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Tag: gameplay

L’amore ci farà a pezzi: da Solanin a Florence, sola andata

L’amore ci farà a pezzi: da Solanin a Florence, sola andata

  • Alfredo Savy

  • 1 giugno 2022
  • noninteragire

Che poi, alle volte, è veramente solo questione di lampi notturni. Di quelle immagini che ti prendono, e non ti lasciano; o almeno non lo fanno per tutto il tempo che si dovrebbe dedicare al sonno. Il problema è il giorno dopo, quando le idee si schiariscono: ciò che era presente alla mente, quel collegamento così palese, non c’è più. Al contrario, diventa leggero e distante. Come quel sogno lontano a cui hai rinunciato, a cui la tua mente ha rinunciato, mentre ricostruiva i fili rossi, le tracce, i legami tra quelle due opere così diverse e distanti tra loro.
Ecco: si può dire che la connessione tra Florence e Solanin resista alla prova della mattina.

Prima le presentazioni, ove mai ce ne fosse bisogno. E le facciamo bene.
Solanin è un manga realizzato da Inio Asano (Buonanotte Punpun, La fine del mondo e prima dell’alba, Eroi), uscito sul mercato nel lontano 2005; Florence è un videogioco, sviluppato da Mountains Studio e pubblicato da Annapurna nel 2018.
Di che parlano? Meglio lasciare che lo spieghi Ian Curtis.

When routine bites hard and ambitions are low

And resentment rides high but emotions won’t grow

And we’re changing our ways, taking different roads

Then love, love will tear us apart again

Love Will Tear Us Apart, da Unknown Pleasures, Joy Division, Factory, 1980.

In questo caso, tirare in causa una delle band post-punk più influenti della storia non è solo un esercizio di stile. Florence e Solanin raccontano della morte dell’amore: e lo fanno in un modo proprio, toccante, con la musica che assume una determinata centralità in entrambi i racconti.

Joy Division live. Prendete nota della regia, servirà.

L’amore ci farà a pezzi, scandiva al microfono il per sempre ventitreenne cantautore di Stretford, UK; ed è di quel farsi fare a pezzi che queste due opere, in effetti, sono pregne. Ma anche del volersi aprire al mondo dopo un trauma, dell’alienazione del lavoro, della voglia di fuga da un certo grigiore, della crescita, della solitudine.

Insomma, a un certo punto i Joy Division si fanno New Order,

I can’t tell you where we’re going

I guess there’s just no way of knowing

True Faith, da Substence, New Order, Factory, 1987.

e la disperazione tipicamente ricollegata alla (fine della) giovinezza si trasforma in saggezza nei confronti dell’ineluttabilità delle cose, nella consapevolezza di godere di quella bellezza dell’estate sapendo che finirà, per poi ricominciare. Quelli che una volta erano Unknown Pleasures, piaceri sconosciuti figli di un inganno generazionale – bugie di una vita che sarebbe lì, pronta a lasciarsi prendere a morsi – assumono la dimensione giammai del rimpianto, ma della lezione intimamente correlata al processo di crescita. 

La violenza della passione e la gioia dell’intimità cedono il passo, in Florence e Solanin, a una riscoperta di se stessi anche e soprattutto grazie al ruolo dell’arte, vero e proprio strumento in grado di permettere l’evasione dalla morte. Quella vera e quella spirituale. Il videogiocatore e il lettore sono messi nelle condizioni di vedere tutto: errori, incomprensioni, fini e inizi. Non gli viene mai restituita una dimensione monodimensionale degli avvenimenti; una tecnica utilizzata anche in Opinioni di un clown (Böll, 1963) – e bisogna tenerlo a mente, visto che questo libro tornerà più volte, nella nostra analisi.

Far parlare il gioco, sempre una buona idea.

Eppure, oltre il messaggio, diviene centrale anche il confronto tra i due mezzi di espressione che quel messaggio, in effetti, lo veicolano. Abbiamo detto che i parallelismi tematici sono tanti e forti: la funzione della musica e dell’arte, la complessità di una relazione sentimentale, il paradigma del cambiamento. Ecco, una disamina che voglia definirsi tale non può evitare di discutere del come, oltre che del cosa. 

 E lo faremo. Oh sì che lo faremo.

Quando sei qui con me

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene spoiler su Solanin e Florence]

Il primo aspetto fondamentale per inquadrare il discorso è la particolare struttura di Florence. Il titolo di Mountains è visivamente organizzato per apparire come una graphic novel, un modo elegante per definire un fumetto auto-conclusivo dai contorni più o meno stabiliti.
Quindi, l’occasione appare particolarmente ghiotta per una comparazione con gli strumenti di questo mezzo di espressione, quelli utilizzati per restituire dei momenti altamente emotivi tramite l’uso sapiente della propria grammatica. Ovviamente, Solanin ne possiede di eccezionali.

Alcuni studi preliminari dei personaggi di Florence.

Su queste pagine, in passato, abbiamo parlato di Unpacking (Witch Beam, 2021) offrendo una soluzione interpretativa fondata su una riedizione dell’effetto Kulešov in salsa videoludica, e definendo di conseguenza una nuova geografia creativa. In questo caso, l’operazione sarà simile ma diversa allo stesso tempo; vogliamo sì evidenziare le peculiarità di queste forme d’arte, ma anche i meccanismi di “aggancio empatico” nei confronti dei fruitori.

Per farlo, è necessario partire dalla definizione di fumetto contenuta in Capire il fumetto (McCloud, 1993), uno dei testi fondamentali per comprenderne il linguaggio.

Juxtaposed pictorial and other images in deliberate sequence, intended to convey information and/or to produce an aesthetic response in the viewer.

