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INSIDE, tra sogno lucido e sogno ludico

INSIDE, tra sogno lucido e sogno ludico

  • Alfredo Savy

  • 22 ottobre 2021
  • noninteragire

Per raccontare il sogno di INSIDE bisogna partire da qualcosa che non è INSIDE.

We are like the dreamer who dreams and then lives inside the dream.
But who is the dreamer?

Twin Peaks, Part 14, We are like the dreamer.

“Chi è il sognatore?”, chiede Monica Bellucci a un Gordon Cole (David Lynch) in bianco e nero, nella quattordicesima puntata di Twin Peaks (2017, nota anche come terza stagione).

Il tema del sogno – d’altronde – è ricorrente nella cinematografia del regista americano, che molto spesso in carriera ha affrontato il dilemma riguardo i piani della realtà, l’immaginario, la coscienza di sé. Non è il solo specialista della materia; eppure lo scomoderemo come input analitico, utilizzando la sua riflessione per illuminare il lavoro di Playdead, software house danese e creatrice di INSIDE.

Muovendoci per analogia, “Chi è il sognatore?” è una domanda forse ricorrente anche per chi gioca, o ha giocato, INSIDE. Il videogiocatore attraversa le dimensioni e lo spazio del sogno, un ambiente orrorifico, l’inconscio. Ma di chi?

Anche durante la prima esperienza con il titolo Playdead, in uno stato di ingenuità e ignoranza, è facile sentirsi parte di quei luoghi, di quelle paure, di quel sentimento di angoscia e frustrazione che sembra quasi estratto da qualcosa di antico, di conosciuto.
Come se fosse il cuore del terrore di un uomo. O degli uomini.

Per dirla con le parole di un pittore che non ha bisogno di presentazioni,

Se il sogno è una trasposizione della vita da svegli, anche la vita da svegli è una trasposizione del sogno.

René Magritte.

Il rapporto tra sogno e vita è, d’altronde, qualcosa di noto al moderno, il quale ha accettato il collegamento tra due spazi diversi, spesso comunicanti in maniera atrocemente fragile. Il riferimento accademico è sicuramente Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni, Sigmund Freud, 1899), base di larga parte della psicanalisi; e di sogno si parlava anche nel precedente lavoro di Playdead, Limbo (2010). Un sogno in bianco e nero, quello di un bambino. 

Il bianco e nero di Limbo fa tornare all’altro bianco e nero; quello di Twin Peaks, con cui abbiamo aperto questa riflessione e che si lega, tematicamente, al lavoro di Playdead. Come un uroboro.
D’altronde, la domanda ossessiva è la stessa: 

In INSIDE,“Chi è il sognatore?”.

Mutismo, in INSIDE, significa consapevolezza.

[NDA: SPOILERARE INSIDE È PRESSOCHÈ IMPOSSIBILE, DATO CHE È UN TITOLO APERTO A UN NUMERO VASTISSIMO DI INTERPRETAZIONI. QUESTA DELL’ARTICOLO RAPPRESENTA SOLO UNA DELLE TANTE. PERÒ, SE NON L’AVETE GIOCATO E SIETE SUSCETTIBILI, FERMATEVI QUI.]

Il bambino ruzzola dalla montagna sulla sinistra, e il videogiocatore si ritrova improvvisamente nell’incubo. Immediatamente, dall’altra parte dello schermo, viene percepita la sensazione di minaccia, la necessità di correre verso destra.
A guidare le azioni dell’avatar è solo l’istinto: non c’è nulla di detto, in INSIDE. Non esiste un’indicazione a schermo che accompagni il videogiocatore nel tragitto, non una parola per aiutarlo a superare gli enigmi, un tutorial. Non viene mai esplicitato cosa vogliano gli altri. 

La scelta delle caratteristiche del personaggio giocabile non è casuale. La vulnerabilità di un ragazzino contribuisce a spingere l’acceleratore dell’autoconservazione, creando un legame psicologico tra il guidatore e guidato. Bisogna preservarsi, preservarlo. Bisogna sfuggire. Bisogna andare dentro, quasi in preda a una nevrosi da scoperta.

Interminati spazi e sovrumani silenzi.

Insomma, INSIDE è un’esplosione di “show, don’t tell”. Eppure il videogiocatore, passato l’iniziale senso di smarrimento, riesce a sentirsi pienamente a proprio agio all’interno della struttura ideata da Playdead, imperniata attorno al concetto di design sottrattivo. Ogni meccanica è ridotta all’essenziale e strettamente funzionale alla curvatura del racconto, nel senso più ampio del termine: si salta, ci si sposta in grafica bidimensionale, si muovono piccoli oggetti o interruttori, si nuota, si aprono botole, si rimuovono assi di legno. Si gioca con le dimensioni: lo spazio da percorrere, il tempo per evitare i fasci di luce, la velocità da imprimere a certi oggetti per risolvere i rompicapi.
È davvero tutto qui.

