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Tag: Pixel Art

Le sberle di Monkey Island sono un atto d’amore

Le sberle di Monkey Island sono un atto d’amore

  • Francesco Farina

  • 3 febbraio 2023
  • noninteragire

[DISCLAIMER: l’articolo contiene ampi spoiler su tutta la saga di Monkey Island, compreso l’ultimo capitolo]

Non è un mistero, o non dovrebbe esserlo, quanto la saga di Monkey Island sia stata rappresentativa, nella storia dei videogiochi tutta. Questo è vero in particolare per quel periodo storico che coincide con l’età dell’oro del genere delle avventure grafiche “punta e clicca” e che va all’incirca dalla seconda metà degli anni ’80 alla fine degli anni ’90.

La serie made in LucasArts si inserisce in un ricco filone, erede delle avventure testuali degli anni ’70, fra cui ricordiamo specialmente il seminale Colossal Cave Adventure, del 1976, sviluppato dal programmatore e appassionato di speleologia William Crowther. Il gioco, riconosciuto per la sua colossale influenza1 sul medium tutto, ispirò in primo luogo Infocom e la sua serie Zork2 (1977), e, inoltre, Mistery House3 (1980), la prima avventura grafica (non testuale) della storia e il primo titolo di Sierra On-Line.

Una schermata di Colossal Cave Adventure, progenitore delle avventure grafiche.

Inseritasi in questo filone costruito di Infocom e Sierra, la già citata LucasArts, fondata dal celeberrimo George Lucas nel 1982 e già spin-off della Lucasfilm, diventerà la più popolare software house del genere, in primo luogo proprio per merito dei primi due giochi della serie Monkey Island. The Secret of Monkey Island (1990) e Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge (1991) furono realizzati da Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman, e il loro successo riuscì a travalicare la ben custodita nicchia di appassionati del medium come pochi altri titoli dello stesso oscuro periodo.

The Secret of Monkey Island attinge dalla formula dei precedenti LucasArts4, e aggiunge il suo spin, la sua capacità di giostrare in contemporanea un umorismo soverchiante e un contesto spettrale, attraverso una lunga serie di enigmi in perenne equilibrio fra logica perfetta ed acuta demenzialità. Un flusso continuo e perfettamente calibrato, che nasce dalla esplicita volontà di Ron Gilbert di rendere vivi e esplorabili gli ambienti di una giostra. In un’intervista del 1990, lo stesso Gilbert dirà:

I’d wanted to do a pirate game for a long time. You see, one of my favorite rides in Disneyland is Pirates of the Caribbean. You get on a little boat and it takes you through a pirate adventure, climaxing in a cannon fight between two big pirate ships. Your boat keeps you moving through the adventure, but I’ve always wished I could get off and wander around, learn more about the characters, and find a way onto those pirate ships.

Intervista con Ron Gilbert, estratto da LucasFilm Adventurer vol. 1, numero 1, autunno 1990

Una mirabile operazione di ambidestrismo, destinata a impattare la memoria di una foltissima schiera di giocatori e a diventare un autentico cult.

La gara di sputi di Money Island 2 è un perfetto esempio dell’umorismo che cosparge la serie.

Una bomba ad orologeria

Gli ingredienti, insomma, sembrano già tutti sul tavolo. Un cult degli anni 80/90, un protagonista dall’umorismo indimenticabile come Guybrush Threepwood, la community gamer chiamata in causa, il ritorno in voga della pixel art. Così, quando il 4 aprile 2022, oltre 30 anni dopo l’uscita del suo ultimo Monkey Island, Ron Gilbert annunciò ufficialmente che nell’arco di pochi mesi sarebbe uscito Return to Monkey Island, la risposta del pubblico di affezionati nostalgici non poté che essere esplosiva.

Ad aggiungere benzina sul fuoco, bisogna dire che ulteriori elementi sono andati a soffiare nelle piratesche vele dei nostalgici. Ron Gilbert abbandonò LucasArts già nel 1992, poco dopo lo sviluppo del secondo capitolo, e fu seguito poco dopo da Dave Grossman (1994). Schafer rimase in LucasArts un po’ più a lungo, e sviluppò altre avventure almeno dello stesso livello di Monkey Island (Full Throttle, Grim Fandango), ma durante questo periodo comunque non lavorò più ai restanti capitoli della serie.

Per questo, Guybrush Threepwood continuò le sue avventure senza i propri padri, e agli occhi dei fan questo creò una parabola discendente della serie, se non qualitativa perlomeno in termini di legittimità. La cosa prendeva forza man mano che i titoli si allontanavano dai canoni dei primi due giochi, già a partire dal meraviglioso5 The Curse of Monkey Island (1997).

Il terzo capitolo si allontanava, per ragioni legate alla fisiologica evoluzione tecnologica, dal design pixellato dei primi due episodi, proponendo un’interfaccia ripresa dal già citato Full Throttle in un contesto di luminosa cel animation. Non solo le componenti tecniche: per una precisa scelta ideologica, The Curse of Monkey Island sceglie di trascurare brutalmente il clamoroso cliffhanger alla finedel secondo episodio, che vede Guybrush e la sua nemesi LeChuck apparentemente tornare indietro nel tempo6.

La coloratissima grafica del terzo capitolo in uno dei mitici duelli di spada e insulti.

I successivi capitoli della serie non fecero che aumentare lo straniamento del nucleo di fan più hardcore e restii al cambiamento, complice una qualità – opinione dello scrivente – complessivamente inferiore. Il quarto capitolo, Escape from Monkey Island (2000), si rivelò pasticcione e poco gentile con la lore, mentre il quinto, Tales of Monkey Island, fu sviluppato su licenza da Telltale Games, e benché vide il ritorno di Dave Grossman alla guida non riuscì a svettare rispetto alla restante produzione Telltale, replicandone pedissequamente la struttura episodica.

La nostalgia è una patata bollente

Insomma, in questo contesto esplosivo si profila uno scenario classico: l’annuncio di Gilbert, deus ex machina della serie, scatena reazioni emotive e veementi da parte di una fetta di pubblico un po’ più grossa di quanto si vorrebbe, per via dello stile grafico inatteso e molto lontano dalla pixel art che, orami quasi dieci anni prima, Gilbert aveva ventilato7. È il classico effetto della nostalgia, un sentimento a due facce che tante volte è utile a ricordare quanto di bello è andato perduto e si può recuperare, mentre tante altre è lo specchio di un tentativo di rivivere illusoriamente il passato, incapaci di accettare il proprio presente.

