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Memento: la depressione non è debolezza

Nonostante la (timida) sensibilizzazione degli ultimi anni e l'incremento di persone che ne soffrono, parlare di disturbi mentali risulta ancora un tabù. Inoltre, con il rischio di urtare la sensibilità di chi ne soffre, farlo risulta ancora più difficile.

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Guarda che sapore: Cinema e Gastronomia

Non è un segreto che, nel nostro Paese, al cibo venga data una valenza quasi sacrale. Siamo in grado di parlare di cosa mangeremo fra qualche ora tenendo una forchetta sospesa a mezz’aria, di iniziare faide con estranei oltreoceano per difendere la vera identità della carbonara, di piangere alla vista di una pizza con l’ananas sopra.

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Maladaptive daydreaming: sogno o son pazzo?

Quando ci si trova a dover parlare di un concetto scientifico come il maladaptive daydreaming per applicarlo al linguaggio artistico, può capitare di starsene a roteare le dita sulla tastiera prima di iniziare a scrivere la famosa prima lettera e, quando succede, la soluzione al problema è semplicemente affidarsi alla definizione. Giusto per mettere subito le cose in chiaro.

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Tre motivi (più uno) per vedere Siccità, di Paolo Virzì

Siccità, in sala dal 29 settembre 2022, è uno di quei film che è difficile riuscire a scrollarsi di dosso, resta appiccicato nelle ossa e il suo pensiero accompagna lo spettatore nei giorni seguenti. La pellicola, presentata fuori concorso alla Biennale del Cinema di Venezia prima di approdare nei cinema italiani, segna il ritorno del regista livornese Paolo Virzì nella scena cinematografica della penisola.

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Le sitcom e il rassicurante potere della prevedibilità

È un giovedì d’inverno, fuori piove. Rientrate a casa col buio di sera, siete usciti di casa col buio di mattina. Avete trascorso un’interminabile ora su un autobus/una metro/un treno colmo di persone e di ombrelli gocciolanti, il perfetto coronamento a una giornata mediocre (identica a quella precedente e, ci potete scommettere, a quella successiva).

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Le sorelle Macaluso, dal teatro al cinema

Prima di approdare sui tappeti rossi del Festival di Venezia, Le sorelle Macaluso di Emma Dante hanno danzato a piedi nudi sul palcoscenico di un teatro. La pièce teatrale debutta nel 2014 e nel 2020 e, dopo un lavoro di adattamento scritto dalla stessa Emma Dante con le collaborazioni di Elena Stancarelli e Giorgio Vasta, diventa film e partecipa alla famosa kermesse cinematografica, vincendo il Premio Pasinetti per la migliore performance femminile all’intero cast.

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Immortality o sulla consumazione di se stessi

Immortality o sulla consumazione di se stessi

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Il punto di questa lunga premessa, è che sembra impossibile a chi scrive anche solo iniziare a parlare di Immortality (Sam Barlow, Half Mermaid Productions, 2022) senza citare un immortale classico del cinema come Sunset Boulevard; e peraltro, tenendolo a mente come vero e proprio riferimento generale, in grado di aiutarci a inquadrare la nostra comprensione. Non tanto da un punto di vista stilistico, quanto piuttosto su un piano interpretativo della natura intima dell’arte in quanto fenomeno umano.

Sam Barlow, l’autore di Immortality, naturalmente non è nuovo a questo genere di utilizzo laterale del linguaggio cinematografico. L’autore sa come smontare un linguaggio e come proporre al videogiocatore il capirlo e ricomporlo. Perché in effetti – forse portando a termine un piccolo tradimento nei confronti del medium di appartenenza – di grammatica cinematografica si tratta, ma utilizzata alla stregua di un rompicapo all’interno di un contenitore certamente videoludico.

Immortality, come videogioco, potrebbe sembrare un semplice tetris di scene da trovare e, al limite, mettere in ordine. Ma Immortality in quanto cinema, è l’esplosione del linguaggio stesso. Sam Barlow ci serve su un piatto d’argento il cinema nudo e crudo, già disossato, senza alcuna decorazione e sovrastruttura. Un medium dentro l’altro. Scarno, metodico e marginale il primo. Malinconico, mistico e incomprensibile il secondo.

Allo stesso tempo, però, Immortality diventa sorprendentemente ludico, in tutti i sensi. Non tanto sul piano che si definirebbe generalmente gameplay, quanto a un livello forse più alto. Perché gioca – certo, attraverso strumenti basilari, quelli del montaggio – con l’aspettativa doppia del videogiocatore e dello spettatore. Creando così una consapevole sensazione di controllo sul mondo di gioco.

Ad ogni modo, Immortality non può essere in nessun caso considerato cinema – anche se agisce come il cinema, mima il cinema, si fa crisalide e contenitore di immagini in movimento – perché si comporta in tal modo al solo scopo di far videogiocare lo spettatore. Questa potrebbe pure sembrare una sottile contraddizione, ma prendetela invece come un’intenzionale provocazione.

Di cosa parliamo quando parliamo di Immortality

Immortality, dunque. L’ultimo videogioco di Sam Barlow (Her Story, 2019, Telling Lies, 2015 e prima come lead designer di Climax Studios, Silent Hill: Origins, 2007 e Silent Hill: Shattered Memories, 2009) è in definitiva un puzzle game di natura, forse al limite, un poco controversa. 

Di fatti, non fa altro che mettere a disposizione del videogiocatore alcuni frammenti di pellicola (il cosiddetto found footage) appartenenti a tre diversi film mai rilasciati al cinema, che hanno, come unica correlazione tra di essi, l’interpretazione di un ruolo da parte dell’attrice prematuramente scomparsa Marissa Marcel. I tre film – Ambrosio (1968) come medium del peccato, Minsky (1970) come medium della violenza, Two of Everything (1999) come medium dell’alter ego – sono un simulacro di mezze verità in cui il videogiocatore acquisisce la capacità di elaborare le varie scene, gestendole come se si trovasse in sala di montaggio. Avanti, indietro, fermo-immagine e un singolo input di ricerca di punti d’interesse e conferma, sono la componente unica del gameplay. Ma questi pochi comandi, che potrebbero sembrare scarni e quantomeno banali ad un’analisi pregiudiziale, si rivelano essere talmente potenti, nel contesto della grammatica utilizzata dall’autore, da rendere il videogiocatore onnipotente di fronte alla scoperta della verità degli eventi di gioco. Si tratta solo di impegnare il tempo adeguato e ogni segreto di Immortality verrà svelato, proprio ogni singolo nodo verrà al pettine, senza l’utilizzo di nessun tipo di abilità particolare. 

