure con una spruzzatina di Phantoms (1983, trasposizione cinematografica del 1998) di Dean Koontz, autore tra l’altro omaggiato in una delle vie della città.

2 Nel gioco, in realtà, l’entità creata tramite il rituale crea una nuova bambina prima di perire con le ultime forze, ma che probabilmente è una copia di se stessa. Ciò è confermato dal finale del terzo capitolo.

3 È corretto però precisare come la stessa esistenza di Cheryl sia, di fatto, frutto di un fenomeno paranormale. La giovane è infatti il risultato della scissione avvenuta in Alessa per preservare la sua parte più buona e, probabilmente, evitare che venisse contaminata dai preparativi del rituale operati dalla madre Dahlia. Tuttavia, siccome la sua esistenza è data per assodata per gran parte del gioco si è forse più portati a inquadrarla come tale anche a seguito della rivelazione.

4 Chi ha giocato al videogioco horror Silent Hill 3 ricorderà molto bene la scena non interattiva dove Heather spara diversi colpi di pistola a un Closer nel negozio di abbigliamento del centro commerciale. Questa scena in realtà è una farsa, in quanto il nemico non cade a causa dei proiettili ma in maniera arbitraria (e probabilmente per intervento diretto di Claudia) dopo diversi secondi dall’ultimo colpo esploso. Il suo scopo è raggiunto: risvegliare in Heather istinti violenti. Non è un caso che chi scrive ha rinunciato ad attaccare qualsiasi nemico per tutta la partita, quasi per ripicca (a eccezione dei boss, ovviamente). In un certo senso, Claudia interviene fin dalla prima schermata di avvertimento sui contenuti, presente all’avvio del gioco: l’immagine, infatti, mostra Heather che finisce un nemico atterrato con un tubo di acciaio. Come a dire che i contenuti violenti del videogioco horror non sono le creature, ma un giocatore che accetta di farne una strage.

5 E teniamo a precisare che non abbiamo assolutamente nulla in contrario. Dopotutto, i titoli brillanti e caciaroni come Lollipop Chainsaw sono più che i benvenuti!

6 Il loro romanzo più famoso è probabilmente “Picnic sul ciglio della strada” (Пикни́к на обо́чине, 1972), ma noi consigliamo vivamente anche “Lunedì inizia sabato” (Понедельник начинается в субботу, 1965).

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Perché Mad Max ha un open world perfetto

’open world è ormai molto comune nei videogiochi, e Mad Max non fa eccezione. La diffusione è talmente massiccia che molti giocatori sono in grado di indentificare la formula di un mondo aperto in poco tempo: “questo è alla Ubisoft”; “questo è alla The Witcher 3”; “questo è alla GTA”; “questo è alla Bethesda”.

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Immortality o sulla consumazione di se stessi

Immortality o sulla consumazione di se stessi

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Il punto di questa lunga premessa, è che sembra impossibile a chi scrive anche solo iniziare a parlare di Immortality (Sam Barlow, Half Mermaid Productions, 2022) senza citare un immortale classico del cinema come Sunset Boulevard; e peraltro, tenendolo a mente come vero e proprio riferimento generale, in grado di aiutarci a inquadrare la nostra comprensione. Non tanto da un punto di vista stilistico, quanto piuttosto su un piano interpretativo della natura intima dell’arte in quanto fenomeno umano.

Sam Barlow, l’autore di Immortality, naturalmente non è nuovo a questo genere di utilizzo laterale del linguaggio cinematografico. L’autore sa come smontare un linguaggio e come proporre al videogiocatore il capirlo e ricomporlo. Perché in effetti – forse portando a termine un piccolo tradimento nei confronti del medium di appartenenza – di grammatica cinematografica si tratta, ma utilizzata alla stregua di un rompicapo all’interno di un contenitore certamente videoludico.

Immortality, come videogioco, potrebbe sembrare un semplice tetris di scene da trovare e, al limite, mettere in ordine. Ma Immortality in quanto cinema, è l’esplosione del linguaggio stesso. Sam Barlow ci serve su un piatto d’argento il cinema nudo e crudo, già disossato, senza alcuna decorazione e sovrastruttura. Un medium dentro l’altro. Scarno, metodico e marginale il primo. Malinconico, mistico e incomprensibile il secondo.

Allo stesso tempo, però, Immortality diventa sorprendentemente ludico, in tutti i sensi. Non tanto sul piano che si definirebbe generalmente gameplay, quanto a un livello forse più alto. Perché gioca – certo, attraverso strumenti basilari, quelli del montaggio – con l’aspettativa doppia del videogiocatore e dello spettatore. Creando così una consapevole sensazione di controllo sul mondo di gioco.

Ad ogni modo, Immortality non può essere in nessun caso considerato cinema – anche se agisce come il cinema, mima il cinema, si fa crisalide e contenitore di immagini in movimento – perché si comporta in tal modo al solo scopo di far videogiocare lo spettatore. Questa potrebbe pure sembrare una sottile contraddizione, ma prendetela invece come un’intenzionale provocazione.

Di cosa parliamo quando parliamo di Immortality

Immortality, dunque. L’ultimo videogioco di Sam Barlow (Her Story, 2019, Telling Lies, 2015 e prima come lead designer di Climax Studios, Silent Hill: Origins, 2007 e Silent Hill: Shattered Memories, 2009) è in definitiva un puzzle game di natura, forse al limite, un poco controversa. 

Di fatti, non fa altro che mettere a disposizione del videogiocatore alcuni frammenti di pellicola (il cosiddetto found footage) appartenenti a tre diversi film mai rilasciati al cinema, che hanno, come unica correlazione tra di essi, l’interpretazione di un ruolo da parte dell’attrice prematuramente scomparsa Marissa Marcel. I tre film – Ambrosio (1968) come medium del peccato, Minsky (1970) come medium della violenza, Two of Everything (1999) come medium dell’alter ego – sono un simulacro di mezze verità in cui il videogiocatore acquisisce la capacità di elaborare le varie scene, gestendole come se si trovasse in sala di montaggio. Avanti, indietro, fermo-immagine e un singolo input di ricerca di punti d’interesse e conferma, sono la componente unica del gameplay. Ma questi pochi comandi, che potrebbero sembrare scarni e quantomeno banali ad un’analisi pregiudiziale, si rivelano essere talmente potenti, nel contesto della grammatica utilizzata dall’autore, da rendere il videogiocatore onnipotente di fronte alla scoperta della verità degli eventi di gioco. Si tratta solo di impegnare il tempo adeguato e ogni segreto di Immortality verrà svelato, proprio ogni singolo nodo verrà al pettine, senza l’utilizzo di nessun tipo di abilità particolare. 

Questo tipo di interazione, rompendo completamente il rapporto classico tra spettatore e film nel medium cinematografico, permette al videogiocatore di impersonare allo stesso tempo una funzione sia passiva che attiva. Permette di entrare e uscire dalla quarta parete continuamente, senza la minima remora riguardo quel tacito accordo tra opera e spettatore chiamato normalmente sospensione dell’incredulità. Quest’ultima diventa, letteralmente, un concetto che non ci riguarda più. Entrare e uscire dal quadro si diceva, proprio a creare uno spazio terzo che si situa esattamente tra il salotto di casa di David Lynch e una strana idea precostituita di quello che il cinema o il videogioco possono non essere.