Gilbert, per la verità, la nostalgia la conosce bene. Il suo stesso annuncio, arrivato il 4 aprile, era stato anticipato da un precedente, brevissimo post sul suo blog il 1 aprile, giocando quindi su una running gag che fra i fan durava da ben 18 anni8: l’annuncio di un nuovo capitolo sarebbe stato fatto proprio nella giornata mondiale degli scherzi e delle fake news, in modo da non essere preso sul serio, dopo anni e anni di anticipazioni. Inoltre la precedente opera di Gilbert, Thimbleweed Park, era un gioco platealmente nostalgico e dedicato a ricordare i tempi di Maniac Mansion. Anzi, fu concepito per essere un gioco LucasArts del 1987 ritrovato per caso. Nelle parole di Gilbert:

The point of this project was very much to build a game that was evocative of how you remember the old adventure titles.

Ron Gilbert, intervista a Vice, 11 febbraio 2017

È impossibile non rivedere un po’ di Maniac Mansion in Thimbleweed Park.

Gilbert ama giocare con i punta e clicca, ma evidentemente ama anche giocare con la nostalgia. E allora perché, dopo un gioco in pixel art come Thimbleweed, presentarsi con lo stile grafico animato e sbarazzino e di Return to Monkey Island? Perché un disegno così vivace e “infantile”, quasi da libro pop-up? Un certo insieme di fan, naturalmente, non poteva accettarlo, e dunque non l’ha accettato, reagendo veementemente (e in alcuni casi ferocemente, come solo la rete sa), portando lo stesso Gilbert a scegliere di sospendere le comunicazioni periodiche sul suo blog.

“This is not a throwback game”

L’intero discorso dei fan su Return to Monkey Island sembra però aver mancato il punto. Gilbert lo chiarisce a chiare lettere, sia prima dell’uscita che, con maggior forza, col gioco stesso.

Prima dell’uscita, innanzitutto, Ron Gilbert ha rilasciato delle dichiarazioni di perfetta chiarezza, che già suonano come pietre tombali sulle lamentele dei fan:

“I have made one pixel art game in my entire career and that was Thimbleweed Park,” writes Gilbert. “Monkey Island 1 and 2 weren’t pixel art games. They were games using state-of-the-art tech and art. […] If I had stayed and done Monkey Island 3 it wouldn’t have looked like Monkey Island 2. We would have kept pushing forward.”

Ron Gilbert, estratto dal suo blog, 1 maggio 2022

Cos’è, davvero, Monkey Island?

Questa è la prima bordata. L’idea che la “pixel art” debba essere la cornice obbligata entro il quale inserire un nuovo Monkey Island è una fallacia, una prigione mentale che infila a forza una saga rivoluzionaria all’interno di limiti troppo piccoli e meschini per lei stessa. Monkey Island è sempre stato un gioco in evoluzione, e in questo senso nemmeno la cel animation del terzo capitolo fu un tradimento della formula. Continua Gilbert, nello stesso intervento:

When Dave and I first started brainstorming Return to Monkey Island we talked about pixel art, but it didn’t feel right. We didn’t want to make a retro game. You can’t read an article about Thimbleweed Park without it being called a “throwback game”. I didn’t want Return to Monkey Island to be just a throwback game, I wanted to keep moving Monkey Island forward because it’s interesting, fun, and exciting. It’s what the Monkey Island games have always done.

Ibidem

Gilbert accusa fondamentalmente i fan di non aver capito che cosa fosse Monkey Island, e di volerlo ingabbiare in una nostalgia menzognera, di piccolo cabotaggio. Insomma, già questo stralcio sembrerebbe sufficiente ad affondare le critiche pretestuose. Monkey Island non è un “throwback game”, non è un gioco nostalgico, è un po’ di più e un po’ meglio. È un gioco sulla nostalgia stessa, sul crescere e sull’invecchiare, sul provare a ricatturare il passato e scoprirlo diverso, senza che questo sia nei fatti un male. È fondamentalmente un gioco paterno, un gioco sulla paternità.

Il cuore dell’esperienza, oltre l’avventura grafica

Se il discorso dei fan sembra castrare il percorso complessivo di Monkey Island, facendogli un grave torto, anche la stampa specializzata sembra peccare di visione di insieme9, sebbene in diversa misura e tipologia. Nella sua review, per esempio, PC Gamer descrive il gioco come uno “straightforward point-and-click adventure game that plays just as genre devotees expect”. Non in termini denigratori, attenzione, ma proprio come descrizione: si tratta di un puro e semplice punta e clicca, e questo dovete attendervi.

Intendiamoci, questa descrizione non è intrinsecamente falsa e il redattore non ha certo mentito. Return to Monkey Island è inserito in una cornice di questa fattura, ma è necessario spingersi un po’ più in là e capire che questa struttura così nota e condivisa a tutti è anche funzionale a raccontare l’esperienza di crescita di Gilbert, dei videogiochi tutti e della magia connaturata al raccontare una storia.

Elaine ci chiederà conto della distruzione di questo splendido ecosistema al solo scopo di costruire un mocio.

Nei fatti, Return to Monkey Island procede come è lecito attendersi da un “punta e clicca” uscito nel 2022: enigmi ben orchestrati, una interfaccia snella e convincente, ritmo perfetto, il tutto arricchito da generose dosi del consueto umorismo di casa. Tutto come previsto, insomma, ma il quadro dipinto risulta impreciso se non contestualizzato all’interno del meraviglioso racconto di sé, dei fan, e della storia di Monkey Island che Gilbert riversa fra le righe dell’avventura di Guybrush.

Nascosta in bella vista nel tessuto ludico vi è infatti una continua operazione di sollecito sibillino della nostalgia dei fan. Gilbert maneggia questa nostalgia con perizia, e vuole sia farla emergere romanticamente, con i continui richiami al passato della serie, ai suoi personaggi iconici e alle sue idiosincrasie, sia frustrarla nelle sue derive più oscure e totalizzanti.