Questo tipo di interazione, rompendo completamente il rapporto classico tra spettatore e film nel medium cinematografico, permette al videogiocatore di impersonare allo stesso tempo una funzione sia passiva che attiva. Permette di entrare e uscire dalla quarta parete continuamente, senza la minima remora riguardo quel tacito accordo tra opera e spettatore chiamato normalmente sospensione dell’incredulità. Quest’ultima diventa, letteralmente, un concetto che non ci riguarda più. Entrare e uscire dal quadro si diceva, proprio a creare uno spazio terzo che si situa esattamente tra il salotto di casa di David Lynch e una strana idea precostituita di quello che il cinema o il videogioco possono non essere.

Sunset Boulevard (Billy Wilder, 1950) si apre con l’inquadratura del cadavere galleggiante di uno sceneggiatore, nella piscina di una grande villa hollywoodiana. Questa rimane, con pochissime concorrenti, l’immagine probabilmente più attraente che si possa trovare di quel cinema, per simbolismo o per auto-compiacimento degli autori stessi. La morte dello sceneggiatore all’inizio di un film, del resto, non è altro che l’invasione di un sottile meccanismo della psiche umana nell’intimo del processo creativo. Anzi, un vero e proprio impulso distruttivo, capace peraltro di raggiungere apici decisamente più alti del corrispettivo creativo. Si potrebbe definire senz’altro un lapsus nel normale racconto del cinema classico americano, che ha pure il merito di mostrare la natura quantomeno doppia, perversa e distruttiva della più alta forma di aspirazione umana.

Gloria Swanson interpreta l’eterna diva del cinema muto, che, non a caso, coincide anche con la reale carriera dell’attrice. Si tratta dell’epoca d’oro della fabbrica dei sogni, in cui, per intenderci, il cinema aveva massimo fulgore nonché influenza nell’opinione pubblica. La stella del cinema era un modello positivo e irraggiungibile, archetipo artificiale per eccellenza, che mostrava il proprio splendore solo attraverso il filtro del medium cinematografico. Era dunque l’immagine stessa del sogno americano fabbricato ante litteram in studio.

Ed è proprio a questo punto che interviene il lapsus: lo sceneggiatore annegato – morto effettivamente già dalla prima scena del film, ma si tratta in realtà di un flash forwardsimboleggia la fine dell’impulso creativo, che viene sostituito da quello distruttivo. Gloria Swanson diventa solo una faccia, un oggetto scenico che assume valore unicamente nelle opere immortali fissate su pellicola. Tutto il resto non è altro che contorno che nasconde l’incanto. La diva, a fine carriera, diviene pazza di dolore per la perdita di quell’istante unico e ripetibile solo al cinema e, nell’attesa si consuma. Sarebbe a dire che l’artista, in generale e in quanto tale, non fa altro che soffrire della propria assenza. E dunque, si immola sul rogo costruito sul sacro altare dell’arte.

Ora, si potrebbe giustamente obiettare che difficilmente Gloria Swanson, Cecil B. deMille e compagnia, si possano smaltare di modernismo. Bene, è sicuramente vero. Ma, forse, basterebbe solo invertire il processo di montaggio del cinema, come intende fare Sam Barlow, guardare nel senso inverso le pellicole e scoprire il lato invisibile dello stato delle cose

Ora, considerate Gloria Swanson che continua a crogiolarsi nel suo unico passato glorioso, portata a spasso dall’autista, a bordo della sua Isotta Fraschini 8a, per l’eternità; confrontatela con Marissa Marcel che, dal canto suo, scompare dalle scene per rimanere impressa, unicamente e per sempre, in pochi metri di pellicola mal tagliata. Insomma, disegnate mentalmente il tracciato comune dell’immortalità. Immaginatelo, perché il punto di arrivo di tutto infatti, non è altro che questo, fermare il tempo, lasciare una traccia di sé nel mondo. Almeno dal punto di vista di quelli che ancora oggi, come noi, esercitano una forma primitiva di reiezione nei confronti della morte.

Il punto di questa lunga premessa, è che sembra impossibile a chi scrive anche solo iniziare a parlare di Immortality (Sam Barlow, Half Mermaid Productions, 2022) senza citare un immortale classico del cinema come Sunset Boulevard; e peraltro, tenendolo a mente come vero e proprio riferimento generale, in grado di aiutarci a inquadrare la nostra comprensione. Non tanto da un punto di vista stilistico, quanto piuttosto su un piano interpretativo della natura intima dell’arte in quanto fenomeno umano.

Sam Barlow, l’autore di Immortality, naturalmente non è nuovo a questo genere di utilizzo laterale del linguaggio cinematografico. L’autore sa come smontare un linguaggio e come proporre al videogiocatore il capirlo e ricomporlo. Perché in effetti – forse portando a termine un piccolo tradimento nei confronti del medium di appartenenza – di grammatica cinematografica si tratta, ma utilizzata alla stregua di un rompicapo all’interno di un contenitore certamente videoludico.

Immortality, come videogioco, potrebbe sembrare un semplice tetris di scene da trovare e, al limite, mettere in ordine. Ma Immortality in quanto cinema, è l’esplosione del linguaggio stesso. Sam Barlow ci serve su un piatto d’argento il cinema nudo e crudo, già disossato, senza alcuna decorazione e sovrastruttura. Un medium dentro l’altro. Scarno, metodico e marginale il primo. Malinconico, mistico e incomprensibile il secondo.

Allo stesso tempo, però, Immortality diventa sorprendentemente ludico, in tutti i sensi. Non tanto sul piano che si definirebbe generalmente gameplay, quanto a un livello forse più alto. Perché gioca – certo, attraverso strumenti basilari, quelli del montaggio – con l’aspettativa doppia del videogiocatore e dello spettatore. Creando così una consapevole sensazione di controllo sul mondo di gioco.

Ad ogni modo, Immortality non può essere in nessun caso considerato cinema – anche se agisce come il cinema, mima il cinema, si fa crisalide e contenitore di immagini in movimento – perché si comporta in tal modo al solo scopo di far videogiocare lo spettatore. Questa potrebbe pure sembrare una sottile contraddizione, ma prendetela invece come un’intenzionale provocazione.

Di cosa parliamo quando parliamo di Immortality

Immortality, dunque. L’ultimo videogioco di Sam Barlow (Her Story, 2019, Telling Lies, 2015 e prima come lead designer di Climax Studios, Silent Hill: Origins, 2007 e Silent Hill: Shattered Memories, 2009) è in definitiva un puzzle game di natura, forse al limite, un poco controversa. 