Il design sottrattivo non accompagna solo le meccaniche, ma si allarga anche al suono. INSIDE è minimalista in tutto e per tutto. All’interno della miniera, ascolteremo un cuore pulsante capace di smembrare con delle onde d’urto; in quel caso, non esiste segnalazione visiva che avverta del pericolo, ma solo un calcolo basato sul ritmo del luogo.
Ancora, muovendosi tra fluidi diversi, si avverte il passaggio dall’ovattato all’ampio, allo spazioso; anche il solo attraversamento dell’acqua diventa così un’esperienza significativa. 

La curva della difficoltà delle meccaniche di INSIDE è inversamente proporzionale al numero di esperienze in videogiochi simili. Un’obiezione, anticipabile, potrebbe essere che questa è una banalità. In effetti non è che sia proprio una novità; ogni titolo è tanto più semplice quanto più si è fruito di prodotti affini. Esisterebbe, insomma, un ciclo del gameplay strutturalmente condiviso tra parenti, la cui riconoscibilità – e innovatività – sarebbe connaturata al semplice bazzicare l’ambito. E, dopotutto, INSIDE non si discosterebbe da questo paradigma.

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Eppure, la scelta di Playdead appare di straordinaria consapevolezza. Il minimalismo e l’approccio sottrattivo sembrano basarsi sul conoscere le caratteristiche di chi avrebbe fruito del videogioco. L’assenza di una spiegazione delle meccaniche affonda le proprie radici nell’interiorizzazione delle stesse a fronte di interazioni passate. Lo sviluppatore danese sembra quasi urlare, a tratti, “se hai giocato Luigi’s Mansion (o simili) avrai idea di cosa sta accadendo, a maggior ragione nella sua versione stilizzata”. 

Playdead ha optato quindi per una via precisa, diretta, di game design: sottraggo, perché so che sai. Una via che sottende la visione di un tipo di videogiocatore. Forse, si può partire da qui e spingersi anche oltre, utilizzando quest’osservazione per arrivare più in profondità. Dentro. Magari utilizzando una chiave di lettura capace di invadere e svelare l’intera concezione che Playdead ha del proprio mezzo di espressione, e che inevitabilmente ricade anche sul modello di racconto e sul tipo di messaggio che desidera veicolare. 

C’è un filo rosso che unisce Limbo e INSIDE, e su quel filo rosso vale la pena di insistere; d’altronde, il punto è sempre svelare chi sia, questo maledetto sognatore.

Sogno lucido, sogno ludico.

È necessario tornare indietro per andare avanti. Per la precisione, all’inizio di INSIDE, e al momento in cui si assume il controllo del bambino. Esiste pertanto un attimo precedente che non è conosciuto, rappresentato dalla discesa dell’avatar sul fianco della roccia.
INSIDE parte “in medias res”, catapultando il videogiocatore in un’allucinazione.

L’impressione è, quindi, di una presa di coscienza all’interno di un flusso pre-esistente; il che chiama in causa il concetto di sogno lucido.1
Banalmente, un sogno lucido è un sogno in cui il sognatore sa di stare sognando. In questo senso, non teme di scomparire e resiste alle leggi della fisica, tra cui la morte. L’atto di resistere al game-over si avvicina terribilmente al mancato risveglio dal sogno come difesa, che quindi può continuare secondo la volontà e le esigenze del sognatore/videogiocatore.

La partita non si conclude, ma continua perché lo si desidera e si ha coscienza che quella morte non è la morte, ma anzi va vinta per capire il significato più intimo del sogno. E cioè, per vedere i titoli di coda del videogioco.

In questo senso, Playdead potrebbe considerare il videogiocatore come un onironauta, un viaggiatore del sogno lucido; o meglio, del sogno ludico, un sogno che si esprime attraverso le strutture tipiche del videogioco. Per collegarci al discorso del paragrafo precedente, la consapevolezza di Playdead è proprio nell’orchestrare tutto l’impianto di INSIDE sulla similitudine tra sognatore e videogiocatore, con quest’ultimo che avrebbe avuto già altre esperienze di sogno e quindi saprebbe come muoversi attraverso di esso. 

Surrealismi. Golconda di Magritte, in alto; INSIDE, in basso. Il tema è la depersonalizzazione.

Dal punto di vista formale, si spiegherebbe perciò perché lo sviluppatore danese non si senta in dovere di esternare le meccaniche o fornire suggerimenti: non sarebbe una scelta di stile, ma qualcosa di più profondo.

Anche uno dei momenti più belli di INSIDE, quello in cui la “sirena” rende il bambino/avatar capace di respirare sott’acqua, diviene un test: se si è capaci di non morire annegati si è in pieno controllo, vincendo le ultime resistenze della realtà e abbracciando la prospettiva del sogno.