Scott McCloud, Understanding Comics, 1983, cap. I

Data la contiguità tematica tra le due opere, possiamo non solo operare un’analisi critica del modo in cui ciascuna di esse organizza la propria messa in scena ma, grazie alla peculiare forma fumettistica di Florence, comprendere cosa succede se – come in effetti è accaduto – esiste un’ibridazione tra linguaggi.
Più banalmente: che ruolo ha il gameplay nella closure fumettistica? 2

Infatti, il lettore mette in atto un processo cognitivo denominato closure 1, in cui dal parziale ricava il totale, dallo speciale il generale, basandosi su una regola derivante dall’esperienza. Il lettore colma i vuoti tra vignetta e vignetta, partecipando in maniera profonda allo svolgimento dell’azione dal punto di vista interpretativo; attribuisce, quindi, tempo e spazio all’azione.

Pur non essendo una prerogativa del solo fumetto, è in questa forma d’arte che la closure trova il suo maggiore ambito di applicazione: è nel non detto che esplode la potenza di questo medium, rappresentato da quello che McCloud chiama, non senza eleganza, “limbo del margine”.

Da ciò consegue che, a seconda del modo in cui le vignette sono associate, si avranno diversi tipi di montaggio che corrispondono, a loro volta, a differenti modi di stimolare la closure. Ed è qui che torniamo a Solanin e Florence.

Fig. 0: Solanin. Montaggio parallelo.

Appare dunque evidente che il perno sia rappresentato dalle immagini: poste in una determinata sequenza, creano una risposta nel lettore. A differenza del cinema, in cui il racconto assume i connotati della fluidità, nel fumetto è proprio l’ordine in cui le vignette statiche si presentano a creare quella sensazione di movimento, e a garantire la fruizione.

Questa stanza non ha più pareti

Per rispondere a questa domanda, è utile partire da due momenti cruciali per gli snodi narrativi di Florence e Solanin, in cui salgono in cattedra la componente musicale e i processi di elaborazione del distacco. Sebbene sia vero che la relazione tra Florence Yeoh e Krish non veda la scomparsa fisica del compagno come quella tra Meiko e Taneda, è altrettanto corretto considerare le evoluzioni della psicologia di coppia che collocano l’esperienza della rottura di una relazione ai primi posti in una potenziale classifica dei traumi esistenziali (Holmes e Rahe, 1967).  

Dicevamo della musica. Florence e Solanin la considerano innanzitutto quale espediente narrativo per rappresentare simbolicamente il collante tra i personaggi, e come vera protagonista sia della fase di innamoramento di Florence che, agli antipodi, di quella di definitiva liberazione di Meiko. Inio Asano utilizza nella scena del concerto finale un montaggio aggressivo e composito, variando da quello cosiddetto definito da soggetto a soggetto a quello da momento a momento. 

Fig. 1: Solanin. Il concerto. Montaggio da soggetto a soggetto.

I movimenti di macchina di Asano sono rapidi e decisi, rappresentando plasticamente la tensione del gruppo, e la loro catarsi. C’è il dolore, l’esaltazione dovuta al ritmo che esplode dalle casse, la rabbia, la concentrazione, lo sbigottimento di chi assiste e, infine, il cruciale passaggio sulla sola Meiko. L’atto smette di essere ripreso nella sua complessità e la matita del mangaka si concentra unicamente sulla ragazza, a cui viene dedicato un fenomenale close-up di un singolo frammento. Sta lasciando Taneda, e questa volta per sempre; il che fa pendant con una vignetta precedente nella quale gli amici – tramite un montaggio diverso, questa volta parallelo – rivedono in lei proprio il giovane scomparso.

Attraverso l’utilizzo di questi espedienti, l’autore giapponese riesce a ricreare una sensazione di dolore espresso tramite l’arte, che assurge a punto cardinale della sintesi spaziale – temporale operata tramite closure. Il lettore non può sentire la musica, ma la avverte; non partecipa attivamente all’azione, ma la riempie di significato; il margine di McCloudiana memoria diventa un urlo senza fine. O, almeno, fino a quando la canzone non finisce davvero, e così la sequenza si conclude.

ig. 2: Solanin. Montaggio da momento a momento.

Al contrario, in Florence la musica segna un attimo di altrettanta liberazione, ma stavolta da un grigiore precedente e ossessivo. Mediante la sola pressione di un comando, il videogiocatore guida la ragazza lungo le note: il telefono si scarica, le cuffie vengono rimosse e si ricollega alla realtà. In questo caso, il gameplay funge da cordone ombelicale tra controllante e controllato, con il primo che riesce a sentire ciò che sente il secondo. 

Realizzandosi il tutto all’interno di una lunga e sola sequenza in movimento, il gameplay annulla la closure propria del fumetto ma amplifica la sensazione di benessere e fissa il momento nel tempo. Ed è incredibile notare come la stessa sequenza, riproposta in maniera rigidamente fumettistica, abbia un impatto e richieda uno sforzo totalmente differente.

Fig. 3: Florence. Senza gameplay, ricostruzione.

Dopo la morte di Taneda e l’addio di Krish, Asano e Mountains ci mostrano una lunga fase depressiva di Meiko e Florence, funzionale poi alla loro rinascita. Un termine comodo di comparazione è proprio il monumentale “Opinioni di un clown”, citato a inizio articolo.

C’è una bella parola: niente. Non pensare a niente. Non al Kanzler o al katholon, pensa al clown che piange nella vasca da bagno, al caffè che gli sgocciola sulle pantofole.

H. Böll, Opinioni di un clown, prima ed. 1963, Mondadori, 2001, cap. XIV.

Lo scrittore tedesco, con periodi cadenzati e un capitolo corto, stuzzica l’immaginazione del lettore e gli regala un quadro straziante di assoluta disperazione, alternando la figura di Maria alla situazione attuale di Hans Schnier. 

Fig. 4: Solanin. Montaggio da scena a scena.