Di fatti, non fa altro che mettere a disposizione del videogiocatore alcuni frammenti di pellicola (il cosiddetto found footage) appartenenti a tre diversi film mai rilasciati al cinema, che hanno, come unica correlazione tra di essi, l’interpretazione di un ruolo da parte dell’attrice prematuramente scomparsa Marissa Marcel. I tre film – Ambrosio (1968) come medium del peccato, Minsky (1970) come medium della violenza, Two of Everything (1999) come medium dell’alter ego – sono un simulacro di mezze verità in cui il videogiocatore acquisisce la capacità di elaborare le varie scene, gestendole come se si trovasse in sala di montaggio. Avanti, indietro, fermo-immagine e un singolo input di ricerca di punti d’interesse e conferma, sono la componente unica del gameplay. Ma questi pochi comandi, che potrebbero sembrare scarni e quantomeno banali ad un’analisi pregiudiziale, si rivelano essere talmente potenti, nel contesto della grammatica utilizzata dall’autore, da rendere il videogiocatore onnipotente di fronte alla scoperta della verità degli eventi di gioco. Si tratta solo di impegnare il tempo adeguato e ogni segreto di Immortality verrà svelato, proprio ogni singolo nodo verrà al pettine, senza l’utilizzo di nessun tipo di abilità particolare. 

Questo tipo di interazione, rompendo completamente il rapporto classico tra spettatore e film nel medium cinematografico, permette al videogiocatore di impersonare allo stesso tempo una funzione sia passiva che attiva. Permette di entrare e uscire dalla quarta parete continuamente, senza la minima remora riguardo quel tacito accordo tra opera e spettatore chiamato normalmente sospensione dell’incredulità. Quest’ultima diventa, letteralmente, un concetto che non ci riguarda più. Entrare e uscire dal quadro si diceva, proprio a creare uno spazio terzo che si situa esattamente tra il salotto di casa di David Lynch e una strana idea precostituita di quello che il cinema o il videogioco possono non essere.

Prendiamoci pure in giro.

Ora giochiamo con Sam Barlow & co.

Sam Barlow sgancia completamente il videogiocatore da qualsiasi velleità illusoria connessa alla magia del cinema, restituendola quantomeno trascurabile, perché ne smonta il linguaggio, rendendolo quindi visibile al videogiocatore. Allo stesso tempo, mette in opera il procedimento esattamente contrario riguardo il linguaggio videoludico, nascondendolo dietro l’utilizzo di un sistema d’interazione striminzito e alienante per sua stessa natura. Desertificandolo di opzioni e profondità.

Arrivare a conoscere fino in fondo i misteri di Marissa Marcel, il suo contesto lavorativo e i tre film da lei interpretati, si traduce infatti nel continuo zoomare e scrutare, fotogramma per fotogramma, alla ricerca di punti di interesse da cliccare, auspicando che possano portarci al frammento di pellicola successivo e non uno già visto. Per poi illudersi ancora, nella speranza di completare una sorta di cronologia filmica, che in ogni caso diventa impossibile vista  la narrativa dei tre film, completamente rotta e rimarginata nei buchi di trama con spezzoni di contorno: interviste, scene sul set, riprese delle prove degli attori e altro ancora.

Questo tipo di procedimento fisso, può risultare alienante, almeno alla lunga, se accostato alla natura intrinseca del gesto, cioè l’atto di guardare e riguardare continuamente le scene in questione. A questo si può aggiungere una sorta di inquietudine, che nasce invece dalla meccanica che serve a scoprire i frammenti di film nascosti all’interno delle pellicole. Infatti, durante la normale visione delle scene, può capitare di sentire un suono basso e sordo che stride particolarmente con il resto del flusso audiovisivo. È in quel momento che si possono trovare, riavvolgendo all’indietro la pellicola con attenzione, alcune scene nascoste altrimenti invisibili. Si tratta generalmente delle scene in cui fa la sua apparizione la componente soprannaturale del racconto di Immortality, nella forma di due esseri non-umani che coesistono ai protagonisti immaginati da Sam Barlow.

Montage brutal e soprannaturale

Una cosa è chiara da subito – a dire il vero proprio già dai primissimi istanti – videogiocando Immortality: si percepisce un mistero latente che sovrasta ogni livello cognitivo. È presente naturalmente nello svolgersi degli eventi, nello svolgersi del gameplay, nelle immagini, nei suoni e nell’interpretazione stessa del mondo di gioco. Si crea addirittura nella percezione propria al videogiocatore, che viene continuamente stimolata da input discordanti e contraddicenti.

Basterebbe citare anche solo il menù iniziale dell’ultima opera di Sam Barlow, per essere folgorati immediatamente dalla potenza dell’immagine. Anche senza tener conto dell’impatto fortissimo di matrice lynchiana che emana, è impossibile non cogliere la connotazione soprannaturale già da questa prima schermata, in cui Marissa Marcel – magnificamente interpretata dall’attrice franco-americana Manon Gage – entra in scena sorridente, protendendosi verso uno sgabello tipico da audizione.

Come si accennava, il menù iniziale di Immortality ha già in sé diverse componenti che sono l’essenza dell’opera: per prima cosa, scorrendo tra le varie opzioni del menù, il movimento di Marissa Marcel risulta alterato nel tempo. Infatti, i fotogrammi non scorrono in senso cronologico ma appaiono disturbati, come se ogni tanto qualche frammento saltasse via. Il tutto risulta macchinoso e artificiale proprio per la mancanza di fluidità del gesto, che dovrebbe apparire invece così naturale, e al limite banale, nella realtà. In secondo luogo, lo sgabello da audizione mette subito in chiaro che Marissa Marcel è un’attrice. A un livello primordiale ci sta confidando che mente. Per ultimo, lo sgabello rimane sempre vuoto, un chiaro rimando simbolico alla scomparsa dell’attrice, nonché di generica assenza. Proprio quella di cui si parlava in premessa all’articolo, riguardo la sofferenza dell’artista che deriverebbe dalla propria mancanza.

Un aspetto particolarmente interessante, di cui vale la pena accennare, è la sinonimia che si attiva inaspettatamente nel rapporto tra montaggio e soprannaturale. Definiamola temporaneamente come una sinergia inconsapevole, ma solo perché non sappiamo quanto possa essere un aspetto voluto nella concettualizzazione dell’opera da parte degli autori. 

Montage brutal è un’associazione di immagini inattese, raccordi sorprendenti e bizzarrie di sorta che restituiscono una sensazione generalmente grottesca nello spettatore. Si nota ben presto, anche grazie all’atmosfera generale che pervade Immortality, che l’operazione compiuta dal videogiocatore nell’opera di Sam Barlow, cioè il gameplay, non fa altro che creare aberrazioni del genere attraverso l’associazione spesso casuale di vari spezzoni di girato. Questo fenomeno accentua, mediamente, la sensazione di stare manipolando materiale in cui sono spesso riprese situazioni abbastanza comuni, ma con la sgradevole sensazione che quello che si vede non sia mai tutto ciò che davvero è presente nella scena.

Si ha, attraverso questo sbandamento percettivo, l’impressione che l’invisibile sia sempre presente e, anzi, coesistente al mondo raccontato da Sam Barlow. Come in quegli horror psicologici, dove buona parte del terrore proviene direttamente dalla propria mente che immagina o addirittura simula qualcosa che non è per niente, o quasi, mostrato nell’opera stessa. Del resto, l’immagine in quanto tale, crea dei quadri cognitivi che orientano in continuazione la nostra interpretazione del reale e del fittivo.