Sunset Boulevard (Billy Wilder, 1950) si apre con l’inquadratura del cadavere galleggiante di uno sceneggiatore, nella piscina di una grande villa hollywoodiana. Questa rimane, con pochissime concorrenti, l’immagine probabilmente più attraente che si possa trovare di quel cinema, per simbolismo o per auto-compiacimento degli autori stessi. La morte dello sceneggiatore all’inizio di un film, del resto, non è altro che l’invasione di un sottile meccanismo della psiche umana nell’intimo del processo creativo. Anzi, un vero e proprio impulso distruttivo, capace peraltro di raggiungere apici decisamente più alti del corrispettivo creativo. Si potrebbe definire senz’altro un lapsus nel normale racconto del cinema classico americano, che ha pure il merito di mostrare la natura quantomeno doppia, perversa e distruttiva della più alta forma di aspirazione umana.

Gloria Swanson interpreta l’eterna diva del cinema muto, che, non a caso, coincide anche con la reale carriera dell’attrice. Si tratta dell’epoca d’oro della fabbrica dei sogni, in cui, per intenderci, il cinema aveva massimo fulgore nonché influenza nell’opinione pubblica. La stella del cinema era un modello positivo e irraggiungibile, archetipo artificiale per eccellenza, che mostrava il proprio splendore solo attraverso il filtro del medium cinematografico. Era dunque l’immagine stessa del sogno americano fabbricato ante litteram in studio.

Ed è proprio a questo punto che interviene il lapsus: lo sceneggiatore annegato – morto effettivamente già dalla prima scena del film, ma si tratta in realtà di un flash forwardsimboleggia la fine dell’impulso creativo, che viene sostituito da quello distruttivo. Gloria Swanson diventa solo una faccia, un oggetto scenico che assume valore unicamente nelle opere immortali fissate su pellicola. Tutto il resto non è altro che contorno che nasconde l’incanto. La diva, a fine carriera, diviene pazza di dolore per la perdita di quell’istante unico e ripetibile solo al cinema e, nell’attesa si consuma. Sarebbe a dire che l’artista, in generale e in quanto tale, non fa altro che soffrire della propria assenza. E dunque, si immola sul rogo costruito sul sacro altare dell’arte.

Ora, si potrebbe giustamente obiettare che difficilmente Gloria Swanson, Cecil B. deMille e compagnia, si possano smaltare di modernismo. Bene, è sicuramente vero. Ma, forse, basterebbe solo invertire il processo di montaggio del cinema, come intende fare Sam Barlow, guardare nel senso inverso le pellicole e scoprire il lato invisibile dello stato delle cose

Ora, considerate Gloria Swanson che continua a crogiolarsi nel suo unico passato glorioso, portata a spasso dall’autista, a bordo della sua Isotta Fraschini 8a, per l’eternità; confrontatela con Marissa Marcel che, dal canto suo, scompare dalle scene per rimanere impressa, unicamente e per sempre, in pochi metri di pellicola mal tagliata. Insomma, disegnate mentalmente il tracciato comune dell’immortalità. Immaginatelo, perché il punto di arrivo di tutto infatti, non è altro che questo, fermare il tempo, lasciare una traccia di sé nel mondo. Almeno dal punto di vista di quelli che ancora oggi, come noi, esercitano una forma primitiva di reiezione nei confronti della morte.

Il punto di questa lunga premessa, è che sembra impossibile a chi scrive anche solo iniziare a parlare di Immortality (Sam Barlow, Half Mermaid Productions, 2022) senza citare un immortale classico del cinema come Sunset Boulevard; e peraltro, tenendolo a mente come vero e proprio riferimento generale, in grado di aiutarci a inquadrare la nostra comprensione. Non tanto da un punto di vista stilistico, quanto piuttosto su un piano interpretativo della natura intima dell’arte in quanto fenomeno umano.

Sam Barlow, l’autore di Immortality, naturalmente non è nuovo a questo genere di utilizzo laterale del linguaggio cinematografico. L’autore sa come smontare un linguaggio e come proporre al videogiocatore il capirlo e ricomporlo. Perché in effetti – forse portando a termine un piccolo tradimento nei confronti del medium di appartenenza – di grammatica cinematografica si tratta, ma utilizzata alla stregua di un rompicapo all’interno di un contenitore certamente videoludico.

Immortality, come videogioco, potrebbe sembrare un semplice tetris di scene da trovare e, al limite, mettere in ordine. Ma Immortality in quanto cinema, è l’esplosione del linguaggio stesso. Sam Barlow ci serve su un piatto d’argento il cinema nudo e crudo, già disossato, senza alcuna decorazione e sovrastruttura. Un medium dentro l’altro. Scarno, metodico e marginale il primo. Malinconico, mistico e incomprensibile il secondo.

Allo stesso tempo, però, Immortality diventa sorprendentemente ludico, in tutti i sensi. Non tanto sul piano che si definirebbe generalmente gameplay, quanto a un livello forse più alto. Perché gioca – certo, attraverso strumenti basilari, quelli del montaggio – con l’aspettativa doppia del videogiocatore e dello spettatore. Creando così una consapevole sensazione di controllo sul mondo di gioco.

Ad ogni modo, Immortality non può essere in nessun caso considerato cinema – anche se agisce come il cinema, mima il cinema, si fa crisalide e contenitore di immagini in movimento – perché si comporta in tal modo al solo scopo di far videogiocare lo spettatore. Questa potrebbe pure sembrare una sottile contraddizione, ma prendetela invece come un’intenzionale provocazione.

Di cosa parliamo quando parliamo di Immortality

Immortality, dunque. L’ultimo videogioco di Sam Barlow (Her Story, 2019, Telling Lies, 2015 e prima come lead designer di Climax Studios, Silent Hill: Origins, 2007 e Silent Hill: Shattered Memories, 2009) è in definitiva un puzzle game di natura, forse al limite, un poco controversa. 

Di fatti, non fa altro che mettere a disposizione del videogiocatore alcuni frammenti di pellicola (il cosiddetto found footage) appartenenti a tre diversi film mai rilasciati al cinema, che hanno, come unica correlazione tra di essi, l’interpretazione di un ruolo da parte dell’attrice prematuramente scomparsa Marissa Marcel. I tre film – Ambrosio (1968) come medium del peccato, Minsky (1970) come medium della violenza, Two of Everything (1999) come medium dell’alter ego – sono un simulacro di mezze verità in cui il videogiocatore acquisisce la capacità di elaborare le varie scene, gestendole come se si trovasse in sala di montaggio. Avanti, indietro, fermo-immagine e un singolo input di ricerca di punti d’interesse e conferma, sono la componente unica del gameplay. Ma questi pochi comandi, che potrebbero sembrare scarni e quantomeno banali ad un’analisi pregiudiziale, si rivelano essere talmente potenti, nel contesto della grammatica utilizzata dall’autore, da rendere il videogiocatore onnipotente di fronte alla scoperta della verità degli eventi di gioco. Si tratta solo di impegnare il tempo adeguato e ogni segreto di Immortality verrà svelato, proprio ogni singolo nodo verrà al pettine, senza l’utilizzo di nessun tipo di abilità particolare. 

Questo tipo di interazione, rompendo completamente il rapporto classico tra spettatore e film nel medium cinematografico, permette al videogiocatore di impersonare allo stesso tempo una funzione sia passiva che attiva. Permette di entrare e uscire dalla quarta parete continuamente, senza la minima remora riguardo quel tacito accordo tra opera e spettatore chiamato normalmente sospensione dell’incredulità. Quest’ultima diventa, letteralmente, un concetto che non ci riguarda più. Entrare e uscire dal quadro si diceva, proprio a creare uno spazio terzo che si situa esattamente tra il salotto di casa di David Lynch e una strana idea precostituita di quello che il cinema o il videogioco possono non essere.

Prendiamoci pure in giro.

Ora giochiamo con Sam Barlow & co.