In modo non totalmente dissimile, Inio Asano sceglie un montaggio da scena a scena ma con un singolo soggetto: mentre la giornata trascorre, Meiko rimane quasi immobile, finendo in posizione fetale.
In questo caso, è prodotto un contrasto emotivo: il lettore avverte il passaggio del tempo tramite la closure, ma capisce che Meiko è in uno stato catatonico. La tensione tra questi due elementi fa il resto.

Gli autori di Florence, invece, insistono sull’inversione delle operazioni di trasloco per creare una risposta data dal contrasto con l’inizio della convivenza e il conseguente spacchettamento; in questo caso, il gameplay funge da facilitatore della closure, arricchendo il senso e le coordinate spaziali – temporali.

Fig. 5: Florence. Superamento del lutto.

Perciò, se è vero che da un lato il gameplay costringa lo sviluppatore a condensare alcune sezioni e a evitare frammentazioni per ragioni strettamente ludiche, è altrettanto vero che possieda un impatto non trascurabile in termini di facilitazione dei processi di closure, arrivando ad amplificare certe sensazioni che il fumetto – dal canto suo – cerca di produrre tramite un uso sapiente del montaggio. 

Ma alberi

Come se tutto questo non fosse già abbastanza interessante, Solanin e Florence riescono anche a offrire un contributo alla discussione riguardo l’alienazione riconducibile al lavoro d’ufficio, e all’impatto di una certa macchinosità produttiva all’interno della ricerca esistenziale, tipica del passaggio dalla gioventù all’età adulta.

Come in “Opinioni di un clown” – che, si è capito, costituisce il tertium comparationis di quest’analisi – le dinamiche sentimentali sembrano, a tratti, un escamotage per aprirsi ai grandi temi generazionali e, contestualmente, indagare le dinamiche sociali di una Germania Ovest ipocrita e incapace di staccarsi con il passato, così Florence e Solanin appaiono particolarmente severi nei confronti della dimensione lavorativa3.

Asano tratteggia una condizione umiliante degli uffici e che spinge all’escapismo, nonché una tendenza a giudizi desolanti da parte di famiglia e addirittura coetanei. Florence, attraverso delle piccolissime sezioni di gameplay in cui è chiesto al giocatore di risolvere degli enigmi stupidissimi, cerca di restituire quella ripetitività di fondo del lavoro ad alta intensità e bassa qualifica.

Solanin e la critica al lavoro d’ufficio.

En passant, appare addirittura paradossale che due opere non specificamente orientate a una critica organica dei sistemi capitalistici, siano più efficaci e decise nel trasmettere certi messaggi di altri titoli, che pure quel compito si assumono per scelta.

L’ultimo esempio della categoria è certamente Citizen Sleeper (Jump Over The Age, 2022). Pur esulando da questa trattazione un’analisi più specifica del titolo e rinviando ad altre sedi una descrizione delle sue caratteristiche, non si può fare a meno di notare come un videogioco che parla di capitalismo interplanetario, alienazione e cicli di produzione si riveli poi estremamente accondiscendente nei confronti del giocatore. Così tanto da deviare il messaggio e far apparire il capitalismo delle corp esecrabile, mentre quello etico la società perfetta per ritrovare se stessi, contraddicendo le sue stesse meccaniche.

Florence e l’alienazione.

Ma non divaghiamo e non approfittiamo oltremodo della generosità dei nostri lettori. Se avete amato visceralmente Solanin, allora Florence vi coinvolgerà ed emozionerà; se avete apprezzato Florence, Solanin potrebbe aprirvi le porte di uno splendido mangaka qual è Inio Asano. E, magari, potrebbero offrirvi anche qualche riflessione ulteriore rispetto a quelle del nostro pezzo.

AAS


NOTE:

1 Per approfondire: Saitta, G. (2016). Tra cinema e fumetto: due usi del montaggio. ENTHYMEMA, (13), 75–107. https://doi.org/10.13130/2037-2426/6097

2 Per una definizione quantitativa di “gameplay” raccomandiamo la lettura di questo saggio scritto da Joan Soler-Adillon, che lo definisce come “insieme complesso composto da azioni del giocatore, regole, meccaniche”. Ne abbiamo già parlato in passato nell’approfondimento dedicato a Chinatown Detective Agency.

3 Il che appare paradossale, considerando ciò che è emerso su Mountains Studio e Ken Wong. Per approfondire, qui un ottimo editoriale sulla questione.


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Final Fantasy XIII: la linearità come punto di forza

Final Fantasy XIII: la linearità come punto di forza

  • Vito Carluccio

  • 28 gennaio 2022
  • noninteragire

Sebbene Final Fantasy XIII abbia ricevuto voti alti dalla critica al lancio (Metacritic di 83 su PS3), da molti è considerato il peggior capitolo della serie, la pecora nera, tanto da non considerarlo addirittura un “vero Final Fantasy”.
I motivi per cui questo capitolo abbia attirato a sé numerosi hater e difensori di una presunta autenticità della serie sono molteplici, ma due in particolare hanno suscitato le critiche più feroci: l’eccessiva linearità e il combat system ritenuto troppo facile e “automatico”.

Se per quanto riguarda il combat system siamo più che certi che la critica derivi da un giocato parziale, da un sentito dire o da un abbaglio, lo stesso non si può dire della linearità. Ebbene si, Final Fantasy XIII è un gioco lineare, è vero. Affermare il contrario significherebbe negare l’evidenza. L’errore però è nel considerare la linearità come un difetto. Anzi, viceversa, in Final Fantasy XIII la linearità è un punto di forza, una base di design sulla quale si poggia l’intera struttura del gioco.
Per muovere un’analisi critica che voglia essere un minimo credibile e strutturata, bisogna partire da un assunto: non si può assolutamente affermare che un gioco sia brutto o bello perché lineare.