Aggiungiamo – come a ingrassare questo tipo di atmosfera creata dal montage brutal e, nel caso di Immortality, gestito dallo stesso videogiocatore – anche i continui rimandi a una sfera religiosa quasi parossistica, con apparizioni di demoni e madonne dal gusto decisamente retrò. Un pervadente senso di colpa di stampo cattolico, che unisce in un unico fil rouge tutti e tre i film e che va degradando di gravità, dal peccato mortale di Ambrosio (1968, mai distribuito) – in cui il frate protagonista scopre i piaceri della carne grazie all’aiuto di una certa donna, interpretata da Marissa Marcel – al semplice utilizzo del sesso come oggetto di scambio.

In generale si potrebbe fare un discorso a parte solo per quanto riguarda il tema religioso e spirituale di Immortality. Sam Barlow, non a caso, inventa un film come Ambrosio, fondato sulla scelta esistenziale tra la vita terrena e la vita del dopo vita. La prima sottoposta alle leggi della natura, mentre la seconda a quelle divine. Non fosse altro, perché si tratta di una scelta morale tenace nell’accompagnare il percorso e la storia dell’uomo civilizzato. La domanda è: a quale tipo di immortalità si vuole accedere, quella di Dio e dunque dell’oltretomba oppure quella meno eterea e piuttosto storica del ricordo terreno e del corpo? 

Ambrosio affronta il tema frontalmente, riuscendo nel compito di descrivere la faticosa intermediazione tra Cielo e Terra. Trascendente e immanente, dunque. Un problema classico che tutte le religioni si sono poste prima o poi. 

I simbolismi messi in scena da Sam Barlow (assieme ai co-autori Barry Gifford, Amelia Gray, Allan Scott) in Immortality sono davvero innumerevoli, ma si potrebbero racchiudere in dei gruppi di appartenenza ben precisi: il doppio e la doppiezza. La rinascita, la ripetizione e la conservazione di se stessi. Il reale, il visibile e l’invisibile agli occhi. La deliberata confusione tra l’accezione fisica e spirituale di immortalità. Tutto è impregnato di una sorta di disillusione che sembra provenire dalla possessione diretta della verità. Ogni personaggio, infatti, presto o tardi interagirà in modo quasi sconveniente, si direbbe quasi fuori copione, mettendo così in discussione davvero ogni cosa. 

Ancora, sul simbolismo: l’utilizzo dell’innocenza di una Marissa Marcel ancora giovanissima, come chiave per spingerla a scatenare un’adeguata carica erotica sul set, rappresenta in pieno la concezione contemporanea del gesto artistico, secondo cui è proprio l’innocenza a essere nemica dell’arte.

Le Muse

In questo ultimo specifico contesto, quello della carica erotica, si nota in Immortality una fortissima allusione che riguarda appunto lo sfruttamento dell’innocenza e come questa sia assolutamente sostanziale alla necessità di fare arte. Marissa Marcel viene presentata, nel primo provino per il film Ambrosio del 1968, come una ragazzina indifesa e impreparata a quello che l’aspetta. Come una qualsiasi Shelley Duvall sul set di Shining (Stanley Kubrick, 1980), Marissa Marcel riceve continuamente incitazioni, da parte del regista, che la stuzzicano sul piano personale, per ottenerne un effetto sul set.

Sarebbe forse il caso di citare anche Maria Schneider, nel film Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1972) in cui una situazione simile si produce sul set nella “famosa scena del burro”. Si è molto dibattuto in passato su questo tema, particolarmente nei casi di Shining e Ultimo tango a Parigi, come si accennava poco prima. Si è discusso se insomma, per descriverla in brutale sintesi, sia o meno giusto arrivare a fare del male alle persone per fare arte. L’ambiente del cinema, come descritto in Immortality, è una sofisticata metafora su più livelli di quello che rappresenta il concetto di innocenza per l’arte: in definitiva, nient’altro che un campo da invadere, conquistare e saccheggiare. Dunque, se crediamo a Immortality, potremmo pure azzardare en passant di posizionare Sam Barlow dalla parte di Kubrick e Bertolucci. 

Marissa Marcel, scivola dunque da un ruolo casto – fuori dal set – a uno di ammaliatrice faustiana in poche scene, segnando peraltro un percorso preciso, costellato di cattolico peccato. Non c’è bisogno di dire quanto questo passaggio sia decisivo nel rendere il personaggio (o meglio dire il meta-personaggio, dato che anche Marissa Marcel è un ruolo inventato), il doppelgänger accogliente di un essere soprannaturale, avido e parassitario come the one.

Dunque, l’essere in questione diventa il mezzo con cui l’artista (Marissa Marcel) trasfigura nella sua stessa arte (the one) e trascende dunque nell’immortalità; che di nuovo, è anche l’obiettivo ultimo del mistero cattolico

Tornando al soprannaturale, la seconda musa di Immortality è per l’appunto the one. Un essere etereo e immortale che si infila nei corpi e nelle vite di persone che ritiene in qualche modo interessanti. Oltre ad essere una fenomenale performance d’attrice, a opera di una incredibile Charlotta Mohlin, rappresenta simbolicamente l’intero spettro del sentimento umano.

In particolar modo, Sam Barlow utilizza the one proprio come personificazione della foga dell’arte, la stessa di cui si discuteva in premessa a questo articolo. Charlotta Mohlin interpreta quindi lo spirito dell’artista totale in potenza, ma dalla prospettiva quasi unica del sentimento. Dalla gioia della contemplazione alla violenza della creazione, interpreta in tutto e per tutto la sofferenza e l’impeto della creazione artistica. 

L’essere the one, infine – una cosa simile doveva abitare pure Gloria Swanson e chissà quanti altri in passato – è anche una chiara e definitiva rappresentazione dell’alter-ego. 

Come rimettere il latte versato (su cui si è pianto) nel suo contenitore

È notorio che l’entropia dell’universo e le leggi della termodinamica ci impediscano di tornare indietro nel tempo. Naturale. Nonostante la maggior parte di noi vorrebbe poterlo fare, non si può. È una legge di natura. Partendo da questo presupposto è facilmente intuibile dove, ciò che è invisibile agli occhi, potrebbe nascondersi. Ora torniamo un attimo con la mente a Gloria Swanson e al suo Viale del Tramonto: perché si potrebbe trovare ancora un senso alla famosa risposta nella quale dice che lei, riferendosi a se stessa, è rimasta grande, è il cinema ad essere diventato piccolo. 