Questo equilibrismo è manifesto fin dai primi istanti di gioco. Gilbert mantiene la sua antica promessa di ripartire alla fine del secondo capitolo10, dal famoso cliffhanger che vede Guybrush e LeChuck uscire bambini da una giostra del misterioso parco di Big Whoop insieme ai propri genitori. Il gioco inizia qui, eppure non qui: quel bambino che controlliamo in apertura è in realtà Boybrush, il figlio di Guybrush ed Elaine, che visita insieme ad un amico un normale parco giochi.

Il mistero del finale di Monkey Island, il velo di Maya che i giocatori volevano squarciare, resiste ancora saldo, saldissimo, contemporaneamente stuzzicando e sovvertendo le aspettative dei fan. Così facendo inoltre Gilbert ridichiara con forza la legittimità del terzo capitolo in termini di canone, addirittura rafforzando e benedicendo la sua scelta di non svelare l’arcano, ma anzi di buttare giù i fan dalle loro certezze.

Dato il là, il continuo del gioco è assolutamente coerente. Una buona cartina tornasole delle intenzioni di Gilbert è rappresentata dai duelli con le spade a base di insulti. Uno degli elementi più celebri della serie, già presente nel primo e terzo capitolo, è assente in Return to Monkey Island. È però un’assenza molto rumorosa, quasi gridata: per almeno tre volte viene suggerita una loro presenza, con sequenze sibilline che sembrano promettere nuovi duelli, nuovi insulti, salvo risolversi in dialoghi brevi e senza ulteriori sbocchi, giocando senza pace sulle aspettative del fan storico.

L’avventura è cosparsa di questi giochi e svolazzi, ma c’è un esempio che probabilmente dà ancora maggior visibilità del pensiero dei suoi autori. Sulla vecchia Mêlée Island, ricostruita pressoché identica a quella del primo capitolo, laddove una volta abitava la maestra di spada Carla è oggi presente un museo dedicato a memorabilia pirateschi. Il museo, curato da un entusiasta ed illuso fanaticodei pirati di nome Conrad, in mezzo a qualche pezzo storico, è però pieno di incredibili falsi, di inutile chincaglieria spacciata per mirabolanti artefatti. Al contempo anche alcuni reperti reali ripresi dai precedenti Monkey Island vengono distorti, ingigantiti, e le parole chiarificatrici del vecchio Guybrush vengono derise e scartate come fantasia.

Il “museum of pirate lore”, pieno di falsi e nostalgia.

È impossibile non rivedere in questo particolare rapporto fra Conrad e Guybrush lo stesso rapporto che esiste fra la fanbase e il team di Gilbert. L’ambiguità prende una piega sempre più assurda e parossistica, che tocca l’apice con un meraviglioso dialogo fra i due:

Guybrush: “This is absurd! It’s like this whole wall is stuff from my personal adventures, but somehow I’m not even mentioned in your stories!”

Conrad: “That’s what so great about this museum! Everyone makes their own connections with the exhibits, and it’s highly personal and different for everyone!”

Guybrush: “That’s not what I’m trying to sa yat all.”

Conrad: “That’s ok, you don’t need to say anything, just listen to what the exhibits tell you”.

Insomma caro Gilbert, grazie delle dritte ma il gioco lo dirigiamo noi.

Cercavo un approfondimento e tutto quello che ho trovato è questo stupido articolo

[Testo SPOILER]

Gilbert, per nostra fortuna, non ha mollato. Ha borbottato, chiudendo il blog e lamentandosi delle pretese dei fan, ma non ha mollato. I suoi rimbrotti non sono però quelli di un professore frustrato, bensì quelli di un padre. Laddove la prima metà del gioco era un buffetto ai fan, volta soprattutto a mostrare le incoerenze delle pretese dettate dalla nostalgia, la seconda metà è una meravigliosa esperienza di paternità pura e semplice.

Gilbert conosce la magia del videogame, e la maneggia sapientemente. Disseminate in questa fase vi saranno diverse sezioni che faranno rileggere al giocatore alcune delle proprie azioni durante l’avventura, spogliate però della comicità che le accompagnava e lasciate nude nella loro crudezza. Certo caro Guybrush, abbandonare un vecchio in una caverna sembrava proprio divertente mentre lo facevi, ma ti rendi davvero conto di quello che hai fatto? E soffiare la corona ad una regina appassionata del suo popolo, distruggendo un artefatto tradizionale nel mentre, era un giusto prezzo da pagare per arrivare al famoso segreto di Monkey Island?

Sarà Elaine, la dolce11 moglie di Guybrush, ad elencare le sue malefatte poco prima di raggiungere il segreto. Un bagno di realtà all’amato marito, che forse per la sua ossessione ha sacrificato un po’ troppo:

It’s just that I’m worried that The Secret can’t possibly measure up to the effort and anticipation. What exactly are you expecting to find? […] Be careful what you wish for.

Elaine Marley, introduzione alla quinta parte di Return to Monkey Island

Gilbert qui è durissimo. Dai buffetti si passa ad una vera lezione, che però a prima vista potrebbe essere fraintesa. Non sono davvero le azioni di Guybrush ad essere tremende. Monkey Island vive in una ucronia deviata, dove Guybrush è il buono, all’interno del racconto, e combatte il male, nonostante non sia certo uno stinco di santo. I crimini di Guybrush sono tali solo se estrapolati dal loro mondo, se guardati al netto della meravigliosa storia che gli è stata costruita intorno. Se togli la narrazione e la scrittura da un Monkey Island, se abbatti il contesto e le chiavi di lettura condivise, restano solo macerie. Perché quindi ribellarsi a chi questo mondo l’ha disegnato? Togliete chi ha lanciato la magia nei caraibi LucasArts, e rimarrà solo polvere.

Gilbert, da padre, non vuole questo. Borbotta e si lamenta perché vede dei figli travolgere tutto per avere il segreto di Monkey Island, e per averlo come vogliono loro. È in fondo questo il motivo per cui ha scelto di tornare su Monkey Island, e in coerenza con questa indole chiuderà la sua avventura.