Nelle prossime righe proveremo a capire i motivi di design dietro alla linearità di Final Fantasy XIII e soprattutto l’efficacia di questa struttura in relazione a trama, coerenza narrativa e progressione di gameplay.

La differenza tra voto della critica e voto del pubblico è abbastanza impressionante.

Contesto narrativo

L’universo narrativo di Final Fantasy XIII si regge sulle spalle di due “pianeti”: Gran Pulse, verdeggiante e selvaggio, e Cocoon, artificiale e iper tecnologico.
In entrambi i pianeti sono presenti i così detti “Fal’Cie”: esseri meccanici ed eterni, responsabili del mantenimento dell’ordine. Sono, infatti, considerati delle entità divine che agiscono in modo misterioso sull’equilibrio del mondo, e sul destino degli umani.

Gli abitanti di Cocoon sono governati dal Sanctum, una teocrazia. Tale istituzione ritiene che questo pianeta artificiale sia stato costruito dai fal’Cie per proteggere gli umani dal mondo selvaggio di Gran Pulse. La popolazione è indotta a credere che i fal’Cie di Gran Pulse non vogliano altro che distruggere Cocoon, e che il pericolo sia scongiurato proprio grazie alla guida del Sanctum, a sua volta benedetto dai fal’Cie di Cocoon.

Ecco come appare Cocoon visto da gran Pulse, una sorta di paradiso controllato al di sopra di un inferno selvaggio.

I fal’Cie, esseri ineffabili, possono scegliere dei campioni tra gli esseri umani e affidare loro un compito da svolgere. Gli umani selezionati dagli Dei, denominati l’Cie, vengono marchiati da una sorta di tatuaggio, acquisiscono poteri sovrannaturali e sono chiamati a compiere un’impresa non sempre chiara e cristallina.

Molti l’Cie passano l’intera vita a cercare di capire quale sia il loro scopo; una volta scoperto e compiuto verranno tramutati in cristalli, pronti per essere “scongelati” quando il proprio fal’Cie lo riterrà opportuno (potrebbero volerci secoli). Nel caso in cui un l’Cie non riesca a capire o compiere la missione affidatagli entro un tempo limite, diventerà un “Cie’th” un essere vuoto, mostruoso, aggressivo e senza nessuna coscienza della sua vita passata. Ovviamente un l’Cie designato da un fal’Cie di Cocoon è considerato dal Sanctum una sorta di eroe, e la sua impresa viene venduta come un onore. Al contrario, gli l’Cie di Gran Pulse sono considerati nemici di Cocoon, terroristi che attentano alla stabilità del pianeta artficiale stesso.

Da queste doverose premesse di contestualizzazione narrativa, che aprono diversi quesiti filosofici inerenti al destino e alla natura stessa del concetto di Dio, parte l’epopea dei nostri protagonisti.

Struttura narrativa coerente

[DISCLAIMER: di qui in poi sono presenti anticipazioni di Final Fantasy XIII]

La trama di Final Fantasy XIII è incentrata intorno a un gruppo di persone che, a seguito di una concatenazione di eventi, divengono l’Cie per conto di un Fal’Cie di Gran Pulse.
Questo evento li renderà immediatamente ricercati dalle autorità di tutta Cocoon e, pertanto, saranno braccati e considerati dei terroristi.
Non solo. Come abbiamo detto poco sopra, il destino di uno l’Cie ha una scadenza imprecisata che spinge i protagonisti a stringere i tempi per non diventare Cie’th.

Risulterà a questo punto chiaro che, con queste due grosse premesse, la linearità assuma un valore coerente con il racconto. I protagonisti devono necessariamente agire in modo più rapido possibile per evitare di diventare dei gusci senza anima. Nel mentre, sono braccati dal governo e, di conseguenza, impossibilitati a girovagare liberamente per le città che incroceranno durante il loro cammino. Il design del gioco parte da questo assunto: sono ricercati e hanno una scadenza. In quest’ottica diventa fondamentale non consentire al giocatore di rompere la coerenza interna della trama, oltre che al mood e all’atmosfera di urgenza.

Le forze governative braccano costantemente i protagonisti.

A riprova del fatto che questa forte linearità sia una scelta consapevole e non un errore di design possiamo prendere in esame il Capitolo 8, in cui per la prima volta la trama sembra accogliere un momento di svago. Due dei protagonisti si ritrovano in una città simil-Las Vegas; provano a divertirsi, a svagarsi un po’. Gli stessi personaggi diranno frasi come “possiamo perdere tempo così?” o “dimentica per un attimo le difficoltà”.

Questo intero capitolo ci dimostra la consapevolezza dei designer riguardo alla direzione intrapresa. Lo svago è li davanti a noi, abbiamo letteralmente un parco divertimenti immenso a disposizione ma la trama e il contesto non consentono questo divertimento e, per estensione, nemmeno il Game Design. Dopo un po’ di gironzolare tra le varie attrazioni verremo sorpresi dalle truppe governative, che si mostreranno in tutta la loro forza e determinazione. Non a caso, proprio nel capitolo che fino a quel momento si presentava come il più allegro e disteso, assisteremo ad una delle scene più drammatiche del gioco: quasi una dimostrazione inequivocabile che non c’è spazio per le distrazioni.

Nel Capitolo 8 c’è un piccolo momento dedicato alle attività secondarie tipiche del genere. Presto, però, la situazione diventerà drammatica.

Obbligare il giocatore a seguire una via predefinita, senza caricarlo di attività accessorie, è perfettamente funzionale al racconto e coerente con la trama, evitando così clamorose dissonanze (tipiche del genere JRPG). Anche quando il gioco ci concederà un po’ di apertura questa sarà ben integrata nella trama. Arrivati al Capitolo 11, infatti, avremo l’unica vera open area del gioco, piena di mostri, di side mission legate alla caccia e di esplorazione di un ambiente sconosciuto e selvaggio.