In Immortality, il cinema diventa in effetti un luogo minuscolo e contenuto, dove tutto volendo è alla portata del videogiocatore. Tutto è scopribile, perché tutto può essere non solo, visto e rivisto, ma soprattutto perché lo scorrere naturale del tempo è alla mercé dei voleri del videogiocatore. Riavvolgere il tempo, tornare indietro è l’unico modo per vedere il soprannaturale, un’intuizione a nostro avviso particolarmente brillante da parte degli autori. Anche perché tornare indietro nel tempo, in questo caso non vuol dire rifare, ma limitarsi a rivedere. Serve quindi solo alla comprensione, a capire il mondo.

Immortality è una creatura che ti fissa, ti ipnotizza, mentre la mente non fa altro che suggerirti queste parole in sequenza: sangue, arte, invisibile, misticismo, astrazione religiosa, ricordo, immortalità.

Non è più possibile l’ingannarci o il dissimulare. La filosofia che ha fatto conoscer tanto che quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto.

Operette morali, Frammento sul suicidio, di Giacomo Leopardi, a cura di Walter Binni e Enrico Ghidetti
Tutte le opere, vol. I, Firenze: Sansoni Editore, 1969

Per finire, Immortality, racconta della consumazione di se stessi. Ci descrive, noi umani affetti da umane passioni, come candele che bruciano nel tempo. È anche per questo motivo che the one confessa, in un’intervista, come quello di bruciare sia il modo migliore di morire, perché si ha la minore probabilità di ricomporsi. Bruciamo con l’unico combustibile dell’arte e con l’unico obiettivo del ricordo proprio perché la natura ci impedisce il contrario. Lasciare traccia di sé dopo la propria scomparsa, diventa infatti l’unico mezzo privo di rimpianto. 

VV


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Dieci anni di Hotline Miami

Raccontare oggi Hotline Miami è compito arduo. Del lavoro di Dennaton Games esistono, infatti, innumerevoli letture, susseguitesi nel corso degli anni, e ciò rende nondimeno complesso sia aggiungere qualcosa al discorso che evitare di sporcare irrimediabilmente il foglio, nel tentativo maldestro di innovare il dibattito intorno a questo straordinario videogioco.
Eppure, a un decennio di distanza dalla sua uscita – datata ventitré ottobre, duemiladodici – Hotline Miami è ancora lì, non invecchiato di un’ora. È cristallizzato nel tempo, come i suoi pavimenti dalle tinte acide, macchiati dal sangue di mafiosi russi. Ci ricorda, dunque, che bisogna prestargli ancora attenzione; per rendergli giustizia, tocca fare un passo indietro.

L’esperienza offerta da Hotline Miami chiude (almeno) due lustri di riflessione sulla violenza nel medium videoludico, che ha in Metal Gear Solid 2 (Konami, 2001) uno dei maggiori impulsi. Nel titolo di Hideo Kojima, non solo è più volte sottolineato come l’addestramento in VR crei i soldati del domani, grazie a una desensibilizzazione dell’omicidio quale atto efferato a causa della ripetibilità dello stesso in un contesto controllato, ma viene, soprattutto, rimarcata una certa feralità dell’umano, ben dipinta dal finto dualismo Raiden – Jack The Ripper.
Il buon Jack era violento prima di essere costruito come violento.

Il passato di Raiden, personaggio avatar dei videogiocatore, è violento.

Saremmo di fronte, pertanto, a una condizione pre-esistente, con le manipolazioni successive che assurgono al compito di fissare il concetto, più che crearlo. In definitiva, quella dell’autore giapponese era una metafora abbastanza chiara delle implicazioni connesse al videogioco violento, ma pure un invito a riflettere sul chi fosse il videogiocatore. Un’idea approfondita poi in Spec Ops: The Line (Yager, 2012), contemporaneo di Hotline Miami e splendida decostruzione del linguaggio adottato dagli FPS militari.

Non solo. Per capire ancora meglio il contesto in cui Hotline Miami affonda le proprie radici, è d’uopo rivolgere uno sguardo alla ricerca scientifica del periodo. Nel 2011, De Wall, Bushman e Anderson, tre accademici delle università dell’Iowa e dell’Ohio, razionalizzano definitivamente il General Aggression Model (GAM), un’elaborazione dei meccanismi che provocano cambiamenti comportamentali nell’individuo, rendendolo suscettibile a risposte aggressive, e in cui ha un ruolo la cd. media violence. Pur rinviando a contributi più esaurienti1, soprattutto in un’ottica critica, è importante rimarcare in questa sede come, all’interno della teoria del GAM, venissero considerate internalizzabili anche le esperienze virtuali.

Del resto, è una posizione degli autori sin dal lontano 2001:

Thus, an individual who frequently plays video games with violent themes is engaging in experiences that could hypothetically strengthen his or her aggression scripts and thoughts, priming the individual and rendering the scripts ready for use in real life. 


Anderson, C. A., & Bushman, B. J. (2001). Effects of violent video games on aggressive behaviour, aggressive cognition, aggressive affect, physiological arousal, and prosocial behaviour: A meta-analytic review of the scientific literature. Psychological Science, 12(5), 353–359. 

Perciò, accanto a una rinnovata sensibilità dei creativi su un tema trasversale all’intera produzione videoludica, si trovava un’importante costruzione teorica qual è il GAM, e un dibattito politico mai sopito: tre elementi di una tesi, che però costituisce solo un lato della problematica. 

D’accordo, è un buon meme. Come altri. Ma è un argomento fantoccio.

Difatti, ogni nuovo linguaggio è da sempre osteggiato dai governanti e, talvolta, da essi ricondotto a capro espiatorio di problemi sistemici, più difficili (e sconvenienti) da affrontare; basti pensare al famigerato Seduction of the Innocent (Wertham, 1954) che si scagliava sulla corruzione giovanile derivante dal fumetto, creando, di fatto, la Comics Code Authority. Ma questo non è un tema nuovo, bensì retrodatabile a scelta; e preoccupazioni in tal senso emergono sin dai romanzi di epoca vittoriana3, senza contare grammofoni, capelloni, Heavy Metal. 

Da ciò discende una naturale antitesi, costruita a colpi di minimizzazione, deresponsabilizzazione, incapacità di trovare un terreno di confronto, slogan sul ricaricare la partita quando sono feriti i sentimenti dei personaggi negli RPG; una fisiologica risposta a un atteggiamento predatorio delle istituzioni, che vorrebbero scaricare sul videogioco pure quello che succede quando, semplicemente, si cede alle pressioni lobbistiche della NRA. E del resto, la letteratura in materia non è certo univoca.2

E ne avremo la conferma durante il gioco.

Mancava, quindi, una sintesi. Mancava, quindi, Hotline Miami.
Perché, per quanto paradossale possa sembrare, tutto questo accumulo di nozioni, propaganda, riflessioni interne al videogioco ed esterne, estensibili, alla società, è stato risolto da un piccolo titolo arthouse di due tizi svedesi che dal nulla indovinano lo zeitgeist, lo spirito del tempo.
Scandendo un prima e un dopo.