Sam Barlow sgancia completamente il videogiocatore da qualsiasi velleità illusoria connessa alla magia del cinema, restituendola quantomeno trascurabile, perché ne smonta il linguaggio, rendendolo quindi visibile al videogiocatore. Allo stesso tempo, mette in opera il procedimento esattamente contrario riguardo il linguaggio videoludico, nascondendolo dietro l’utilizzo di un sistema d’interazione striminzito e alienante per sua stessa natura. Desertificandolo di opzioni e profondità.

Arrivare a conoscere fino in fondo i misteri di Marissa Marcel, il suo contesto lavorativo e i tre film da lei interpretati, si traduce infatti nel continuo zoomare e scrutare, fotogramma per fotogramma, alla ricerca di punti di interesse da cliccare, auspicando che possano portarci al frammento di pellicola successivo e non uno già visto. Per poi illudersi ancora, nella speranza di completare una sorta di cronologia filmica, che in ogni caso diventa impossibile vista  la narrativa dei tre film, completamente rotta e rimarginata nei buchi di trama con spezzoni di contorno: interviste, scene sul set, riprese delle prove degli attori e altro ancora.

Questo tipo di procedimento fisso, può risultare alienante, almeno alla lunga, se accostato alla natura intrinseca del gesto, cioè l’atto di guardare e riguardare continuamente le scene in questione. A questo si può aggiungere una sorta di inquietudine, che nasce invece dalla meccanica che serve a scoprire i frammenti di film nascosti all’interno delle pellicole. Infatti, durante la normale visione delle scene, può capitare di sentire un suono basso e sordo che stride particolarmente con il resto del flusso audiovisivo. È in quel momento che si possono trovare, riavvolgendo all’indietro la pellicola con attenzione, alcune scene nascoste altrimenti invisibili. Si tratta generalmente delle scene in cui fa la sua apparizione la componente soprannaturale del racconto di Immortality, nella forma di due esseri non-umani che coesistono ai protagonisti immaginati da Sam Barlow.

Montage brutal e soprannaturale

Una cosa è chiara da subito – a dire il vero proprio già dai primissimi istanti – videogiocando Immortality: si percepisce un mistero latente che sovrasta ogni livello cognitivo. È presente naturalmente nello svolgersi degli eventi, nello svolgersi del gameplay, nelle immagini, nei suoni e nell’interpretazione stessa del mondo di gioco. Si crea addirittura nella percezione propria al videogiocatore, che viene continuamente stimolata da input discordanti e contraddicenti.

Basterebbe citare anche solo il menù iniziale dell’ultima opera di Sam Barlow, per essere folgorati immediatamente dalla potenza dell’immagine. Anche senza tener conto dell’impatto fortissimo di matrice lynchiana che emana, è impossibile non cogliere la connotazione soprannaturale già da questa prima schermata, in cui Marissa Marcel – magnificamente interpretata dall’attrice franco-americana Manon Gage – entra in scena sorridente, protendendosi verso uno sgabello tipico da audizione.

Come si accennava, il menù iniziale di Immortality ha già in sé diverse componenti che sono l’essenza dell’opera: per prima cosa, scorrendo tra le varie opzioni del menù, il movimento di Marissa Marcel risulta alterato nel tempo. Infatti, i fotogrammi non scorrono in senso cronologico ma appaiono disturbati, come se ogni tanto qualche frammento saltasse via. Il tutto risulta macchinoso e artificiale proprio per la mancanza di fluidità del gesto, che dovrebbe apparire invece così naturale, e al limite banale, nella realtà. In secondo luogo, lo sgabello da audizione mette subito in chiaro che Marissa Marcel è un’attrice. A un livello primordiale ci sta confidando che mente. Per ultimo, lo sgabello rimane sempre vuoto, un chiaro rimando simbolico alla scomparsa dell’attrice, nonché di generica assenza. Proprio quella di cui si parlava in premessa all’articolo, riguardo la sofferenza dell’artista che deriverebbe dalla propria mancanza.

Un aspetto particolarmente interessante, di cui vale la pena accennare, è la sinonimia che si attiva inaspettatamente nel rapporto tra montaggio e soprannaturale. Definiamola temporaneamente come una sinergia inconsapevole, ma solo perché non sappiamo quanto possa essere un aspetto voluto nella concettualizzazione dell’opera da parte degli autori. 

Montage brutal è un’associazione di immagini inattese, raccordi sorprendenti e bizzarrie di sorta che restituiscono una sensazione generalmente grottesca nello spettatore. Si nota ben presto, anche grazie all’atmosfera generale che pervade Immortality, che l’operazione compiuta dal videogiocatore nell’opera di Sam Barlow, cioè il gameplay, non fa altro che creare aberrazioni del genere attraverso l’associazione spesso casuale di vari spezzoni di girato. Questo fenomeno accentua, mediamente, la sensazione di stare manipolando materiale in cui sono spesso riprese situazioni abbastanza comuni, ma con la sgradevole sensazione che quello che si vede non sia mai tutto ciò che davvero è presente nella scena.

Si ha, attraverso questo sbandamento percettivo, l’impressione che l’invisibile sia sempre presente e, anzi, coesistente al mondo raccontato da Sam Barlow. Come in quegli horror psicologici, dove buona parte del terrore proviene direttamente dalla propria mente che immagina o addirittura simula qualcosa che non è per niente, o quasi, mostrato nell’opera stessa. Del resto, l’immagine in quanto tale, crea dei quadri cognitivi che orientano in continuazione la nostra interpretazione del reale e del fittivo.

Aggiungiamo – come a ingrassare questo tipo di atmosfera creata dal montage brutal e, nel caso di Immortality, gestito dallo stesso videogiocatore – anche i continui rimandi a una sfera religiosa quasi parossistica, con apparizioni di demoni e madonne dal gusto decisamente retrò. Un pervadente senso di colpa di stampo cattolico, che unisce in un unico fil rouge tutti e tre i film e che va degradando di gravità, dal peccato mortale di Ambrosio (1968, mai distribuito) – in cui il frate protagonista scopre i piaceri della carne grazie all’aiuto di una certa donna, interpretata da Marissa Marcel – al semplice utilizzo del sesso come oggetto di scambio.

In generale si potrebbe fare un discorso a parte solo per quanto riguarda il tema religioso e spirituale di Immortality. Sam Barlow, non a caso, inventa un film come Ambrosio, fondato sulla scelta esistenziale tra la vita terrena e la vita del dopo vita. La prima sottoposta alle leggi della natura, mentre la seconda a quelle divine. Non fosse altro, perché si tratta di una scelta morale tenace nell’accompagnare il percorso e la storia dell’uomo civilizzato. La domanda è: a quale tipo di immortalità si vuole accedere, quella di Dio e dunque dell’oltretomba oppure quella meno eterea e piuttosto storica del ricordo terreno e del corpo? 

Ambrosio affronta il tema frontalmente, riuscendo nel compito di descrivere la faticosa intermediazione tra Cielo e Terra. Trascendente e immanente, dunque. Un problema classico che tutte le religioni si sono poste prima o poi. 

I simbolismi messi in scena da Sam Barlow (assieme ai co-autori Barry Gifford, Amelia Gray, Allan Scott) in Immortality sono davvero innumerevoli, ma si potrebbero racchiudere in dei gruppi di appartenenza ben precisi: il doppio e la doppiezza. La rinascita, la ripetizione e la conservazione di se stessi. Il reale, il visibile e l’invisibile agli occhi. La deliberata confusione tra l’accezione fisica e spirituale di immortalità. Tutto è impregnato di una sorta di disillusione che sembra provenire dalla possessione diretta della verità. Ogni personaggio, infatti, presto o tardi interagirà in modo quasi sconveniente, si direbbe quasi fuori copione, mettendo così in discussione davvero ogni cosa. 