L’apertura acquisisce senso sia per Game Design che per coerenza narrativa. Non è un caso che a partire dalla fine del Capitolo 9, e per tutto il Capitolo 10, abbiamo avuto per la prima volta tutto il party riunito e completamente nelle nostre mani, potendo sperimentare le varie strategie. Arrivati su Gran Pulse avremo modo di mettere alla prova la nostra bravura affrontando i mostri, opzionali, più temibili dell’intero gioco.

Lato trama, ancora, tutto è coerente: la minaccia su Cocoon non è più così impellente, i personaggi hanno ormai deciso che non staranno agli ordini dei fal’Cie, inoltre sul nuovo pianeta non sono presenti le forze governative pronte a inseguirle in ogni dove. Per la prima e unica volta sono liberi di scegliere autonomamente, così come lo è il giocatore.

Nel Capitolo 11 si apre la mappa. Gran Pulse è grande e ricca di mostri unici, e noi avremo il party al completo.

Una lenta progressione, ma coerente e ben strutturata

La scelta di rendere lineare questo capitolo acquisisce senso anche dal punto di vista del gameplay, praticamente incentrato esclusivamente sul combat system. A differenza di alcune critiche assolutamente fuorvianti, il sistema di combattimento di Final Fantasy XIII è uno dei più complessi nell’intero genere. Avremo a che fare con ruoli fluidi, atb (attack time battle) non stoppabile, pre-settaggi di battaglia, catena, crisi e studio della IA dei nostri compagni e delle caratteristiche dei nostri nemici.

Sarebbe inutile dilungarsi troppo nello spiegare questo intricato e profondo sistema. Basta sapere, però, che non è per niente facile da padroneggiare e che sarà sempre in grado di proporre una sfida degna di nota. Probabilmente lo stereotipo per il quale il gioco sia “facile” deriva dal fatto che per gran parte della prima metà del gioco, almeno quattro o cinque capitoli, il titolo ci obbliga a utilizzare un sistema monco, privo della libertà e del tatticismo che si raggiungerà solo nelle zone più avanzate.

Questa scelta limitante potrebbe riflettersi in un’esperienza castrata, ma anche in questo caso vi è sottesa una scelta precisa. La progressione centellinata del combat system è coerente con lo sviluppo della trama e soprattutto con quello dei personaggi, i quali scopriranno le loro reali capacità in modo graduale, arricchendo il sistema. Durante l’intero gioco non faremo altro che avanzare di combattimento in combattimento, obbligati ad utilizzare un party predefinito dal gioco che cambia di capitolo in capitolo in base alle necessità del racconto.

La condizione dei protagonisti, descritta in precedenza, rende coerente questa sequela di scontri e gli sviluppatori sono riusciti a costruire una progressione estremamente precisa attraverso i tredici capitoli che compongono il gioco.

Il combat system prevede una preparazione tattica al di fuori della battaglia che poi ci permetterà di cambiare strategia al volo durante i combattimenti.

Come detto, quasi in ogni capitolo il party cambierà forma, il combat system svelerà lentamente le diverse meccaniche acquisendo una grande complessità e il giocatore sarà chiamato via via a sperimentare e assimilare le varie aggiunte che poi esploderanno nei capitoli più avanzati.
Ecco: questa lenta e programmata progressione del gameplay ha tratto in inganno moltissimi giocatori che hanno, purtroppo, solo scalfito la complessità tattica del sistema degli optimum.

Nei primi quattro capitoli sarà sufficiente usare l’attacco automatico, alternato a qualche saltuario cambio di ruolo dei personaggi per avere la meglio; ma già dal quinto capitolo il gioco inizia a chiedere un più raffinato tatticismo. Questo avviene in modo controllato e, per certi versi, quasi metanarrativo.

Ad esempio, nel Capitolo 5 saremo chiamati ad interpretare Hope, il ragazzino inesperto che sta iniziando a muovere i primi passi in questo mondo pericoloso e aggressivo. Il giocatore, così come Hope, sarà chiamato a rispondere agli insegnamenti dei capitoli iniziali e dovrà necessariamente imparare a scambiare i ruoli e a sfruttare la catena e la crisi. Non a caso il segmento finisce con il primo vero e proprio Boss, che richiede una discreta padronanza degli optimum.

Il boss del Capitolo 5 ci costringe, per la prima volta, a utilizzare efficacemente il cambio di ruolo dei personaggi.

Proseguendo, ci verranno mostrati anche nuovi ruoli che ogni capitolo consentirà di sperimentare. Questa progressione lunga e lenta rischia di sembrare un gigantesco tutorial, e in parte lo è.
Ciò non toglie, però, che il gameplay sia ben strutturato e che vada di pari passo con lo sviluppo della trama e delle tematiche. Insomma, anche in questo caso, il design lineare e asciutto, aiuta molto ad entrare nei meccanismi del gioco tanto quanto nella complessità dell’universo narrativo e della trama in sé. Ogni capitolo è, quindi, caratterizzato da una struttura lineare che esalta la narrazione, lo sviluppo dei personaggi, la progressiva complessità del gameplay e la costruzione delle tematiche.

Dunque si può facilmente ritenere che l’intera struttura trovi giovamento dalla linearità di fondo, e riesca a creare una sinergia eccellente tra giocato, racconto e messa in scena.

Una maturazione inusuale per il genere e per il periodo storico

Final Fantasy XIII, forse per la prima volta nella serie, riesce quindi a presentarci un racconto estremamente coerente, riducendo al minimo le incoerenze e le dissonanze. Il gioco non dimentica, però, di essere un JRPG, come emerge dal complesso combat system; ma dimostra una maturità che poche volte possiamo riscontrare nel genere. A maggior ragione se si pensa che lo sviluppo del titolo è iniziato su Playstation 2 e solo successivamente venne rinviato direttamente su Xbox 360, Playstation 3 e PC per un’ uscita fissata al 2009.