Tra tutti gli animali l’uomo è il più crudele

La prima cosa che si associa a Hotline Miami è il film Drive (Winding Refn, 2011), palese ispirazione per Dennaton, ma anche esempio vivido di eterogenesi. Perché Drive, pellicola che ha definitivamente consacrato il regista danese, ha un utilizzo totalmente diverso della violenza: è centellinata, esplosiva, memorabile. Assurge al ruolo di elemento di rottura, all’interno di un impasto dove le musiche synth pop dei Chromatics e retrowave di Kavinsky potrebbero tranquillamente essere sostituite da Born In The U.S.A. di Bruce Springsteen, soprattutto durante la gitarella fuoriporta del Pilota con Irene e Benicio.

I ringraziamenti a Nicolas Winding Refn nei titoli di coda di Hotline Miami.

Se, dunque, Hotline Miami saccheggia parzialmente il mood di Drive e alcuni aspetti simbolici tra cui il protagonista silenzioso e dannato con una giacca iconica, le somiglianze terminano lì. Al ritmo compassato, manierista e citazionista di Refn – una su tutte, la scena dell’assassinio di Ron Perlman richiama pesantemente un altro Drive, Mulholland (Lynch, 2001) – Dennaton sostituisce un’orgia di ultraviolenza, in cui sfuma il significato delle azioni del fruitore. In un certo senso, di tutto ciò è emblematico il passaggio dalla sognante e moderna San Francisco alla paranoica e paludosa Miami, collocata dall’altro lato del Paese e che funge quasi da sottosopra della città californiana. Il mito fondante di Hotline Miami è evento in Drive.

In particolare, Hotline Miami presenta una narrazione orizzontale volutamente criptica, confondente, lisergica. Jacket è in coma, così come in uno stato comatoso versa il videogiocatore: è confinato in un loop composto da “try, die, repeat”, “instant restart” e “one shot, one kill”, con nelle orecchie una colonna sonora synthwave martellante e che scandisce il tempo stesso del gameplay, rendendolo pericolosamente vicino a un rhythm game. È in trance, senza empatia, totalmente alienato da ciò che sta effettivamente facendo: massacrare delle persone, ottenendo punti per la fantasia o la rapidità delle esecuzioni. La realtà è solo un’immagine sbiadita che rimane sulla retina, composta dai cadaveri orrendamente mutilati. Gli stessi che incontra Jacket nei vari locali che frequenta.

Jacket è in coma, e così anche il videogiocatore.

Tutti gli spettatori ricordano la famosa scena dell’ascensore di Drive, mentre sarebbe impossibile farlo con la moltitudine gommosa di NPC trucidati in Hotline Miami: c’è spazio solo per l’eventuale frustrazione di non riuscire, e la gratificazione di fine livello. È solo la prima volta che disturba, provocando nausea e vomito perfino in Jacket; poi diventa routine, sfoggio di abilità, sfida. 

Dennaton riduce ai minimi termini il concetto di videogioco stesso, restituendolo a una dimensione primitiva, composta da riflessi, sudore, annichilimento, quantificazione della devastazione, premi, istinto. Lo libera da ogni sovrastruttura, mentre distribuisce maschere di animali che consentono di costruire un’esperienza più vicina alle abilità di ogni fruitore; letteralmente inner animal4, quello che c’è dentro, scevro da ogni costruzione della società. Viene totalmente decostruito, per essere infine restituito nella forma di un graffito.

Da qui in poi è tutta in discesa.

Il duo di sviluppatori svedesi è stato incredibilmente efficace nel riempire la propria opera di piccoli semi narrativi, che agiscono – perfino a livello inconscio – come giustificazione morale, autoassoluzione, pensiero magico, per poi vedersi irrimediabilmente e volutamente ridimensionati. La mafia russa, che dev’essere per forza cattiva. Il mistero delle telefonate. Una storiella esile di vendetta, dopo un salvataggio eroico.

Il vero colpo di genio è nel correlato ribaltamento di fronte, passando da Jacket a Biker. L’intero castello di credenze del videogiocatore crolla miseramente: non esiste un fine nella violenza, se non l’aver goduto della violenza stessa. Non ci sono risposte, ma solo una domanda: 

Do you like hurting other people? 

Richard a Jacket, cioè al videogiocatore.

Un interrogativo che descrive la banalità di un male non più rinnegabile, rappresentato plasticamente dallo shift di fine livello. La musica termina, si passa a uno stato cognitivo totalmente diverso, lo spazio diventa alieno. Ci si sveglia, si torna indietro. Ci si rende conto di quanto accaduto, con l’euforia che cede il passo alla vergogna. Si emerge dal coma, si fatica persino a trovare l’uscita; e poi subito in auto, verso il prossimo nonsense, segnale indifferibile di una psiche devastata che si rispecchia solo nella ripetizione di un atto atroce. Che galleggia come in Trauma, un livello meraviglioso dove una fuga disperata da un ospedale si intreccia perfettamente con Flatline di Scattle.
Ma per andare dove? Per fare che?

Le uccisioni reciproche di Jacket e Biker non hanno consistenza narrativa.

Dennaton ha raccontato con le sue meccaniche, mentre fingeva di farlo con i dialoghi. E lo dimostra con un colpo di teatro: basta una spugna e si può cancellare ogni cosa, perché tutto è futile, e a questa regola non sfuggono i personaggi. Ciò che conta è solo la domanda: l’inconsistenza dei fatti appare come irrilevante rispetto alla potenza del messaggio. Hotline Miami è tutto lì, nello scarto che separa la consapevolezza del divertimento tramite l’uccisione e l’uccisione stessa. Nella risposta affermativa all’interrogativo di Richard, nell’aver goduto di quel flow perfettamente bilanciato, di quello spargimento di sangue.
Nell’aver capito di essere soltanto un animale. 

Il tutto ricorda da vicino una grande lezione del fumetto moderno, quella di Born (Ennis, 2003): la storia della famiglia uccisa è solo un pretesto per il Punitore, in modo da costruirsi una verità accettabile per non ammettere di essere sempre stato un omicida. Lo stesso vale per il videogiocatore, che si convince di essere quello che non è; e lo fa solo per nascondere la soddisfazione che deriva da quel tipo di fruizione. Ma i nodi vengono al pettine, e hanno il gusto amaro di una risata dei developer, incontrati in uno squallido sottoscala. 

Uno schiavo obbedisce, un uomo decide liberamente di rispondere al telefono.

A tal proposito, è interessante osservare come Hotline Miami tenda a inquadrare la grande provocazione di Ken Levine in BioShock (Irrational, 2007) da un altro angolo visuale: il giocatore non è uno schiavo che, inconsapevolmente, si sottomette alle regole del suo demiurgo, ma un uomo che liberamente accetta di imboccare la strada indicatagli dal creatore, legittimandola. Potrebbe smettere di rispondere a quel telefono, spegnendo la console; eppure non lo fa, perché è attratto da ciò che gli viene proposto. Aderire alle regole dello sviluppatore assomiglia, dunque, a una perversione. 