Ancora, sul simbolismo: l’utilizzo dell’innocenza di una Marissa Marcel ancora giovanissima, come chiave per spingerla a scatenare un’adeguata carica erotica sul set, rappresenta in pieno la concezione contemporanea del gesto artistico, secondo cui è proprio l’innocenza a essere nemica dell’arte.

Le Muse

In questo ultimo specifico contesto, quello della carica erotica, si nota in Immortality una fortissima allusione che riguarda appunto lo sfruttamento dell’innocenza e come questa sia assolutamente sostanziale alla necessità di fare arte. Marissa Marcel viene presentata, nel primo provino per il film Ambrosio del 1968, come una ragazzina indifesa e impreparata a quello che l’aspetta. Come una qualsiasi Shelley Duvall sul set di Shining (Stanley Kubrick, 1980), Marissa Marcel riceve continuamente incitazioni, da parte del regista, che la stuzzicano sul piano personale, per ottenerne un effetto sul set.

Sarebbe forse il caso di citare anche Maria Schneider, nel film Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972) in cui una situazione simile si produce sul set nella “famosa scena del burro”. Si è molto dibattuto in passato su questo tema, particolarmente nei casi di Shining e Ultimo tango a Parigi, come si accennava poco prima. Si è discusso se insomma, per descriverla in brutale sintesi, sia o meno giusto arrivare a fare del male alle persone per fare arte. L’ambiente del cinema, come descritto in Immortality, è una sofisticata metafora su più livelli di quello che rappresenta il concetto di innocenza per l’arte: in definitiva, nient’altro che un campo da invadere, conquistare e saccheggiare. Dunque, se crediamo a Immortality, potremmo pure azzardare en passant di posizionare Sam Barlow dalla parte di Kubrick e Bertolucci. 

Marissa Marcel, scivola dunque da un ruolo casto – fuori dal set – a uno di ammaliatrice faustiana in poche scene, segnando peraltro un percorso preciso, costellato di cattolico peccato. Non c’è bisogno di dire quanto questo passaggio sia decisivo nel rendere il personaggio (o meglio dire il meta-personaggio, dato che anche Marissa Marcel è un ruolo inventato), il doppelgänger accogliente di un essere soprannaturale, avido e parassitario come the one.

Dunque, l’essere in questione diventa il mezzo con cui l’artista (Marissa Marcel) trasfigura nella sua stessa arte (the one) e trascende dunque nell’immortalità; che di nuovo, è anche l’obiettivo ultimo del mistero cattolico

Tornando al soprannaturale, la seconda musa di Immortality è per l’appunto the one. Un essere etereo e immortale che si infila nei corpi e nelle vite di persone che ritiene in qualche modo interessanti. Oltre ad essere una fenomenale performance d’attrice, a opera di una incredibile Charlotta Mohlin, rappresenta simbolicamente l’intero spettro del sentimento umano.

In particolar modo, Sam Barlow utilizza the one proprio come personificazione della foga dell’arte, la stessa di cui si discuteva in premessa a questo articolo. Charlotta Mohlin interpreta quindi lo spirito dell’artista totale in potenza, ma dalla prospettiva quasi unica del sentimento. Dalla gioia della contemplazione alla violenza della creazione, interpreta in tutto e per tutto la sofferenza e l’impeto della creazione artistica. 

L’essere the one, infine – una cosa simile doveva abitare pure Gloria Swanson e chissà quanti altri in passato – è anche una chiara e definitiva rappresentazione dell’alter-ego. 

Come rimettere il latte versato (su cui si è pianto) nel suo contenitore

È notorio che l’entropia dell’universo e le leggi della termodinamica ci impediscano di tornare indietro nel tempo. Naturale. Nonostante la maggior parte di noi vorrebbe poterlo fare, non si può. È una legge di natura. Partendo da questo presupposto è facilmente intuibile dove, ciò che è invisibile agli occhi, potrebbe nascondersi. Ora torniamo un attimo con la mente a Gloria Swanson e al suo Viale del Tramonto: perché si potrebbe trovare ancora un senso alla famosa risposta nella quale dice che lei, riferendosi a se stessa, è rimasta grande, è il cinema ad essere diventato piccolo. 

In Immortality, il cinema diventa in effetti un luogo minuscolo e contenuto, dove tutto volendo è alla portata del videogiocatore. Tutto è scopribile, perché tutto può essere non solo, visto e rivisto, ma soprattutto perché lo scorrere naturale del tempo è alla mercé dei voleri del videogiocatore. Riavvolgere il tempo, tornare indietro è l’unico modo per vedere il soprannaturale, un’intuizione a nostro avviso particolarmente brillante da parte degli autori. Anche perché tornare indietro nel tempo, in questo caso non vuol dire rifare, ma limitarsi a rivedere. Serve quindi solo alla comprensione, a capire il mondo.

Immortality è una creatura che ti fissa, ti ipnotizza, mentre la mente non fa altro che suggerirti queste parole in sequenza: sangue, arte, invisibile, misticismo, astrazione religiosa, ricordo, immortalità.

Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia che ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto.

Operette morali, Frammento sul suicidio, di Giacomo Leopardi, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti
Tutte le opere, vol. I, Firenze: Sansoni Editore, 1969

Per finire, Immortality, racconta della consumazione di se stessi. Ci descrive, noi umani affetti da umane passioni, come candele che bruciano nel tempo. È anche per questo motivo che the one confessa, in un’intervista, come quello di bruciare sia il modo migliore di morire, perché si ha la minore probabilità di ricomporsi. Bruciamo con l’unico combustibile dell’arte e con l’unico obiettivo del ricordo proprio perché la natura ci impedisce il contrario. Lasciare traccia di sé dopo la propria scomparsa, diventa infatti l’unico mezzo privo di rimpianto. 

VV


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ECHO: la perfezione è aliena

Echo, forse per eccessiva onestà intellettuale, per meticolosità o per scherzo, esprime tutto sé stesso già nel titolo. L’eco è doppiezza e inganno: dove lo specchio riflette una nostra versione ribaltata, il suono può ammaliarci, illudendoci di sentire quello che vogliamo ma non restituendoci mai una copia perfetta. L’eco è riverbero, è increspatura, è conseguenza. Questo concetto copre tutto quello che il gioco ha da offrire, dalle meccaniche ludiche al design visivo, fino al messaggio.

La prima opera di Ultra Ultra, studio di Copenaghen composto da otto membri più due freelancer, si presenta subito pensata meticolosamente. Un qualcosa dove, per caso o per volontà, tutto si incastra al meglio delle possibilità del piccolo team che l’ha creata.

Le premesse narrative sono semplici, quasi banali, e la scommessa è evidente: prendere come spunto la branca di fantascienza esistenziale e filosofica europea trasformandola in qualcosa di ancora più conciso, coinvolgendo il giocatore in una rappresentazione solo apparentemente manichea, dove bianco e nero si alternano e si mescolano ripetutamente.

La fuga è la menzogna

[DISCLAIMER: l’articolo presenta degli spoiler, tutti espressi nella prima ora di gioco. Nell’ultimo paragrafo si fa esplicito riferimento al finale]

Interpretiamo En1, una ragazza in fuga, una creatura modificata geneticamente e mentalmente da un culto presieduto da una figura che lei chiama “Nonno”. Il Nonno altri non è che un patriarca privo di  scrupoli che crea e sceglie le varianti o, come le chiama lui, le “Risorse” più meritevoli di raggiungere il Palazzo, un luogo mitico capace di garantire la vita eterna.