Lo sviluppo del gioco è partito su Playstation 2. Qui l’immagine commentata da Toriyama.

In questo JRPG non si potrà andare in giro a giocare carte, a blitzball o a cercare l’anello disperso della vecchietta disperata sul ciglio della strada: e questo è un bene. I game designer hanno compiuto delle scelte coscienti, che possono piacere o meno; ma è altresì considerabile infantile la forma mentis tipica del giocatore medio che cerca e richiede sempre di più, sempre più contenuto e attività. Anche quando non sono necessari.
A volte la sottrazione è funzionale agli elementi che compongono un’opera, come Fumito Ueda insegna. In questo caso, la trama di Final Fantasy XIII, lo sviluppo dei personaggi e la progressiva complessità del combat system traggono un forte giovamento dalla struttura lineare del gioco.

Siamo forse fin troppo abituati ad accettare il patto tra sviluppatore e giocatore che ci fa chiudere un occhio quando vediamo Geralt perdersi nella ludopatia più sfrenata mentre sua “figlia” è in pericolo e braccata da nemici pericolosissimi. Capiamo bene che a volte la coerenza viene meno in favore di un arricchimento del ventaglio di attività offerte al giocatore, ma anche la via opposta merita un plauso. Anzi, forse meriterebbe un’attenzione ancor più “rumorosa” perché non cerca disperatamente di intrattenere e allungare la permanenza sul gioco, prima ancora di comunicare.

Certamente questo game design lineare è anche dovuto ad uno sviluppo un po’ travagliato che ha costretto gli sviluppatori a prendere delle decisioni forti in modo da concentrare al massimo le loro energie su quello che ritenevano importante: introdurci un complesso universo narrativo, raccontarci una storia ricca di spunti filosofici e immergerci in un complesso combat system. Ebbene, ci sono riusciti. Non senza problemi o punti critici, come appunto l’eccessiva sensazione di “tutorial”.

Ci sono diverse ragioni per la linearità del gioco. Con una quantità limitata di tempo di sviluppo e risorse, abbiamo reso il gioco lineare per massimizzare e fornire lo stesso tipo di esperienza di gioco a tutti i giocatori. Questo approccio ha avuto un grande vantaggio nel fornire ai giocatori abbastanza tempo per familiarizzare con il nuovo combat system e l’universo narrativo. Ma d’altra parte, ha portato i giocatori a pensare che la maggior parte del gioco fosse un tutorial. Credo che questo fosse un grosso difetto del gioco.

Motomu Toriyama (Game Director)

A questo riguardo, Final Fantasy XIII non è esente da difetti. La sensazione di tutorial sicuramente potrà perseguitare il giocatore per molto tempo ma ha una struttura molto pesata e pensata. Il suo particolare game design lineare e controllato esalta il racconto, la trama. il world building e il favoloso combat system.
Certamente merita una possibilità anche perché potrebbe iniziarvi alla interessantissima trilogia della Fabula Nova Crystallis.

VC


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Sea of Thieves, Game as a Service rivoluzionario e immortale

Sea of Thieves, Game as a Service rivoluzionario e immortale

  • Vito Carluccio

  • 29 ottobre 2021
  • noninteragire

Motivare il perché Sea of Thieves sia considerabile un Game as a Service “particolare” , richiede di mettere radici in un discorso lontano.

The Division, Destiny, Outriders, Anthem e chissà quanti altri titoli sono definiti GaaS (Game As A Service). Questa tipologia di giochi, e in particolare quelli citati poco sopra, mettono a disposizione dei videogiocatori un sistema co-op pve (people versus environment) e spesso presentano anche sezioni in pvp (people versus people). In generale forniscono, in maniera continuativa e periodica, una grossa mole di contenuti aggiuntivi: nuove armi ed equipaggiamenti, nuove mappe, nuove skin eccetera.

Lo scopo dei GaaS è quello di offrire all’utente un gioco che lo affianchi per diversi mesi, se non anni. Per fare ciò si ricorre spesso alle medesime soluzioni: costruire un complesso sistema di progressione del personaggio, variegare e randomizzare il loot tra armi comuni, rare e leggendarie e in generale permettere al giocatore di percepire un effettivo avanzamento, un potenziamento tangibile del proprio avatar che, partito in mutande, si ritroverà corazzato e pesantemente armato.

Inoltre questa tipologia di giochi cerca di offrire anche grande varietà di meccaniche e situazioni: missioni di recupero, boss fight, raccolta, arene, sfide a tempo et similia.
Quantità, varietà e progressione sono i tre pilastri per un Game as a Service definibile tale.

Questa ruota mostra il processo di creazione die GaaS: non è assolutamente limitato ai soli giochi multiplayer.

C’è però un gioco, un GaaS, che ha rigettato questa formula considerata ormai uno standard, ribaltando completamente il concetto di progressione, di quantità e di varietà dei contenuti. Spingendo il game design verso la sottrazione e verso il concetto di gameplay e narrativa emergente. Parliamo, ovviamente, di Sea of Thieves e di come potrebbe cambiare il modo di intendere i Game as a Service.

Prima di addentrarci nelle bellezze del sistema messo in piedi da RARE è bene però definire un po’ le basi su cui si poggia.

Cos’è Il gameplay emergente?

Con “gameplay emergente” si riferisce a quelle situazioni complesse che emergono da interazioni relativamente semplici basati su sistemi che interagiscono tra loro, piuttosto che dalle più classiche meccaniche di gioco pre-confenzionate e scriptate.

Due dei pilastri di questo approccio al videogioco possiamo riconoscerli in Deus Ex e System Shock. In entrambi i giochi infatti, gli sviluppatori hanno deciso di fornire al giocatore un certo numero di strumenti e abilità che possono essere utilizzati in maniera del tutto creativa in un determinato sistema di regole. Nessuno script, solo regole e strumenti.