Ed è così che il titolo di Jonatan Söderström e Dennis Wedin diventa perfino un manifesto dei legame tra chi il videogioco lo fa e chi lo subisce, cercando di illuminarne i rapporti di forza: una specie di “Discorso sulla servitù volontaria” (La Boétie, 1549) elaborato in Game Maker.

Kill ‘Em All

Grazie al suo successo critico e commerciale, all’essere diventato un cult, Hotline Miami ha indubbiamente influenzato le produzioni successive, edificando un vero e proprio filone (Miami-style) con titoli di indubbia qualità, alternati ad altri meno ispirati. Un esempio dell’ultimo caso è rinvenibile nel modesto Hong Kong Massacre (Vreski, 2019), mentre sulla scia dei videogiochi riusciti c’è sicuramente lo stimolante Katana Zero (Askiisoft, 2019), che modifica la formula di Dennaton ottenendo un feeling tutto suo, ma di cui si rinviene agevolmente la radice; su quest’ultimo torneremo in seguito. Ancora, si potrebbero citare Mother Russia Bleeds (Le Cartel Studio, 2016), Ape Out (Cuzzillo, 2019), Contract Killers (Kapi Games, 2020): in sostanza, siamo davanti a una legacy precisamente individuabile e tutt’ora ricca di uscite, molto spesso pubblicate proprio da Devolver Digital, già publisher di Hotline Miami.

Dennaton deride le costruzioni mentali del videogiocatore.

Quello che ci interessa adesso, però, non è tanto prendere atto dell’impatto di quel fast paced gameplay basato su delle macellerie messicane in pixel; al contrario, è stimolante osservare le evoluzioni successive del discorso collegato al nucleo concettuale di Hotline Miami. Un videogioco che, appunto, presentava una struttura ludica assuefacente ma basata sull’omicidio, per poi far notare al fruitore che stava, in effetti, ricevendo un feedback positivo dal dolore causato ad altri, e lo invitava a riflettere su questo. Un’accusa che colpiva, trasversalmente, sia la figura del videogiocatore che il tipo di contenuti offerti dall’industria.

È curioso che finanche Dennaton, tornata nel 2015 sul suo figlio prediletto con Hotline Miami 2: Wrong Number, non sia riuscita a replicare una formula tanto perfetta. Utilizzando un termine di paragone cinematografico, questo secondo capitolo soffre della “sindrome di Blade Runner 2049(Villeneuve, 2017): mentre il primo, storico, film di Ridley Scott metteva in scena una narrazione esile ma fondata su un interrogativo potente e perfettamente aderente alle istanze Dickiane, il sequel assemblava un complesso susseguirsi di faccende dal dubbio interesse e dall’elefantiaco incedere, nonché una morale spicciola, nascondendosi dietro un’estetica simile a quella del passato. Bene: a Wrong Number possono essere rivolte le medesime critiche. 

Senza scopo. Quello che invece prova a restituire Wrong Number.

L’aver voluto costruire un substrato narrativo effettivo che fungesse sia da prequel che da sequel,  ha mortificato l’effetto irrealtà che rende grande Hotline Miami, scombussolandone addirittura il messaggio. Come sostenuto in precedenza, è l’assoluta inconsistenza dei fatti a far emergere il vero fine dell’opera: direbbero gli americani, è tutto dannatamente pointless. Dennaton prova invece a spiegare al giocatore disattento che rispondere alla famosa domanda, senza elaborare ulteriormente, è pericoloso: che la violenza produce solo altra violenza e, alla fine, tutto si risolve nella cancellazione dell’umano stesso, che viene, metaforicamente e non, nuclearizzato. Peccato che chi non ha assorbito il messaggio del primo gioco difficilmente riuscirà a farlo con il secondo, data la sua impalcatura. 

Infatti, questo compito viene svolto mantenendo lo stile criptico del primo, che mal si confà a una parabola e diventa solo confusionario, manierista: tutte caratteristiche in precedenza assenti. Addirittura la sanzione morale investe il gameplay, non più fluido e bilanciato ma punitivo. Non deve piacerti fare del male ad altre persone, sembra urlare Dennaton; e la stessa apologia della violenza del Colonnello (Kurtz) diventa volutamente patetica.

Banalmente:

Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si consumano al primo bacio. Il più squisito miele diviene stucchevole per la sua stessa dolcezza, e basta assaggiarlo per levarsene la voglia.

William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto II, Scena VI, c.ca 1594.

La grande lezione di Hotline Miami 2: Wrong Number è che, dopo Hotline Miami, non ci fosse null’altro da aggiungere, e ogni ulteriore declinazione degli stessi concetti iniziava a sembrare già parossistica. Se Hotline Miami è Watchmen (Moore, 1986), tutto il filone successivo di ulteriori decostruzioni, oscurità e riletture superficiali della questione, appare nulla più che un voler giocare agli adulti, un prendersi sul serio che diventa esattamente uguale al vuoto pneumatico di consapevolezza che si voleva, almeno inizialmente, eradicare. 

La nuclearizzazione, l’evento che chiude la serie Hotline Miami.

Quindi, riprendendo le osservazioni in apertura di articolo, siamo sì davanti a una sintesi, ma a una sintesi imperfetta; proprio il volersi assumere le proprie responsabilità su un’offerta videoludica basata solo sullo stragismo ma, allo stesso tempo, criticare la scena politica che si appropria della violenza per modellare il mondo, ha prodotto la ramificazione narrativa alla base di Wrong Number. Il quale, in effetti, è figlio del finale alternativo del predecessore, in cui viene presentata l’organizzazione ultranazionalista 50 Blessings, vera protagonista del world building del secondo capitolo.

L’eredità di Hotline Miami ha influenzato in maniera evidente The Last of Us: Parte II (Naughty Dog, 2020), con Neil Druckmann e Halley Gross che non hanno mai nascosto l’ispirazione, citandolo esplicitamente durante una sequenza di gioco. Anzi, si potrebbe dire addirittura che il titolo post-apocalittico ne sia un successore spirituale più centrato perfino rispetto a Wrong Number: nonostante ne mutui l’ultraviolenza, il cambio di prospettiva (Ellie e Abby come Jacket e Biker), la critica dell’omicidio come unico mezzo di interazione, perfino l’uso dei cani, inserisce tutti questi ingredienti in un contesto più ampio. Possiede un certo respiro: collocare determinate dinamiche all’interno di una struttura narrativa più didascalica ha contribuito alla loro novazione, oltre a renderle maggiormente fruibili per le masse (cui un blockbuster è rivolto). Operazione che il sequel vero e proprio non è riuscito a portare a termine.

Dopo un omicidio cruento, ecco la easter egg di Hotline Miami.