Sul finale, infatti, Gilbert riprende la stessa impossibile conclusione di Monkey Island 2. Il segreto di Monkey Island non è altro che, di nuovo, solo un parco giochi, e i personaggi che Guybrush ha incontrato sono di fatto marionette. Il luna park questa volta è però firmato: “established 1989 by R.Gilbert”, recita una eloquente targhetta. La paternità è totale: con una limpida franchezza, il grandissimo autore ci sta semplicemente dicendo che Monkey Island è il suo parco giochi, e noi possiamo godercelo tutto, per quello che è e non per quello che vorremmo noi, a patto di salire sulla giostra.

Il misterioso finale del secondo capitolo è l’alfa e l’omega di Return to Monkey Island.

Non un parco giochi privato, chiuso, ma qualcosa di regalato a chi lo desidera. Le pretese, il desiderio di stringere a sé un segreto che non può esistere, sono la morte di Monkey Island, che invece prospera in questa magia, in questo affidarsi alle sapienti mani dei suoi creatori e al loro amore per raccontare qualcosa di così bello e aperto a tutti. Proprio a tutti, compresi i pasdaran della nostalgia, mai traditi in questo viaggio nella memoria e nel passato, nonostante le sberle non negate. A noi giocatori non resta che abbracciare questa rivelazione e, con Guybrush, spegnere letteralmente le luci prima di andarcene, felici.

FF


NOTE:

1 PC Gamer lo inserisce per esempio nella lista dei 50 videogiochi più influenti di sempre.

2 Come chiarito anche nella History of Zork, nell’archivio del New York Times

3 Per approfondire, si consiglia il paper “Let’s Begin Again: Sierra On-Line and the Origins of the Graphical Adventure Game”. American Journal of Play, Nooney, Laine (2017).

4 Labyrinth (1986), Maniac Mansion (1987), Zack McKracken and the Alien Mindbenders (1989).

5 Lo stesso Gilbert lo elogiò apertamente, come riportato in “Rogue Leaders: The Story of LucasArts”, Rob Smith, 2008.

6 O forse andare in una dimensione parallela, o forse scoprire che si trattava tutto di un gioco di bambini, o forse era solo un’illusione. Era, per l’appunto, un clamoroso cliffhanger.

7 Nel suo post sul proprio blog If I Made Another Monkey Island, pubblicato sul suo blog il 13 aprile 2013, Gilbert descrive lo stile grafico che avrebbe utilizzato come “Nice crisp retro art”.

8 Come riscontrabile nello stesso post sul blog di Gilbert: https://grumpygamer.com/april_fools_2022

9 Peraltro, le valutazioni date al gioco sono di assoluto rispetto, se è vero che al momento di stendere l’articolo il gioco ha un punteggio Metacritic di 86.

10 Sempre dal suo post “If I Made Another Monkey Island”, pubblicato sul suo blog il 13 aprile 2013.

11 In questo capitolo almeno; in altri episodi si mostra ben più arcigna.


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Di regole, meccaniche e agenzie investigative a Singapore

Di regole, meccaniche e agenzie investigative a Singapore

  • Alfredo Savy

  • 6 maggio 2022
  • noninteragire

Uno dei temi più caldi della conversazione videoludica contemporanea, che coinvolge nelle sue premesse anche “Chinatown Detective Agency” (General Interactive co., 2022), riguarda la ripetitività di certi schemi, tanto frequenti da diventare immediatamente riconoscibili ai fruitori. Un creare semplice da parte di chi il videogioco lo sviluppa e che, pressato da certe esigenze di mercato, proprio su quella riconoscibilità, spesso ben ricompensata dagli utenti, inchioda le sue decisioni di game design.

Da questo punto di vista, il videogioco ad alto budget risulta essere spesso ingessato. Più cresce l’investimento, meno si rischia; perciò, in termini di freschezza concettuale, si guarda alla scena indie come àncora di salvataggio – con tutti i “se” e i “ma” del caso.

D’altronde, anche per una questione meramente economica, i potenziali destinatari di questo tipo di videogiochi sono più aperti alla sperimentazione rispetto a un pubblico più generalista e dunque conviene accontentarli. Si chiama segmentazione del mercato, baby (ma pure cogliere due piccioni con una fava).

Disco Elysium, straordinario RPG investigativo.

Nell’ultimo periodo abbiamo assistito a una certa proliferazione di buone idee nell’ambito del cosiddetto “Detective Genre”, il videogioco investigativo (a cui non a caso è stato riservato un panel alla Ludonarracon2022). Sicuramente i due esponenti più preziosi sono “Return of the Obra Dinn” (Pope, 2018) e “Disco Elysium” (ZA/UM, 2019), ma un certo riconoscimento è stato ottenuto, ad esempio, anche dalla città romana di “The Forgotten City” (Modern Storyteller, 2021). Insomma, pare che risolvere misteri sia foriero di una certa creatività.

Proprio su questa scia cerca di inserirsi Chinatown Detective Agency e lo fa in un modo semplice ed elegante, sebbene non propriamente innovativo.
Per utilizzare le parole di Mark Fillon, Creative Director di Chinatown Detective Agency:

As the years progressed, I’ve always wondered why nobody used that mechanic in modern games.

Mark Fillon, Creative Director, dal podcast SIFTER del 30 aprile 2022.

“Quella meccanica” a cui Fillon fa riferimento appartiene a un gioco uscito qualche decennio fa, “Where in the World is Carmen Sandiego?” (Brøderbund, 1985), e da cui bisogna partire per comprendere le radici del game design di Chinatown Detective Agency. Lo scopo di questo titolo era, riassumendo, quello di indagare in giro per il mondo, ostacolando una V.I.L.E. organizzazione criminale: per farlo, serviva una buona dose di nozioni di geografia. Queste ultime erano fornite dal cosiddetto “Libro dei fatti”, un almanacco che riassumeva tutti gli eventi rilevanti nel corso dei decenni, e che veniva allegato al videogioco stesso. 

Insomma, in “Where in the World is Carmen Sandiego?” il videogiocatore doveva utilizzare una fonte esterna per risolvere delle sfide interne; e da questa lezione è nato Chinatown Detective Agency. Come nel titolo di Brøderbund, anche la protagonista Amira Darma verrà sottoposta a una serie di enigmi, risolvibili mediante l’accesso a Internet: il nostro Internet, quello reale. Chinatown Detective Agency si prefigge perciò di allargare lo spazio ludico fino a inglobare quello reale; di sottoporlo alle sue regole. Come vedremo, questo tentativo – e il correlato patrimonio di cui si propone come unico erede – rappresentano un po’ croce e delizia del lavoro di General Interactive.