En, dimostrando un libero arbitrio che non dovrebbe avere, si ribella e scappa dall’Eden artificiale creato dal Nonno scegliendo una vita di espedienti e raggiri resi facili dal suo essere ingegnerizzata, dal suo essere un individuo superiore.

Tutto cambia quando Foster2, un mercenario esperto in recuperi di ogni tipo, viene assunto per riprenderla e decide invece di sacrificarsi e permetterle ancora una volta di scappare. Questo gesto la spinge ad affrontare le proprie responsabilità spingendola verso un viaggio di cento anni nel fantomatico Palazzo, con la speranza di poter riportare in vita l’unica persona che le abbia dimostrato compassione. Qui la prima bugia, o forse sarebbe più appropriato definirla distorsione. En è pienamente consapevole che così facendo non stia facendo altro che assolvere il compito per cui è stata concepita, e che le sue capacità manipolatorie abbiano convinto Foster a salvarla; eppure, ridare la vita a un individuo che non sia il patriarca, è il massimo gesto di ribellione che può permettersi.

“En”, Enki Bilal, 2017

“Fearful simmetry”

Il Palazzo si scoprirà essere un intero pianeta, completamente modellato su una struttura perfetta come un cristallo. Le contraddizioni però continuano a succedersi. Il pianeta non è infatti che un guscio vuoto secondo London, l’intelligenza artificiale della nave di Foster che per tutto il gioco farà da contraltare emozionale, pur nella sua estrema logicità, al pragmatismo inumano di En.

Le costruzioni di cui è composto stanno lentamente cadendo in pezzi, quasi a voler mostrare che un Paradiso è inutile senza nessuno che lo abiti o che tutto, compresa la speranza, è soggetto a senescenza.

“Echo”, Nihei Tsutomu, 2017

En si fa strada tra gli strati superiori degli edifici in un mondo che strizza l’occhio alle superstrutture di Nihei Tsutomu e del suo “Blame!”, fino a quando non riesce a entrare in uno di essi trovandosi in una perversa rivisitazione del neoclassicismo. Il contesto è simile a un libero di “Metal Hurlant”3, una breve storia a fumetti che in poche pagine creava universi credibili a completa disposizione dell’osservatore.
Lo stesso design dei personaggi e degli elementi sci-fi ricordano tanto Enki Bilal quanto Gimenez e i suoi Metabaroni. Le stanze sono perfettamente e spaventosamente simmetriche, infinite. Echo riesce a rendere alieni elementi a noi comuni, come vasi o tavoli, inserendoli in un contesto incomprensibile.

Presto si intuisce che il Palazzo cerca di creare un ambiente tanto accogliente quanto repulsivo nei confronti del suo ospite. L’intelligenza che ne decide le azioni, di cui poco sapremo pur riuscendo a raccogliere vari collezionabili (ovviamente audio, ché l’occhio è ingannatore), e che ne illustreranno la storia, è simile a quella di una pianta carnivora o di qualsiasi altro organismo che imiti un ambiente familiare per ingannare la sua vittima.

“Guarda, ho creato dei fiori per te. Non ti piacciono?”

Poco dopo averne varcato le soglie il Palazzo metterà in campo la sua difesa finale, l’idea trasfigurante tanto a livello di gameplay quanto narrativo. Dopo aver appreso abbastanza informazioni su En inizierà a creare dei suoi cloni, gli Echo del titolo, che agiranno in base alle azioni che noi stessi compieremo.

Ogni gesto, che sia aprire una porta, usare un ascensore, nascondersi fino alle più offensive come stordire o sparare saranno da essi memorizzate. Come, del resto, risulteranno liberi di usare le nostre stesse mosse per difendersi e attaccare, trasformando quello che all’apparenza sembra un banale stealth in un puzzle ambientale. Un gioco di scacchi dove i neri muovono contemporaneamente contro altri neri e dove l’avversario non siamo altri che noi stessi.

fra le mute tombe del monumentale,
non c’è Dio e non c’è male, solo vaga oscurità.

Baustelle, Monumentale dall’album Fantasma (2013)

Questo meccanismo di apprendimento è regolato da quello che, narrativamente, viene giustificato come un malfunzionamento del sistema di difesa. Imparate un certo numero di mosse, il Palazzo resetterà il ciclo “spegnendosi”: ci renderà, cioè, liberi di comportarci come vogliamo nelle fasi di buio, presentandoci il conto con la successiva fase di luce, dove gli Echo ricorderanno tutto quello che avremo fatto. Questo concetto, all’apparenza semplice, genera tutto l’insieme di considerazioni, afferenti sia al ludico che ad ampio spettro.

“Posso lasciarti un opuscolo che parla di Dio?”

Sarebbe semplice, in un’orgia iconologica alla Panofsky, inserire nell’opera tutti i riferimenti psicologici e religiosi che una natura dualistica di questo tipo giustificherebbe: l’archetipo dell’ombra di Jung, cioè la somma delle caratteristiche personali che l’individuo vuole nascondere agli altri e a sé stesso perché lo porterebbe a commettere azioni malvagie4. Il Samsara induista, l’eterna ruota di morte e rinascita causata dal dolore subito e ricevuto, nell’illusione del Maya; altro non sarebbe che il Palazzo stesso. Per non parlare del karma, volendo restare a oriente, o di penitenza, espiazione per tornare a riferimenti culturali a noi più vicini.

Il Palazzo è Dio, come si ostina a credere il Nonno, perché genera e ridà la vita. Il Palazzo è il destino, come desidera con tutta sé stessa En, perché è la sua ultima speranza di salvezza e riscatto e l’ultimo posto in cui può mostrarsi come gli altri vorrebbero che fosse. Il Palazzo è l’alieno, è l’incomprensibile, è un’intelligenza che sempre è stata e sempre sarà.

Lo stile neoclassico che lo caratterizza non è un caso. Echo racconta il suo falso dualismo attraverso tutta l’architettura Illuminista: quindi troviamo le “Carceri di Invenzione” di Piranesi, che simboleggiano l’essere eterni prigionieri; in più, quell’aggiunta di Panopticon perfezionato dall’essere noi stessi i nostri carcerieri, fino ad arrivare a Boulée e al suo culto divino.

“Carceri VII”, Giovanni Batista Piranesi (o Nihei Tsutomu), 1760

Come scrivono Rabreau e Morin,

I suoi progetti per edifici religiosi, metropoli, templi, chiese riflettono le nuove forme di religiosità che si manifestarono con lo spirito dell’Illuminismo, il culto della Natura o dell’Essere Supremo, il culto della Ragione Scientifica e dei Grandi Uomini, la religione civile, il misticismo massonico, eccetera. Tutte queste tendenze si compenetrano in una pseudo-religione inventata dall’architetto. L’architettura sacra di Boullée illustra il suo desiderio di applicare la sua concezione del progresso sociale alla religione.

su Étienne-Louis Boullée.

Cos’è se non la sintesi di ciò che sia En che il Nonno credono, rivelandosi così l’una fin troppo simile all’altro?

“Projet de cathédrale métropolitaine en forme de croix grecque avec un centre bombé”, Étienne-Louis Boullée, 1782

Echo è però grande fantascienza, e per quanto ci permetta di vagare con la mente in cerca di teorie, in parte auto assolutorie, ci mette di fronte al semplice fatto compiuto: non siamo che il risultato delle azioni compiute da noi stessi e dell’ambiente in cui siamo vissuti. L’eco non è uno specchio, non stiamo osservando una versione rovesciata di noi stessi da cui possiamo distogliere lo sguardo quando la vista ci diventa insostenibile.