Consci che rispetto a Hotline Miami non poteva essere detto altro, in Naughty Dog hanno giocato la carta della revisione, chiudendo definitivamente a ogni possibile – e ulteriore – approfondimento sensato sullo stesso tema.

Non essere cattivo

La conclusione di questa disamina ha – volutamente – il nome di un certo film, quel Non essere cattivo (Caligari, 2015) che si è mosso, non senza difficoltà, sul fragile equilibrio che separa natura violenta dalla delinquenza per necessità, vagliando la possibilità di scegliere un destino diverso. Bisogna chiedersi, pertanto, l’industria videoludica quanto spazio abbia dato, ai suoi fruitori, per decidere se identificare l’altro come un fine e non solo come un mezzo. Ergo, se esista un revirement che ha reso Hotline Miami non più l’unica coordinata valida per interpretare questo medium, ma solo una delle possibili declinazioni.
Specificamente, quella più nichilista.

Journey esce lo stesso anno di Hotline Miami. Non ci sono altri elementi accostabili.

È chiaro che Hotline Miami sia stato il prodotto – e il punto di arrivo – di un meditare decennale, che pure abbiamo provato a tratteggiare; un percorso multidisciplinare, che ha impattato sulla stessa produzione del gioco, tra contributi scientifici, narrazioni politiche, riflessioni di altri autori e spinte cinematografiche. Risulterà altrettanto palese, però, che proprio dagli anni dieci si sia provato a fare altro. L’esempio di scuola è sicuramente Death Stranding (Kojima Productions, 2019), con il “ponte” rappresentato dal Social Strand System, a sua volta figlio del disarmo nucleare di Metal Gear Solid V (Konami, 2015); ma è difficile dimenticare l’impatto di Journey (Thatgamecompany, 2012) che, non senza ironia, nello stesso anno di Hotline Miami proponeva una visione agli antipodi.

Non solo. È ugualmente vero che gli sforzi per contestualizzare la violenza all’interno di uno schema si siano notevolmente intensificati. Pensiamo a The Last Guardian (Team ICO, 2016), dove Fumito Ueda continua una cavalcata che ha origine nel 2001; ovvero Horizon Forbidden West (Guerrilla, 2022), che individua la necessità di una risposta armata all’interno degli schemi tipici del conflitto di classe (ne abbiamo a lungo parlato qui). Oppure, per allargare le maglie, il Tribunale di Disco Elysium (ZA/UM, 2019), la rivoluzione in Deathloop (Arkane, 2021). Delle variazioni sul tema che sembrano solo all’apparenza scontate, ma che in realtà rifiutano l’idea alla base di Hotline Miami, quella della violenza naturale da cui è possibile emanciparsi attraverso l’autoanalisi. 

La violenza di giocare sulle rovine della civiltà.

Stiamo forse entrando nell’epoca della post-violenza, in cui certe lezioni sono state assorbite a tal punto da generare delle immagini feroci dal punto di vista visivo, eppure non avvertite come tali perché bene incartate e condite da un retrogusto di critica sociale. Golf Club: Wasteland (Demagog Studio, 2018), su tutti, propone un’estetica violentissima in cui un uomo, da solo, gioca sulle rovine del mondo: lancia la pallina sui corpi che il capitalismo ha lasciato indietro, mentre nelle cuffie risuona “O Gorizia, tu sei maledetta”. Il linguaggio si è così stratificato da risultare difficile considerare Hotline Miami l’unica risposta possibile, e critica, ai modi in cui la violenza è rappresentata, e alla natura stessa dei videogiocatori, gruppo ormai niente affatto omogeneo per cultura ed estrazione sociale. Torniamo, così, alle coordinate numerose.

A conferma di ciò, proprio Katana Zero, precedentemente citato tra i Miami-style riusciti, è abbastanza esemplificativo di un’evoluzione interna alla stessa famiglia. In questo caso, il valore assoluto espresso dal messaggio di Hotline Miami è ammorbidito dal ventaglio di opzioni dialogiche proposte al videogiocatore. Il quale, di conseguenza, può emanciparsi dalla sanzione morale di Dennaton, che lo dipinge come un sadico animale. Il resto lo fa un’impalcatura capace di fondere il concetto di perfezione come ripetibilità di un gesto, tipicamente giapponese, alla spinta narrativa che deriva dall’inserimento di un vulnerabile da proteggere, in una specie di effetto Léon (Besson, 1994). In questo modo, si ottiene un risultato al tempo stesso simile e distante dal capostipite del genere Miami.

Le opzioni di dialogo di Katana Zero cambiano la percezione del videogiocatore.

Ma Hotline Miami non perderà mai fascino, nonostante tutto. Un po’ perché afferma con forza un certo messaggio, che stiamo scoprendo ora ammetta repliche, a discapito della monoliticità con cui si presenta; un po’ perché è la summa di un certo modo di intendere il videogioco. A ben pensarci, si va forse oltre a una discussione interna al mezzo: il tutto ricorda un po’ le varie evoluzioni e capriole dopo lo homo homini lupus di Hobbes, con Rousseau che replicava identificandoci come animali sociali, esattamente all’opposto. Il discorso sulle qualità dell’individuo è esteso al videogiocatore, come parte attiva della società a cui ci si vuole rivolgere. Ciclità, direbbe qualcuno.

Quella di Dennaton, insomma, rimarrà la descrizione più cinica di chi è dietro lo schermo.
Immagina un uomo, che risponde al telefono. A cui danno un indirizzo.
Entra in auto, si reca sul posto.
Compie una strage, è soddisfatto.
Legge il suo punteggio. Sorride.

AAS


NOTE:

1 Ad esempio, in Gunther B. “Does playing video games make players more violent?”, Palgrave Macmillan, London, 2016, vengono analizzate tutte le scuole di pensiero e le metodologie di analisi. Arrivando a questa conclusione:”There could be many explanations for changes in crime levels, and sometimes they are not even linked to social factors, but are simply changes in the procedures for collection and compilation of data. Linking these kinds of data to more direct interventionist tests on the psychological effects of violent video games is also problematic. Although resonating neatly with the agenda of moral panics, it represents untrustworthy science”.

2Per approfondire, qui la teoria del GAM viene utilizzata per aprire alla possibilità di internalizzazione di comportamenti, al contrario, prosociali: Greitemeyer, T., & Mugge, D. O. (2014) Video games do affect social outcomes: A meta-analytic review of the effects of violent and prosocial video game play. Personality and Social Psychology Bulletin, 40, 578-589.

3 Cfr. con Tatar, M. (1998). “Violent delights” in children’s literature. In J. Goldstein (Ed.), Why we watch: The attractions of violent entertainment (pp. 69–87). New York: Oxford University Press.

4 Che, infatti, è il titolo di uno dei brani di Scattle (al secolo David Scatliffe) presenti nel gioco.

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