La versione deluxe di “Where in the World is Carmen Sandiego”. Le influenze sulla UX di Chinatown Detective Agency sono evidenti.

La discussione che apre Chinatown Detective Agency è, forse, più interessante di quanto non lo sia questo buon videogioco. Sebbene nel panorama moderno ci siano stati dei ricorsi sporadici a tale genere di costruzioni ludonarrative – basti pensare al primo Metal Gear Solid dove la frequenza di Meryl si trovava sulla scatola – è innegabile che il ricorso così sistematico, totalizzante, al pescare informazioni esterne sia un tratto distintivo di questo titolo. Ciò comporta, inevitabilmente, una serie di considerazioni sul rapporto tra le strutture che lo compongono, e sui limiti fisiologici di questa impostazione.

Ordinamenti videoludici ed effettività

In un interessante contributo risalente agli anni Duemila, Miguel Sicart presentava una proposta definitoria di “meccaniche” e di “regole” all’interno del videogioco, cercando di risolvere il conflitto tra la scuola, potremmo dire, “formalistica” e quella “pragmatistica” ovvero “deterministica”. 

In effetti, prima della sintesi del Sicart, esisteva (e, da un certo punto di vista, continua a esistere) un certo attrito tra gli studiosi che sostengono vi sia una distanza delle regole dalle meccaniche (Avedon, 1971), rispetto a chi, invece, supporta la sussunzione delle seconde nelle prime (Lundgren e Björk, 2003) oppure identifica tali categorie solo in rapporto agli obiettivi da raggiungere (Järvinen, 2008).

In particolare, nel saggio viene affermato che:

Game mechanics are methods invoked by agents, designed for interaction with the game state. (…) Implicit in this definition is an ontological difference between rules and mechanics. Game mechanics are concerned with the actual interaction with the game state, while rules provide the possibility space where that interaction is possible (…).

Miguel Sicart, Defining Game Mechanics, in Game Studies volume 8, issue 2, December 2008

Pertanto, per “meccanica” si intende lo strumento mediante il quale il fruitore interagisce con la struttura ludica, e per “regola” l’elemento che permette alla meccanica di agire. Partendo da questa modellizzazione si potrebbe dire che la regola legittima la meccanica, la quale non sarebbe altro che una possibilità concreta di interazione.
E quali sarebbero le caratteristiche della regola? La generalità, dato che si rivolge a tutti i fruitori; l’astrattezza, visto che è applicabile a tutti i casi concreti presentii nel videogioco; l’imperatività per l’incapacità del fruitore di sostituirla con un’altra regola, a sua discrezione.

La Regola d’oro di Chinatown Detective Agency.

Da ciò consegue che la regola videoludica non è altro che una norma giuridica, capace di comporre un ordinamento specifico per ogni videogioco; il policy-maker di questo particolare ordinamento videoludico è lo sviluppatore, colui che per definizione detta e collega le regole ai concreti metodi di fruizione, cioè alle meccaniche. Creando almeno un perimetro minimo.

E infatti:

Rules are normative, while mechanics are performative.

ivi.

Ancora, uno dei principi fondamentali di un ordinamento giuridico è il principio di effettività: è effettivo se e soltanto se le norme che lo compongono sono concretamente applicabili 1, e dunque non esistono solo come lettera morta. Ecco il punto: adesso torniamo, finalmente, a Chinatown Detective Agency.

Per risolvere i casi di cui si compone la storia, General Interactive ha – come detto in precedenza – imperniato il suo gioco su una meccanica ben precisa: quella di dover ricercare le informazioni esternamente al titolo stesso. Quest’azione, sebbene prevista da una regola, non può essere in alcun modo controllata dallo sviluppatore, e quindi vale finché vale.
Una norma che si basa unicamente sull’osservanza volontaria del fruitore è manchevole di quella effettività appena descritta; ciò ha importanti ripercussioni sul game design, sia dal punto di vista della solidità che da quello della coerenza. 

In altre parole, General Interactive non può in alcun modo indirizzare il videogiocatore sulla ricerca online – come prevedrebbe la sua stessa regola – invece che sulla soluzione diretta degli enigmi; non può, insomma, regolare il piano della realtà. Non solo: come ammesso dallo stesso sviluppatore, Chinatown Detective Agency sta modificando le query di Google, e talvolta la soluzione agli enigmi compare direttamente nella barra del motore di ricerca, colpendo persino il giocatore in buona fede.

Diciamo no alle generalizzazioni

La questione della fragilità della regola influenza anche il rapporto tra grandezze ludiche e narrative. Senza voler anticipare nulla di rilevante, il racconto di Chinatown Detective Agency ha come perno una rilettura critica del nostro tempo, sapientemente proiettata a quindici anni da ora, nel 2037.

Un esempio della naturale incompletezza di Chinatown Detective Agency: senza Google Maps l’indizio è inutile.

Ovviamente tutto ciò non significa che gli Autori, spesso e volentieri, non rompano la quarta parete per comunicare direttamente con chi è dall’altra parte dello schermo; semplicemente la questione si pone ora su un piano diverso, in quanto Chinatown Detective Agency ingloba ciò che è fuori in ciò che è dentro. È un gioco che vive per definizione di meccanismi eteroderivati, geneticamente incompleto. Da ciò consegue che paragonare un’esperienza di gioco classica, basata sul disinteresse di cui sopra, a un titolo che autorizza espressamente l’attività esterna del videogiocatore, significa approcciarsi male alla questione in termini proprio metodologici.

Si potrebbe, per ultimo, opporre che tutta la faccenda ha rilevanza solo sul piano teorico e per nulla dal punto di vista pratico. Anche questa prospettiva appare criticabile, dal momento in cui ci avviamo, a spron battuto, verso una commistione sempre maggiore tra reale e virtuale, al punto di non poter più distinguere l’uno dall’altro (qualcuno ha detto Metaverso?); da questo punto di vista, è il benvenuto ogni studio, o critica, dei processi comunicativi e di regolamentazione delle attività tra i due piani. 