In questo senso, la concezione del Laberge del sogno lucido come senso di liberazione e completamento non può che legarsi intimamente a quella del videogioco quale mezzo di arricchimento e di espansione culturale, in grado di migliorare chi ne fruisce e di indurlo alla riflessione. Più specificamente, si potrebbe anche vedere al termine di INSIDE, con il raggio di sole che finalmente “bagna” il corpo della massa quasi-tumorale.

Quindi, muoversi in INSIDE significa muoversi in un sogno. In effetti, analizzando l’opera di Playdead secondo la concezione freudiana del lavoro onirico, è possibile individuarne i (quattro) meccanismi onirici che la governano. Quelli di condensazione e spostamento, in cui l’iconografia dei lavoratori senz’anima richiama il concetto di sfruttamento e più specificamente il terrore di un mondo grigio e senza arte, composto unicamente da catene produttive; quelli di rappresentazione plastica ed elaborazione secondaria, realizzati da un’immagine che riporta a un concetto astratto, restituendo alla memoria il significato più gradevole possibile al termine del sogno. In effetti, INSIDE si conclude (e dunque si conclude il sogno) proprio con la sensazione del tepore e della libertà, dimenticandosi dell’angoscia precedente.

Respirare.

Stabilito dunque che il videogioco è un sogno e il videogiocatore vive dentro il sogno, è arrivato il momento di capire chi è il sognatore, interrogativo posto fin dal principio. La risposta a questo punto non può che essere scontata: è l’Autore del videogioco. Il videogiocatore si muove coscientemente nel sogno di un altro, accettandone le regole e i compromessi; perde il libero arbitrio, pur di raggiungere il significato positivo del sogno ludico. 

In INSIDE, scorrono davanti agli occhi del videogiocatore le paure più profonde di Playdead che potrebbero essere interpretate, estensivamente, come il terrore (metanarrativo) di uno scadimento dell’industria specificamente videoludica.

Il che solleva un ulteriore quesito: “come reagisce il sognatore/Autore all’onironauta/videogiocatore?”

Post-modernità, sottovoce.

In un breve e interessante articolo di Matteo Sarlo su Globus, viene fatto notare che INSIDE potrebbe essere (anche) un inganno di prospettiva. E se il bambino fosse colpevole, e per questo inseguito? Legando questo spunto alle dinamiche del sogno, è possibile rinvenire tracce del conflitto tipicamente post-moderno tra Autore e Uomo (maiuscolo, perché collettivo).

In effetti, il sogno riceve in maniera negativa la presenza dell’elemento estraneo. Lo invita a uscire, a desistere, mentre il fruitore vuole andare dentro (inside). Lo conduce a fondersi con altri corpi in una massa informe e rovinosa, mentre gli scienziati osservano da fuori. 

Raccontare, raccontarsi, esprimere le proprie paure più profonde, comporta dolore e introduce un meccanismo premiale (cfr. con Nier Automata, di Yoko Taro): solo chi soffre può arrivare al termine del percorso. Anche il finale alternativo di INSIDE si conclude, dopotutto, con l’espulsione dell’onironauta dal sogno, che quindi torna a essere altro e diverso da chi l’ha navigato.

In questo senso, l’immagine precedentemente proposta dell’Ammasso e degli Scienziati, richiama quella dell’Autore che guarda il soggetto (anzi: la moltitudine di soggetti) cui l’opera è destinata. Una moltitudine gommosa e distruttiva, che cerca (inutilmente?) di emanciparsi dal racconto che gli è destinato. 

Gradi di separazione in BioShock (al centro) e INSIDE.

Il grado di separazione costituito dal vetro e dal tema del videogiocatore come esperimento, ricorda in effetti tantissimo la costruzione adottata da BioShock (Levine, Irrational, 2007). In quest’ultimo, l’interazione con gli altri personaggi avveniva sempre in maniera mediata, mai vis a vis: una metafora del rapporto che esiste tra chi il videogioco lo fa e chi il videogioco lo subisce. In maniera non dissimile, Playdead guarda la propria creatura, conduce il proprio sogno, costringendo i Videogiocatori a fuggirne.

Alla fine di INSIDE al sognatore rimane una sensazione morbida, un ricordo etereo, un momento di pace. Dopo aver attraversato miniere pericolanti, fogne spettrali, fattorie malsane è finalmente pronto a tornare alla realtà, alla propria vita, immerso nel verde e nel calore del sole. Muore, sapendo di morire; e stavolta, è pronto a risvegliarsi.
Eppure, in quell’attimo finale si avverte, sorrentinianamente parlando,

L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo.

Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza, 2013.

Era dentro. 

È uscito fuori.

AAS


NOTE:

1Al sogno lucido molto spesso si contrappone il “sogno a occhi aperti”, in cui si è immersi nella realtà ma non si ha consapevolezza totale della stessa. Un esempio? Questo tizio che guida per Tokyo ascoltando Paradise Warfare, dei Carpenter Brut.


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