L’eco è quel riverbero che continueremo costantemente a sentire e che ci ricorderà ciò che abbiamo fatto nelle e delle nostre vite, così come En si dimostra schiava di quella che dovrebbe essere la sua maggiore libertà e cioè la possibilità di scelta. 

“Così parlò Zarathustra”

Per quanto l’opera parta da presupposti piuttosto meccanicisti e nichilisti, alla fine lascia un messaggio di speranza. Pure se intrappolati in una ricerca che non avrà mai fine né risposte, possiamo scegliere in ogni momento di compiere qualcosa che ci rappresenti davvero. Qualcuno la interpreterà come trascendenza, qualcun altro come spinta biologica che ci porta a voler continuare a esistere nel ricordo di altri, come meme kojimiani.

“Cattedrale Spaziale”, Ultra Ultra, 2017

La decisione presa da En alla fine del gioco, il suo sacrificarsi per ridare la vita a Foster, può essere sì vista come la massima espressione di sé stessi ma è anche voglia di spezzare il cerchio, con un ultimo rimando citazionista a “2001: Odissea nello spazio” (Kubrick, 1968). En decide di non trasformarsi in un essere divino, e nessuno suonerà “Also sprach Zarathustra Op. 30” per lei.

Resta però il sottile dubbio che gli autori, fedeli al loro assunto iniziale, lo considerino comunque un gesto controverso e in parte egoista.
Resuscitare un povero Cristo, letteralmente, a duecento anni di distanza dalla sua vita precedente per un proprio desiderio di espiazione: bene ma non benissimo.

Echo non è perfetto nell’esecuzione ma lo è nel suo essere compiuto; in effetti, il suo difetto più grande è che sia l’unico gioco di Ultra Ultra, che ha chiuso nel 2019. Uno studio che con pochissime risorse, un unico modello poligonale e un talento purissimo nel rappresentare un inconcepibile infinito attraverso il copy and paste di una generica libreria di elementi grafici, ha cercato, ed è in parte riuscito, a porre profonde domande esistenziali.

EF


NOTE:

1 “En” in svedese significa uno. Ogni elemento in Echo ha un suo peso sia narrativo che esperienziale.

2 Letteralmente “l’adottante”.

3 Metal Hurlant fu una rivista francese dedicata alla fantascienza al fantasy nata nel 1975 per volontà di Jean Giraud e Philippe Druillet. Ebbe anche una versione americana conosciuta come Heavy Metal e fu pubblicata per un breve periodo anche in Italia.

4 “Il libro rosso. Liber Novus” di Carl Gustave Jung, traduzione di Anna Maria Massimiello, Bollati Boringhieri 2012.

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Il (vero) cyberpunk è invisibile agli occhi: Else Heart.Break()

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  • Luca Rungi
  • settembre 2022
  • interagisci

Else Heart.Break(), fin dal titolo, non fa neanche finta di nascondersi dietro a un dito: per decifrarlo correttamente, infatti, sono già necessari un minimo di rudimenti di programmazione1. Il progetto nasce da un’idea del programmatore e sviluppatore Erik Svedäng e viene plasmato nell’arco di cinque anni (2010-2015) grazie al programma Nordic Games e agli sforzi congiunti di un team ridotto (tra cui spicca il nome di Niklas Åkerblad2). Tuttavia, questa piccola perla poco conosciuta di ormai sette anni fa (e disponibile per PC, Mac e Linux) è ben lontana dal voler essere una mera esperienza didattica.

Il piccolo team svedese, infatti, vuole innanzitutto raccontare una storia e, nel mentre, spronarci a interagire con gli oggetti più scontati (come una tazza di caffè o una porta) in modi che mai avremmo immaginato. Se questo ha stuzzicato la vostra fantasia, vi auguriamo una buona lettura!
C’è tanto da dire, ma niente paura: nulla di ciò che seguirà vi priverà della possibilità godere di Else Heart.Break() in futuro.

E il cyberpunk m’è dolce in questa Dorisburg

Sebastian è un giovane ragazzo che, improvvisamente, riceve un’offerta di lavoro per telefono, un’opportunità che lo porterà sulla piccola isola fittizia di Dorisburg. Giunto al porto si reca subito all’hotel; non farà in tempo a provare a entrare nella sua stanza che si verificheranno le prime stranezze le quali, oltre a lasciare sbigottiti, saranno ottimi indizi taciti e gratuiti per una parte del potenziale che potremo scatenare in futuro.

Una grande nota di merito di Else Heart.Break() sta nel fatto di non dare mai al giocatore indicazioni a schermo sui suoi obiettivi correnti. Queste informazioni ci saranno comunicate dai personaggi durante le conversazioni, ma starà a noi orientarci con una piccola mappa turistica e grazie ai riferimenti offerti dai nostri interlocutori. L’assenza di una guida diretta, tuttavia, provoca un fenomeno interessante nel giocatore curioso e disposto ad accettare queste condizioni: la sovrapposizione completa di noi e del nostro avatar. Sebastian è infatti tanto spaesato quanto il giocatore: il risultato è che, quando si perderà nelle viuzze di Dorisburg, scoprendo abitazioni abbandonate o meno e luoghi curiosi, lo farà insieme a noi. Lo stesso vale per le conversazioni con i primi personaggi, durante le quali proverà a farsi accettare e a entrare nelle cerchia dei ragazzi e ragazze (una in particolare) dell’isola.

Un aspetto particolarmente potente si manifesta quando, grazie ai nostri sforzi, faremo delle piccole o grandi scoperte in maniera autonoma, senza indicazioni o avvisi a schermo di congratulazioni di alcun tipo. Sebastian e il giocatore, in queste occasioni, sono gli unici e i veri fautori di queste svolte genuine guidate esclusivamente dall’ingegno e dalla volontà di sperimentare, di usare la conoscenza ottenuta per sviluppare idee e opportunità tramite l’iterazione. E tutto ciò, naturalmente, caricherà in maniera particolare anche tutte quelle piccole svolte di trama che si dipaneranno nel corso dell’avventura di Sebastian.

Finora non si è ancora veramente discusso di ciò che rende Else Heart.Break() una piccola perla tutta da scoprire. Per farlo, è giusto partire da un piccolo parallelo con un titolo molto diverso dal punto di vista del tono, ma molto simile nelle intenzioni.

La bomba in testa

A una manciata di giorni dalla fine del 2020, Keita Takahashi pubblica finalmente il suo ultimo gioco dopo diversi anni di sviluppo: Wattam (Funomena, Annapurna Interactive). In pieno rispetto della tradizione dei titoli ideati precedentemente, il punto di Wattam è farci tornare bambini, ponendoci davanti a un contesto non solo spiccatamente vivace e spensierato a livello estetico, ma anche ricchissimo di stimoli che portano gli utenti a giocare e a sperimentare istintivamente senza forzature esterne.

Wattam, tuttavia, nasconde anche un sottotesto più che mai attuale e che funziona parecchio proprio in virtù del contrasto – strumento talvolta dimenticato – del messaggio di fondo con l’atmosfera e il tono dell’opera a livello superficiale. Per citare lo stesso Keita:

Usually, people have different layers in their minds. Even me, I have lots of layers; each layer of Keita Takahashi has a different perspective and different thoughts. Like, I don’t play video games, but I like to make video games.

Keita Takahashi su se stesso

Il mondo di Wattam, in principio molto ridotto, si allarga presto sia a livello spaziale che “demografico”, generando meraviglia proprio in virtù dell’espansione graduale del contesto di gioco in cui siamo stati catapultati. Else Heart.Break() fa un’operazione simile, ma in maniera improvvisa e positivamente sconvolgente: ci presenta infatti dapprima un mondo, l’isola di Dorisburg, nella sua interezza così com’è, ma accennando fin dalle prime battute di gioco alla possibilità di poter intervenire su parecchi elementi per raggiungere i nostri obiettivi grazie all’ingegno. Questo mondo poi, a un certo punto, si spalanca di fronte a noi rimanendo tuttavia esattamente come prima. Com’è possibile? Semplice: non è stata Dorisburg a cambiare, ma le possibilità di Sebastian di interagire con essa.