Mantenendo uno sguardo più focalizzato, invece, si può facilmente osservare come a precise visioni da parte degli studi tendano a corrispondere dei game design più rigidi, onde cercare di piegare il fruitore verso quella che – secondo gli sviluppatori – potrebbe essere una certa linea di autenticità. Ne è un esempio il recente Deathloop che, tra le altre cose, impedisce di salvare durante le fasi che compongono il ciclo: in questo modo si evita il save scumming e si accettano le conseguenze delle proprie azioni, seguendo il flusso disegnato da Arkane. Oppure, provocatoriamente, si potrebbe considerare come meccanismo di effettivizzazione della regola finanche la difficoltà dei Souls, e la conseguente abilità biologica del giocatore per cui non basta solo vedere ma bisogna anche saper fare. 

In Elden Ring la difficoltà rende effettiva la regola?

Insomma, il game design di Chinatown Detective Agency è sicuramente intrigante ma, al fine di separare una presa di posizione netta da un semplice esercizio di stile, è fondamentale inserire dei bilanciamenti che permettano alla regola di regolare i processi di esternalizzazione. Alla luce di ciò, è evidente come la struttura realizzata da General Interactive sia perfezionabile: con una randomizzazione degli enigmi si potevano realizzare run uniche, riducendo la possibilità di appoggiarsi a soluzioni prodotte da altri o di incappare in indicazioni cruciali, favorendo anche il confronto online riguardo gli strumenti per giungere alla conclusione del gioco.

Una struttura del genere avrebbe – infine – reso effettivo anche il ricorso all’aiuto di Mei Ling, un NPC capace di risolvere istantaneamente gli enigmi dopo il pagamento di moneta sonante. Anche in questo caso, la possibilità di ricorrere al web per scavalcare questa costruzione risulta in una mortificazione della stessa. Parafrasando quanto detto proprio dallo sviluppatore nel podcast citato a inizio articolo, la sola speranza che il videogiocatore giochi “pulito” non sembra abbastanza, data comunque l’intenzione di offrire un prodotto anche divisivo, purché stimolante. 

Tra raccordi ludonarrativi e frizioni inconsapevoli

La questione della fragilità della regola influenza anche il rapporto tra grandezze ludiche e narrative. Senza voler anticipare nulla di rilevante, il racconto di Chinatown Detective Agency ha come perno una rilettura critica del nostro tempo, sapientemente proiettata a quindici anni da ora, nel 2037.

La critica ai sistemi capitalistici è molto presente in Chinatown Detective Agency.

Tornano quindi i grandi temi del post-modernismo: accumulazione del capitale, dominio della cultura pop, deregolamentazione, decentralizzazione, accelerazionismo concettuale e fisico, attraverso una specie di venerazione apotropaica del trasporto pubblico (che è, volutamente, al centro di un ramo narrativo). A questa carrellata – non propriamente originale, ma che sicuramente non fa male ribadire al pubblico – troviamo delle peculiarità tipiche della scena di Singapore, come le megachurch. Dopotutto, Chinatown Detective Agency offre un’ottima rappresentazione di un cyberpunk localizzato, che costruisce anche attraverso i suoi personaggi.

Tra tutti questi topoi, a rubare la scena è certamente il collasso del libero mercato quale elemento distintivo del presente di Amira Darma, letteralmente costretta a scavare nel torbido di una società che ha smesso di funzionare organicamente, e da un bel pezzo. Amira è un’investigatrice privata la cui attività principale è, ovviamente, quella di ricostruire la verità partendo da indizi o soffiate varie. L’incastro che General Interactive cerca è quello tra il videogiocatore – che investiga – e il controllo di un personaggio narrativamente collocato nella posizione di investigatrice. In poche parole, la meccanica riflette la posizione del PG nella storia, annullando qualsiasi idiosincrasia. 

Accanto a questa fusione tra azione e ruolo, Chinatown Detective Agency presenta alcuni meccanismi che, su queste pagine, abbiamo talvolta identificato come di raccordo ludonarrativo (per approfondire, ne abbiamo parlato qui). Il più evidente riguarda certamente il tempo, una grandezza che attraversa integralmente il lavoro di General Interactive. Amira ha delle scadenze precise per recarsi a un appuntamento, risolvere un caso o raggiungere un luogo: pena, il game over. Quando il gioco ha un’urgenza lo segnala, e spesso agisce di conseguenza: chiude talvolta gli spazi, bloccando il viaggio in metropolitana se si è, ad esempio, su una scena del crimine.

Insomma, tutto sembra perfettamente allineato: abbiamo una meccanica che riflette la condizione narrativa, e un gameplay che avverte le necessità del racconto riducendo le azioni a seconda di queste. Eppure, proprio partendo dalla concezione del gameplay come “insieme complesso” (Soler-Adillon, 2019), e cioè composto proprio da azioni del giocatore, regole e meccaniche, si può individuare il vero punto di contrasto all’interno di Chinatown Detective Agency. Il fatto che un videogioco parli di fallimento del libero mercato deregolamentato e, per farlo, si affidi a una meccanica basata su una regola osservata in maniera totalmente volontaria dal videogiocatore, appare paradossale. 

Il mancato rispetto di una priorità conduce al Game Over.

Il non aver implementato dei meccanismi correttivi e di effettivizzazione della regola non conduce, quindi, solo alla possibilità che venga spezzato il legame tra azione investigativa e controllo di Amira Darma – che andava probabilmente difeso con le unghie e con i denti in quanto elemento caratterizzante l’intera esperienza – ma si estende a una considerazione più generale. Lo strumento scelto per regolare l’attività del giocatore è lo stesso che si presume fallito, su larga scala, nel 2037 di Chinatown Detective Agency. Ai posteri lasciamo volentieri il dibattito sul fatto che questo tipo di frizione ricada, o meno, all’interno della dissonanza ludonarrativa (ché è sinceramente un po’ stantio). 

A conti fatti, dopo i tanti appunti critici, si potrebbe essere portati a credere che Chinatown Detective Agency sia un brutto gioco. Non è così; l’aver recuperato una meccanica sepolta in un passato arcaico e aver provato a modernizzarla lo configura, almeno, come un tentativo interessante. Forse gli si può imputare di sottovalutare l’ampiezza dello strumento a cui si rivolge per colmare le proprie lacune, che non è esattamente l’almanacco di Carmen Sandiego. 