Per fare un esempio pratico prendiamo in esame Dishonored, considerato da Warren Spector un ottimo discendente della sua filosofia. L’immersive sim di Arkane non fa altro che dare al giocatore obiettivi molto semplici come raggiungere un luogo o eliminare un bersaglio; poi fornisce al giocatore strumenti, abilità e set di regole che interagiscono tra loro e lascia al giocatore completa scelta su come procedere.

Ad esempio è possibile raccogliere una bottiglia e lanciarla per distrarre una guardia. Una meccanica molto semplice, come “prendere oggetti e lanciarli”, collabora con l’IA dei nemici che sente il rumore e si muove in quella direzione per investigare. Da lì, noi potremo decidere se oltrepassarla o prenderla alle spalle. Ecco il gameplay emergente: da una semplice meccanica è scaturita una situazione complessa attraverso la comunicazione di diversi sistemi.

Colpire un nido d’api in Zelda Breath Of The Wilds genera conseguenze emergenti.

Il gameplay emergente è una diretta conseguenza dei giochi definiti “sistemici”, un esempio recente è Zelda Breath Of The Wild. Un gioco in cui le reazioni fisiche e chimiche interagiscono tra di loro, con il giocatore e con i mob creando possibili scenari unici. Basti pensare all’arrivo della pioggia e tutte le conseguenze che comporta: Link produce meno rumore ed è più facile agire in stealth, le rocce sono scivolose ed  impossibile da scalare, i danni elettrici diventano molto più potenti mentre il fuoco e gli esplosivi diventano inutili. Queste reazioni sistemiche cambiano il nostro modo di giocare e ci aprono delle possibilità nuove: insomma, emerge del gameplay dalla reazione dei sistemi.

Ovviamente questi sono esempi basilari, ma se volete dare un’occhiata quante reazioni emergenti possono scaturire da tutti i sistemi presenti in Dishonored date un’occhiata a questo video.

Spiegato il concetto di gameplay emergente è arrivato il momento di analizzare il modo in cui viene applicato in Sea of Thieves e come, in maniera davvero unica, riesca a generare anche narrativa emergente.

Questo è un titolo che, a differenza di quelli sopracitati, non presenta una campagna singolo giocatore con trama, ma solo partite senza fine, always online. Eppure siamo sicuri che chiunque l’abbia provato per qualche ora saprà raccontarvi una storia vissuta. Partiamo dagli strumenti e poi vedremo come essi siano in grado di sviluppare situazioni complesse.

La varietà nel poco

La spada, la pistola, la bussola, la lanterna, la vanga, la bussola, il secchiello, il bicchiere, gli strumenti musicali e il binocolo. Questi sono gli oggetti che riceveremo appena avviato il gioco e questi sono gli oggetti che avremo per sempre, anche dopo 1500 ore. Non c’è progressione materiale in Sea of Thieves, non c’è accumulo di punti abilità, di perk o armi. Tutto il game design si basa su pochi strumenti che interagiscono con le poche regole di gioco e queste interazioni, come abbiamo detto, creano gameplay emergente.

In tal senso, le quest che il gioco presenta sono semplici e assolutamente funzionali al concept di gioco: prendere delle casse e trasportarle in un altro avamposto, leggere e interpretare una mappa per trovare un tesoro o dare la caccia a scheletri redivivi. Questi semplici obiettivi hanno l’unico scopo di far muovere la ciurma di isola in isola così da generare interazioni con gli altri giocatori (anche essi intenti a svolgere uno di questi compiti).

In qualsiasi momento è possibile visualizzare la mappa del tesoro, sempre avida di informazioni, Bisognerà ragionare e collaborare con i compagni per capire dove scavare, non ci solo way point a schermo.

Ogni interazione con una ciurma è una potenziale storia, una potenziale avventura da cui potrebbe venire  fuori una memorabile sezione di gameplay e narrativa emergente. Si potrebbe decidere di collaborare nella ricerca di un tesoro, si potrebbe entrare in conflitto per cercare di rubare le merci o magari potrebbe tutto svanire in uno scambio di parole ed un veloce saluto. Il limite alle possibilità è dettato solo dalla nostre intenzioni che si dovranno per forza di cose scontrare con le intenzioni degli altri giocatori.

In questo frangente le semplici meccaniche di Sea of Thieves assumono un valore più complesso: poter suonare uno strumento ci permette di festeggiare con altri giocatori, si può bere grog e ubriacarsi o magari insultare una ciurma avversaria utilizzando il megafono. Ogni strumento è pensato per utilizzi multipli che verranno dettati dalla situazione emergente che si è creata, sia con gli altri giocatori che con i contenuti sistemici del gioco, Infatti è possibile subire attacchi da parte da un kraken gigante o venire ingaggiati da una nave fantasma pilotata dall’IA.

Questi piccoli schemi da immersive sim non fanno altro che fornire degli strumenti ai videogiocatori che poi potranno essere utilizzati in maniera del tutto creativa. In giro per la rete gli esempi si sprecano, e ormai è facile considerare Sea of Thieves un semplice mezzo grazie al quale molte persone hanno vissuto delle storie.

La progressione senza accumulo

Come detto poco sopra, in Sea of Thieves non esiste un rafforzamento del proprio avatar, non ci sono statistiche che crescono e danni critici, ma la progressione avviene attraverso un processo di metagioco, dissimilmente da altri Game as a Service. Ovvero attraverso la trasposizione del proprio sapere, della propria esperienza e della proprio abilità nell’avatar, un po’ come abbiamo cercato di spiegare descrivendo la progressione in Outer Wilds.