È proprio qui che sta l’uovo di Colombo, uno smacco brillante a tutti quegli open-world ipertrofici che ormai stanno saturando il mercato tripla A. Se il trucco magico della meraviglia sta nella percezione dell’utente e non nelle mere dimensioni di un contesto virtuale, allora forse diventare matti per creare mappe sempre più grandi e dettagliate è un po’ come guardare il proverbiale dito al posto della luna.

Tornare bambini hackerando lattine

Ciò che permette a Sebastian di manipolare molti degli elementi che lo circondano, a prescindere e a dispetto della loro natura elettronica, è il cosiddetto modifier: un apparecchio di medie dimensioni portatile dall’aspetto sì tecnologico ma al tempo stesso un po’ vetusto (due lampadine  e tubi rigidi campeggiano in bella vista lungo i bordi). Una volta utilizzato su qualcosa di interagibile, tuttavia, ecco che accade la magia: lo schermo del modifier si piazza in primo piano, mostrando due cose molto importanti: (1) il codice relativo a quell’oggetto preciso e (2) i suggerimenti per le funzioni già disponibili per lo stesso.

Avete capito bene: in Else Heart.Break() è possibile cambiare la programmazione degli oggetti più svariati in maniera permanente. Il tutto, chiaramente, con qualche limite doveroso. Il già citato Erik Svedäng, aiutato da Johannes Gotlén, ha creato un linguaggio di programmazione accessibile proprio grazie ai modifier, detto Sprak (ovvero “linguaggio” in svedese), per offrire ai giocatori strumenti potenti ma innocui per la corretta funzionalità del titolo.

Lo Sprak, in poche parole, è una sovrastruttura dei sistemi di gioco creata appositamente per poter essere manipolata a piacere senza rischi, offrendo inoltre già parecchi strumenti per scatenare il nostro ingegno in partenza, senza impedirci di crearne di nuovi.

Se siete arrivati a questo punto della lettura, forse vi sarà sorto un interrogativo: bisogna essere programmatori per giocare a Else Heart.Break()? Chi scrive, prima di giocarlo, aveva affrontato qualche corso nel tempo libero e quindi è difficile capire come potrebbe essere percepito da chi non ha mai sentito parlare prima di variabili, funzioni eccetera. Quel che è certo, tuttavia, è che il gioco offre sia occasioni che materiale diegetico per venire a conoscenza e fare pratica coi primi rudimenti. Oltre a qualche personaggio disponibile, troveremo infatti dei floppy in particolare (con la possibilità di consultarne e riscriverne il contenuto senza doverli inserire nei computer) che spiegano in una manciata di paragrafi alcuni concetti base.

Per incuriosirvi ulteriormente, ecco di seguito un esempio molto pratico e utile: in Else Heart.Break() le porte, così come le chiavi stesse, sono liberamente hackerabili3 tramite il modifier. Una porta chiusa è sbloccata da una chiave contenente un numero intero corretto (esempio: 123456). Se il punto quindi è aprire una porta chiusa con una chiave che non abbiamo, le soluzioni potrebbero essere due: la prima è quella di intervenire su una chiave qualsiasi in nostro possesso per implementare un cosiddetto brute force e provare tutte le combinazioni possibili in sequenza; la seconda consiste invece nel cambiare direttamente la destinazione di un’altra porta accessibile (divertente, ma devastante per i poveri npc se non gestito a dovere).

E questo è niente! Facciamo qualche altro esempio di oggetti manipolabili: caffè, lattine, computer, lampioni, una tartaruga, sigarette, cabinati. Una menzione speciale va ai quadri elettrici, una vera e propria sorpresa nella sorpresa di cui non vogliamo privarvi. Teneteli d’occhio quando ci giocherete.

Un piccolo bonus: come appena accennato, nel mondo di gioco sono presenti anche computer e cabinati liberamente accessibili. Se vi state chiedendo se sia possibile modificare o creare giochi dentro al gioco sì, avete capito benissimo (e non solo brevi avventure testuali, molte già presenti e tutte da scoprire). Inoltre, tutti gli oggetti in grado di collegarsi alla rete possiedono la funzione “Connect()”, grazie alla quale è possibile collegarsi ad altri oggetti connessi a loro volta per accedere a tutte le proprietà a loro disposizione. Un’ottima opportunità per espandere la funzionalità di un oggetto e arricchirne le potenzialità in maniera esponenziale.

Un gioco che stimola e richiede interesse

È innegabile che Else Heart.Break(), in un certo senso, se ne freghi dell’accessibilità immediata e di proporsi a un pubblico il più ampio possibile. Il coraggio di Else Heart.Break() sta proprio nel fatto di porsi come un modo estremamente originale di muovere i primi passi nel mondo della programmazione, rifiutando al tempo stesso qualsiasi compromesso che ne vizierebbe eccessivamente l’intento.

Il gioco è inoltre potenzialmente un sandbox ghiotto per tutti coloro che hanno già dimestichezza e che potrebbero quindi riuscire a ottenere risultati ancora più radicali ed esilaranti (ci siamo trattenuti, ma se andate a sbirciare ne vedrete delle belle). Finché c’è genuino interesse e voglia di mettersi a provare spinti dalla curiosità, Else Heart.Break() è un parco giochi cyberpunk straripante di stimoli.

Il fatto che il modifier possa essere recuperato in più di un modo, ma senza che mai nulla venga suggerito dall’alto come prevederebbe la norma dei giochi moderni, è prova ulteriore del fatto che Else Heart.Break() non voglia mai prenderci per mano, lasciando che il protagonista faccia il suo percorso (e noi con lui). Il tutto, comunque, è sempre coadiuvato da una parte narrativa che accompagnerà Sebastian, dando forma ai nostri desideri e obiettivi in maniera spontanea senza mai risultare pedante.

La grande differenza tra Else Heart Break() e il resto dell’offerta probabilmente sta in questo: il gioco sacrifica l’accessibilità istantanea per donare strumenti utili a imparare, divertendosi, i rudimenti di una competenza reale. Questo fattore apparentemente innocuo in realtà rappresenta una spaccatura rispetto alla norma del medium, in quanto gran parte, se non la quasi totalità, delle competenze – intese come le nozioni pratiche necessarie a completare un dato titolo – che si acquisiscono fruendo dei videogiochi, sono superflue e fittizie in quanto valide, seppur in modo squisitamente effimero, solo all’interno del contesto del gioco in questione. Queste competenze, tuttavia, sono destinate a essere prive di qualsiasi significato o utilità al di fuori di esso. Imparare invece che cos’è una funzione, per esempio, ha applicazioni oggettivamente più diramate e istruttive/costruttive.

A scanso di equivoci, il paragrafo precedente naturalmente non vuole essere bacchettone e denigrativo in generale verso gran parte dei videogiochi e il loro potenziale espressivo o competitivo (come le cosiddette speedrun). Se non ci credete, vi ricordiamo il papiro dedicato al primo Shin Megami Tensei, dell’anno scorso. Tuttavia, se in certi periodi sarete particolarmente dubbiosi riguardo il dedicare tempo a questo hobby, forse è perché nella vostra mente starà risuonando un eco della considerazione di poco fa.