Eppure vale la pena di provarlo: fosse anche solo per il merito indiscusso di sollevare una discussione interessante in un periodo fiacco, unito a una pixel art deliziosa.

AAS


NOTE:

1 Per approfondire: Santi Romano, L’ordinamento giuridico, ult. ed Quodlibet, Macerata 2018; H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 2000.

2 Probabilmente le microtransazioni corrodono il concetto, soprattutto nell’ambito dei cd. pay-to-win. Fortunatamente, le esperienza single player di questo tipo sono piuttosto limitate. Qui un contributo estremamente interessante sulla dicotomia reale/virtuale negli MMORPG.


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Unpacking non è solo la storia di una vita

Unpacking non è solo la storia di una vita

  • Alfredo Savy

  • 15 novembre 2021
  • noninteragire

Entrare in un appartamento sconosciuto significa venire a contatto con un’esistenza.
Gli oggetti che un individuo ha scelto di esporre, conservare, utilizzare, dicono molto sul suo carattere, sul suo passato e sul suo presente. Le foto di famiglia, i libri sulle mensole, persino la disposizione degli effetti personali nel bagno ci raccontano qualcosa.

Ed è proprio attorno alla dimensione del raccontare tramite le cose e la disposizione delle cose che è centrato Unpacking (2021), un piccolo gioco in Pixel Art sviluppato da Witch Beam Games.

1997. La prima stanza.

Unpacking è incredibilmente delicato. Sarà un po’ per quel mood malinconico e nostalgico, sarà un po’ perché ci pone nelle condizioni di spacchettare gli oggetti di un altro, sarà un po’ per la meravigliosa colonna sonora di Jeff Van Dyck – che ricorda quella dimensione intimistica della fanciullezza spesa con i giochi Nintendo, non a caso protagonisti in incognito del titolo  ma è in grado di accompagnarci in un viaggio anche nei nostri trascorsi.
Un viaggio parallelo a quello videoludico e che affronteremo lungo un ventennio, dal 1997 al 2018. 

In effetti, il lavoro di Witch Beam vola attraverso un periodo definito. Iniziamo arredando la stanza di una bambina, nel 1997; chiuderemo posizionando computer e vestiti di una persona adulta, nel 2018. Pienamente cosciente di chi vuole essere e delle persone di cui desidera circondarsi.
Nel mentre, c’è la vita: con le sue sfide, i suoi intoppi, i suoi alti e i suoi bassi.

Come ci ricorda l’immortale The Voice,

That’s life
That’s what all the people say
You’re riding high in April, shot down in May
But I know I’m gonna change that tune
When I’m back on top, back on top in June

Frank Sinatra, That’s Life, di Dean Kay e Kelly Gordon, 1963-1966

Eppure non è tutto qui. Unpacking non è solo emozioni a buon mercato e una parabola della crescita, ma possiede anche un uso sapiente e consapevole del linguaggio videoludico, che esprime attraverso la cosiddetta environmental storytelling (narrazione ambientale).
Facendo anche un passettino oltre.

Tra nuova geografia creativa e narrazione ambientale

[DISCLAIMER: SPOILER]

Come si è forse potuto intuire, è attraverso gli oggetti, e la collocazione degli stessi, che conosciamo la protagonista di Unpacking e ne riusciamo a vivere i cambiamenti e le evoluzioni personali. Non faremo altro che aprire scatole e posizionare ciò che troveremo nelle stesse.

Ma c’è di più: quello che immediatamente colpisce è come gli Autori abbiano scelto di far parlare le meccaniche (o meglio, la meccanica), riuscendo così a raccontare in maniera implicita.
Insomma, sembra quasi una riedizione dell’effetto Kulešov applicato al videogioco. 

Narrazione ambientale: alla protagonista di Unpacking piace Matrix.

L’effetto Kulešov (da Lev Vladimiroviç Kulešov, 1899-1970) appartiene al medium cinematografico.
Un primo piano di un attore, montato con l’immagine di un piatto di zuppa, di una tomba o di una bambina che gioca, provoca nello spettatore delle sensazioni notevolmente diverse. Attraverso un meccanismo di cognizione, stimolato dal montaggio quale elemento distintivo del Cinema, il fruitore risponde legando i tasselli e veicolando un determinato stato d’animo (cdstimolo-risposta). Il tutto senza aver bisogno di una struttura didascalica, ma solo attraverso il racconto per immagini.

Hitchcock spiega, a modo suo, l’effetto Kulešov: in alto un uomo buono, in basso un pervertito.

Per dirla con le parole di uno dei più grandi critici cinematografici italiani,

Non è la cosa in sé a dare un senso al film, ma il rapporto fra questa cosa e le altre ad essa accostate.

Giovanni Buttafava, Il cinema russo e sovietico, a cura di Fausto Malcovati, Biblioteca B&N, 2000, pag. 51.

Dall’effetto Kulešov deriva la geografia creativa: riprese effettuate in momenti diversi vengono montate insieme, dando una sensazione di continuità e sospendendo l’incredulità dello spettatore.

Allo stesso modo, i creatori di Unpacking, mediante la collocazione di alcuni oggetti in specifici posti e momenti, messi in antitesi tra loro, riescono a comunicare con il videogiocatore senza doversi spiegare espressamente. Il momento di maggiore evidenza di questo meccanismo si ha quando la ragazza inizia la prima convivenza e la sua laurea, presa con sacrificio, finisce sotto il letto del compagno.
Non è possibile spostare altri quadri per appendere al muro il titolo di studio: va lì e basta. 

Nuova geografia creativa: la laurea era nascosta vicino ai pesi nell’appartamento dell’ex fidanzato…

Il videogiocatore, però, conosce il valore di quel documento: ha vissuto, spacchettando, il tempo del college; è cosciente perfino che la protagonista abbia una certa attitudine al disegno fin da quando era bambina. L’aver messo la laurea in bella vista nel capitolo precedente (e il tornare a farlo in quello successivo), mentre è costretto a nasconderla in questo, provoca nel fruitore una sensazione di fastidio e di rigetto dell’intera relazione. Questa danza di accostamenti, insieme ad altri artifizi peculiari come il farsi letteralmente spazio tra le cose altrui, crea un feedback negativo tanto da portare qualche redattore a definire il fidanzato come uno stronzo.