In giochi come The Division o Destiny la progressione del nostro avatar è tangibile e direttamente proporzionata alle ore investite nelle missioni. Un giocatore con alle spalle 120 ore sarà molto più forte di un novizio, tanto che per i nuovi arrivati è letteralmente impossibile competere con un veterano. Il livello del personaggio diventa una barriera per le interazioni e aggiunge anche una certa necessità di giocare, farmare, accumulare equip e potenziare le statistiche per stare al passo degli amici o per avere accesso a sezioni più difficili.

Generalmente nei Game as a Service presentano build complesse che richiedono diverse ore e una buona dose di fortuna per essere ottimizzate.

Giocando a Sea of Thieves invece, pur essendo un Game as a Service, questo processo non esiste. Tutto è basato sulla capacità di apprendere, sui consigli degli altri giocatori e sulla propria esperienza.
Solcando i mari per diverse ore, per forza di cose, il videogiocatore può affinare le sue conoscenze del mondo e delle regole che lo governano: proprio queste conoscenze diventano il vero sistema di progressione del gioco.

Se un novizio farà molta fatica a riconoscere e trovare un’isola leggendo una mappa, il giocatore veterano potrebbe riconoscerla alla prima occhiata proprio perché ci era già stato in un’altra occasione; e così vale per tutte le meccaniche relative alla manovrabilità della nave. Il novizio farà certamente fatica a gestire il vento, le vele, l’ancora, i cannoni e gli arpioni mentre il giocatore veterano sarà in grado di compiere manovre complesse e soprattutto di coordinare la propria ciurma (altro elemento fondamentale di questo splendido game design).

Insomma, la nostra diretta esperienza con il gioco ci può fornire dei vantaggi verso gli altri giocatori, ma ciò non toglie che un giocatore appena arrivato non possa apprendere in un ora quello che un altro ha appreso in dieci ore. Le meccaniche sono poche e facili da assimilare e una volta superate i primi momenti di spaesamento si potrà certamente giocare alla pari con qualsiasi altro utente. Non c’è nessuna fretta e necessità di consumare velocemente il prodotto per poter fronteggiare i più esperti, tutti abbiamo gli stessi strumenti e abilità, sempre.

I dobloni accumulati durante le nostre scorribande potranno essere spesi per comprare oggetti cosmetici come nuovi skin per armi e nave, ma questo non influisce sull’effettiva potenza o efficienza degli stessi.

La cooperazione come strumento narrativo

Nel calderone sistemico che è Sea of Thieves abbiamo messo dentro il concetto di design sottrattivo, gameplay emergente, interazioni con altri giocatori e progressione senza accumulo; manca però il collante, l’elemento che prende tutti gli ingredienti e li lega costruendo un piatto prelibatissimo: la cooperativa.

Ogni qual volta iniziata una nuova partita il gioco ci chiede con quale tipologia di nave vogliamo salpare: Sloop (fino a due persone), Brigantino (fino a tre persone) o Galeone (fino 4 persone).

La scelta della nave condiziona pesantemente la sessione e costringe ad entrare nei meccanismi di gameplay/narrativa emergente sin da subito, con i propri compagni. La gestione e la cura della nave è il primo vero banco di prova e tutorial che il gioco ci fornisce, ci insegna a predisporre la nostra mente nello stato giusto che ci accompagnerà in tutti gli altri elementi del gioco.

Levare l’ancora in gruppo velocizza di molto il processo e può fare la differenza tra la vita e la morte, cooperazione!

Prendiamo in esame il Galeone, la più grande nave disponibile: tre vele, otto cannoni, timone, ancora molto pesante, sottocoperta, stiva e cabina di comando. Gestire da solo una bestione simile è impossibile ed è proprio qui che diventa necessario cooperare: se un giocatore è al timone un altro dovrà occuparsi di gestire le vele, un altro ancora dovrà recarsi a prua per sincerarsi che la navigazione sia libera da scogli o impedimenti, mentre l’ultimo dovrà dare un occhiata alla mappa per assicurarsi che la rotta sia giusta.

Questa complessa gestione della nave deriva dai piccoli strumenti che i gioco ci fornisce ed è estremamente dinamica. Le posizioni ed i ruoli dei giocatori durante un combattimento dovranno variare repentinamente: chi carica i cannoni, chi spara, chi gestisce le vele, chi il timone eccetera.

Stessa cosa in caso in cui dovesse arrivare una tempesta, nel momento in cui le bussole impazziscono diventa fondamentale navigare a vista nel mentre si imbarca acqua e si cerca di svuotare la stiva con l’utilizzo del secchio. Ora, non staremo ad elencare ogni utilizzo che hanno gli strumenti e come questo utilizzo cambi in base alla situazione di gioco però crediamo sia abbastanza chiaro come i sistemi, comunicando con gli strumenti e passando dalla cooperazione tra i componenti della ciurma creino delle storie uniche.

Il Galeone è un bestione davvero difficile da manovrare, ci vuole tanta collaborazione ed esperienza per riuscire ad ottimizzare la navigazione.

Vi ricorderete certamente di quella volta che siete salpati pieni zeppi di merci da vendere ma una terribile tempesta ve le ha danneggiate; o di quella volta che avete collaborato con un’altra ciurma per distruggere una flotta di navi fantasma: in Sea of Thieves ogni viaggio è una potenziale avventura, resa possibile solo da un game design che rinnega gli script ma abbraccia i sistemi e il design sottrattivo.

Nessun gioco ci ha mai permesso di realizzare una così pura collaborazione con gli amici e nessun gioco è mai riuscito a farci vivere storie e situazioni tanto diverse tra loro. Uniche.

Anche dopo mesi e mesi di inattività potrebbe sempre tornarci la voglia di salpare, e il gioco sarà sempre lì ad attenderci senza chiederci di farmare per tornare al passo.
Sea of Thieves è un Game as a Service decisamente rivoluzionario,

VC


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