IF (USER.INLOVE)
{REDISCOVER(CYBERPUNK)};

Nel titolo dell’articolo si era fatta la premessa di come Else Heart.Break() riesca a restituire una visione del cyberpunk estremamente originale ma al tempo stesso pura e fedele negli intenti. Dal punto di vista estetico, il titolo offre sicuramente un tocco diverso dal solito, grazie alle sue tinte vivaci e a piccoli dettagli insoliti usati, per esempio, per i volti delle persone che si riscontrano spesso anche nei dipinti dello stesso Niklas Åkerblad. Non è un caso che l’aureola multicolore, mostrata mentre un personaggio sta manipolando un oggetto tramite il modifier, sia anche presente nella copertina del suo disco Vandereer (e anche in un quadretto nel menu principale).

A proposito di musica, è assolutamente doveroso sottolineare come la colonna sonora spesso accompagni perfettamente l’azione di gioco, con i suoi motivi lo-fi frammisti a tracce più giocose elettroniche, arricchite da dettagli inaspettati. Insomma, una commistione che ben si combina con il tono dell’opera.

Banalmente, forse, ciò che Else Heart.Break() riesce a capire molto bene è che nel termine “cyberpunk” è compresa la parola “punk”. Ciò sottintende un moto sovversivo o comunque una indole contraria rispetto a quella della maggioranza. Questo è molto interessante, in quanto è sicuramente accomunabile all’intenzione di Erik e Niklas di creare un videogioco costruito intorno a un tipo di esperienza ben preciso, rifiutandosi, giustamente, di compromettere la loro visione per renderlo fruibile anche a chi, probabilmente, non è poi così interessato a calarsi nei panni di Sebastian.

Noi fruitori possiamo solo immaginare i sacrifici e il tempo investiti per creare un videogioco simile, che probabilmente non ha neppure un vero precedente nel medium. Dover quindi fare un piccolo sacrificio di attenzione e dedizione per accedere a tutto questo in cambio ci sembra un affare piuttosto ragionevole (nonché un segno di rispetto). In linea generale, prima di accusare qualsiasi videogioco di non essere abbastanza “accessibile”, bisognerebbe chiedersi sinceramente se quel gioco ci interessa davvero. Subito dopo, provare a capire se ciò che si pretende – ammettiamolo, anche in maniera un po’ arrogante – andrebbe a inficiare in maniera importante sulle intenzioni dell’opera. Che poi, pensandoci bene, in un’offerta infinita come quella di oggi, i videogiochi che non fanno per noi sono una cosa meravigliosa per il nostro orientamento.

Ma torniamo al termine “punk”. Sebastian, trascorrendo le prime serate in compagnia dei suoi coetanei, scoprirà abbastanza presto che sull’isola è effettivamente presente un gruppetto di “ribelli” che diventerà un punto di riferimento nella trama: ciò aggiunge quindi un moto sovversivo anche a livello narrativo. Un altro aspetto sovversivo, come anticipato, è dettato dal fatto che in Else Heart.Break() è possibile manipolare il codice non solo dei dispositivi elettronici, ma di fatto di tutti gli elementi interattivi a prescindere dalla loro natura.

Un elemento ulteriore, questa volta a livello se vogliamo estetico e accennato poco fa, è la rinuncia completa a gran parte di quegli elementi spesso riconducibili all’estetica cyberpunk, mentre molto è stato investito per creare delle dinamiche di gioco che costringono il giocatore a hackerare ciò che lo circonda in maniera spontanea e, di fatto, con un linguaggio di programmazione4 del tutto simile ad alcuni correntemente impiegati. Questo è ciò che rende Else Heart.Break() qualcosa di straordinario, autentico e potente.

Il frutto degli sforzi di questo piccolo gruppo di sviluppatori non solo rinuncia agli stereotipi del genere ma riesce, al tempo stesso, a ricordarci che cos’è l’essenza del genere stesso. In quanto moto sovversivo, il cyberpunk vive nelle azioni, e muore nella moda e nel manierismo dei neon e degli aggeggi cromati svizzeri multi-uso.

Else Heart.Break() è, inoltre, nato con l’intento di riunire gli utenti appassionati al fine di scambiarsi “hackeraggi” particolarmente virtuosi, nonché avventure testuali o giochi elementari da lanciare incollando il codice altrui direttamente nei cabinati o nei terminali presenti a Dorisburg. Torna quindi alla mente il testo Masters of Doom di David Kushner, in cui John Carmack alla ID Software sosteneva puntualmente la“etica dell’hacker”, creando motori di gioco accessibili da terzi al fine di creare una iterazione collettiva, minacciando puntualmente ed energicamente di lasciare la società ogni volta che saltava fuori la parola “brevetto”.

ELSE IF (GAME.ISMASTERPIECE)
{USER.TRIGGERBIAS()};

La cosa peggiore che si possa scrivere, o dire, di un’opera, non sta nel vessarla, sminuirla o nel redarre un elenco del perché sia la cosa peggiore mai esistita. Il sostantivo più distruttivo di tutti è probabilmente, e paradossalmente, la parola “capolavoro”. Questo perché non si può definire come tale qualcosa senza alzare le aspettative all’inverosimile, viziando la fruizione futura degli altri.

Quest’ultimo paragrafo servirà infatti a sottolineare anche qualche difetto del gioco che abbiamo riscontrato, in modo da ridimensionarne la percezione prima di concludere.

  1. Nella nostra esperienza, il titolo non sempre ha gestito nel modo migliore questa comunicazione indiretta degli obiettivi da perseguire da Sebastian, causando qualche grattacapo. In particolare, il titolo dà per scontato che il giocatore capisca che Sebastian si sia preso una cotta incredibile per un personaggio in particolare.
  2. Una missione in corso viene completamente dimenticata da chi ce l’aveva assegnata in seguito a un evento preciso. La missione in sé non è fondamentale, ma il problema è che il giocatore si sentirà facilmente abbandonato a se stesso a questo punto. Quando accadrà, concentratevi quindi semplicemente sulla missione principale, cercando di capire come raggiungere il vostro scopo.
  3. Il terzo test dell’iniziazione per entrare a far parte del gruppo ribelle ha messo un po’ alla prova la nostra pazienza.
  4. I file di salvataggio, dal momento che devono necessariamente contenere tutte le modifiche del giocatore agli oggetti interattivi (oltre ai progressi), pesano circa 21 megabyte l’uno e l’auto-salvataggio, che scatta in un paio di momenti della giornata, non è disattivabile.
    Tuttavia, è possibile accedere facilmente alla cartella dei salvataggi, presente in quella del gioco stesso, per rimuoverli manualmente in caso di bisogno (oltre a copiarli e rinominarli per organizzarli meglio).

ELSE
{HEART.BREAK()};

Ci auguriamo che questo articolo vi abbia incuriosito riguardo questo titolo molto particolare e meritevole di essere provato. Purtroppo l’ostacolo maggiore, forse, non è il modo in cui Sebastian interagisce con l’ambiente ma il fatto che non sia disponibile su console e, a meno che non venga completamente rivisto, non ci sono proprio le basi per renderlo compatibile in tal senso, visto che tutti i controlli di navigazione dipendono dal mouse. Inoltre, il gioco è disponibile solo in svedese e in inglese.

Ci piace molto l’idea di concludere questo pezzo lungo e, a tratti, forse un po’ troppo sentito, con quello che probabilmente è il messaggio di fondo del gioco:
per quanto le possibilità siano plurimi e per quanto l’ingegno sia acuto e la volontà ferrea, si può davvero manipolare tutto a nostro vantaggio?

If(GetUser().WasReadingComplete)
{
        Say(“Grazie di cuore e buon hackeraggio!”);
}

else
{
        Heart.Break();
}

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