Anche se l’azione presa come tale è la medesima (posizionare il quadro), lo stimolo che fornisce il gameplay suscita una risposta differente a seconda del contesto in cui la meccanica viene collocata. La contrapposizione tra l’appendere il quadro e il nascondere il quadro riesce a creare nel fruitore un processo di cognizione non dissimile a quello dell’effetto Kulešov; e non è un caso che tale processo si esplichi proprio grazie all’intervento delle strutture proprie e caratterizzanti di queste due forme d’arte, cioè il gameplay e il montaggio.

…mentre è esposta orgogliosamente in alto a destra nell’appartamento indipendente.

Unpacking non è certo il primo a utilizzare quest’effetto: basti pensare a titoli come Papers, Please (Pope, 2013) o l’italianissimo Hard Times (Preziosi, 2019), di cui pure abbiamo già discusso.

Come suggerito in apertura di paragrafo, sarebbe esiziale confondere questo fenomeno con la mera narrazione ambientale. Unpacking è pieno di oggetti che dicono qualcosa: le copertine dei libri, dei Blu-ray e dei videogiochi della protagonista, il candelabro a sette braccia; i mezzi con cui lavora, e perfino un bastone che le serve per camminare. Un conto, però, è l’ambiente; un altro sono le meccaniche. Per non confonderci, potrebbe essere utile definire l’utilizzo a titolo comunicativo delle seconde come una “nuova geografia creativa”, parafrasando proprio quella di Kulešov e continuando nel parallelismo.

Un esempio della differenza tra queste due strutture è dato dall’uso dei peluche. Durante le varie operazioni di svuotamento delle scatole nel corso degli anni, è più volte sottolineato che la protagonista sia molto affezionata al suo orsacchiotto; nel momento in cui inizia a convivere con la sua nuova ragazza, il videogiocatore non potrà che rimanere colpito dal fatto che anche la compagna ne possegga uno. In questo caso, è il pupazzetto a parlare, a comunicare che la sua attuale partner potrebbe essere la persona giusta, non le meccaniche in quanto tali: siamo nell’ambito della narrazione ambientale e non di quella che abbiamo chiamato “nuova geografia creativa”. La decisione di mettere i peluche insieme sul letto, per quanto carina, è residuale e successiva. Arriva in un secondo momento, quando la situazione è già definita.

2015. Entrambi i peluche delle ragazze sono sul loro letto matrimoniale.

A tal proposito, è molto interessante rendersi conto di come Unpacking ci porti naturalmente a controllare il trasloco non di una, ma due persone: il semplice cambio di colore delle scatole indica di chi siano gli oggetti che stiamo per sistemare. In questo caso, l’avanzamento della storia implicita conduce a un raddoppio degli oggetti da spacchettare, in antitesi a quanto accaduto in precedenza quando erano questi ultimi, insieme alle meccaniche, a fungere da apripista alla narrazione.
Un’inversione a U funzionale allo stesso ritmo del titolo.

Fenomenali poteri cosmici in un minuscolo spazio vitale

Il passaggio dal ridisporre i memorabilia della sola protagonista a farlo anche per la fidanzata è utile per svelare l’ultimo tassello di Unpacking: il videogiocatore. Che ha, infatti, potere decisionale nelle piccole stanze dove colloca gli oggetti.

Due scatole, due personaggi.

Ogni partita di Unpacking è diversa da persona a persona. Per quanto vi siano delle ristrettezze alla libertà di chi è dall’altra parte dello schermo per ragioni narrative – sottolineate in precedenza – esistono molte variabili da tenere in conto. C’è chi organizza i libri per grandezza e chi, invece, li butta un po’ a caso; chi individua degli spazi precisi per Blu-ray o videogiochi e chi, al contrario, li ammassa sulle mensole; chi dispone gli abiti ordinatamente, dividendo pantaloni e vestiti e chi, viceversa, riempie i cassetti di calzini e magliette come capita. Ancora, anche il modo di spacchettare cambia: c’è chi svuota subito la scatola per toglierla davanti al naso e chi si muove di oggetto in oggetto. Chi preferisce mettere in evidenza certe suppellettili invece di altre, e via dicendo.

Unpacking è stato definito, scherzosamente, il videogioco di Marie Kondo; ed è stimolante cercare di capire come si interfacci al titolo Witch Beam quella categoria di persone frustrata dal sistemare dopo un trasloco, e che magari trova appagante, invece, ordinare gli oggetti in un videogioco. Banalmente, il quesito è se ci sia lo stesso interesse nell’organizzare casa, nella vita reale e virtuale.

Ancora una volta, si ripropongono i grandi temi di identificazione (o di separazione) tra il  e il sé videoludico, che in questo caso arrivano perfino all’analisi dei disturbi ossessivi compulsivi (non è una battuta e nemmeno un’esagerazione). Ovviamente, la personalizzazione della partita spinge alla creazione di vari contenuti meta, con i quali possono essere condivisi e confrontati gli arredamenti.
Torna, insomma, il discorso di Kiri Miller sul turismo del videogiocatore.

Ma non è finita. Unpacking è anche una grande storia d’amore, dopotutto. E di normalizzazione di alcune tematiche, la relazione e la famiglia omosessuale, di cui si sente un gran bisogno al giorno d’oggi. Si fa carico di rappresentatività. Ci fa indossare i panni della ragazza, spingendoci a empatizzare: sul divano a guardare la TV quando fuori fa freddo, con il sogno di illustrare un libro per bambini e il plaid sulle gambe. Gli assorbenti da riporre in bagno, le foto e le calamite sul frigo per ricordarci chi siamo, i nostri affetti.

La fragilità dell’essere umani, d’altronde, si rispecchia anche nella forza di trovare il modo di uscire da situazioni complesse. Di trovare l’indipendenza dopo la fine di un amore.
Un po’ come (500) giorni insieme (Webb, 2009), Unpacking racconta di pessime fini e bellissimi inizi.
A cui possiamo assistere, con un gran sorriso in faccia e un certo calore nel cuore.

AAS


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