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Tag: Elden Ring

Edmund Burke avrebbe giocato a Elden Ring

Edmund Burke avrebbe giocato a Elden Ring

  • Alfredo Savy

  • 11 novembre 2022
  • noninteragire

“Salisbury Cathedral from the Meadows” è un quadro del 1831 di John Constable, meraviglioso paesaggista inglese. La scena che si presenta agli occhi del moderno visitatore del Tate Britain, uno dei più grandi musei di Londra, è di controversa ricezione: se da un lato non è replicabile nell’uggiosa modernità di cui tutti – chi più e chi meno – siamo quotidiani spettatori, dall’altro è capace di evocare nel piccolo uomo una sensazione di impotenza che forse ha già avvertito in passato e che, confrontandosi con altri piccoli uomini, capirà essere addirittura comune.
La centralità della scena non è dominata dalla Cattedrale di Salisbury, da cui l’opera prende nome; al contrario, è data dalla tensione tra due elementi, la natura imponente e l’abbraccio dell’edificio al cielo tempestoso. Esprime, insomma, il conflitto tra due realtà, l’umana e la divina, con la prima che si lacera cercando di raggiungere, affascinata, la seconda. John Constable aveva dipinto il Sublime e, senza poterlo prevedere, aveva immaginato Sepolcride, la prima regione di Elden Ring (FromSoftware, 2022), già nell’Ottocento.

C’è un aneddoto che vale la pena riportare. Al Tate, accanto all’appena citata tela di Constable, ve n’è un’altra di William Turner, “Caligula’s Palace and Bridge”, a essa contemporanea e che suscitò addirittura un alterco tra gli artisti per la disposizione delle due presso una mostra, durante il 1831. Il giocatore di Elden Ring non avrà grosse difficoltà a riconoscervi la gloriosa decadenza di Leyndell, Capitale Reale che, proprio come l’Impero Romano di Caligola, ha lasciato tracce di sé dopo la fine. 

A sinistra: “Caligula’s Palace and Bridge”, di William Turner. A destra, “Salisbury Cathedral from the Meadows”, di John Constable.

In alto: “Caligula’s Palace and Bridge”, di William Turner. In basso, “Salisbury Cathedral from the Meadows”, di John Constable.

I misteriosi resti del passato si fondono con le tinte opache dell’immaginato da Turner, il quale assume il sapore dell’indefinito. Glorioso, eterno, indefinito. In un gioco di specchi rispetto a Salisbury Cathedral, stavolta l’uomo non si spinge verso l’alto ma è ridimensionato a essere riassorbito dalla forza che aveva osato sfidare in grandeur, con la storia della viva pietra che ne restituisce le ambizioni fallite. A conti fatti, però, il risultato non cambia: l’osservatore si sente minuto e miserabile, in balia del piacere derivante da una forza che annienta, volendo parafrasare Schopenhauer. Di nuovo, ecco il Sublime.

È proprio il filosofo di Danzica, partendo dalle considerazioni di Kant, a definirlo così nel suo grado più profondo:

Ma l’impressione è ancora più potente quando l’infuriare delle forze della natura ce l’abbiamo davanti agli occhi in grandi proporzioni (…). Di fronte a uno spettacolo di questo genere lo spettatore imperturbato acquisisce nel modo più chiaro la consapevolezza della duplicità della propria coscienza: sente se stesso contemporaneamente come individuo, come fragile manifestazione fenomenica della volontà, che può essere mandata in frantumi dal più piccolo colpo di quelle forze, inerme di contro alla potenza della natura, dipendente, in balia del caso, un nulla evanescente di fronte a potenze inaudite; e d’altra parte egli, allo stesso tempo, sente se stesso come esterno e sereno soggetto del conoscere (…). È questa l’impressione piena del sublime, prodotta qui dalla vista di una potenza che minaccia di annientare l’individuo e che è senza confronto superiore a lui.

Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giorgio Brianese, Piccola Biblioteca Einaudi 604, Libro Terzo, Paragrafo 39, pag. 271, ed. 2013 (ed. princ. 1819).

Di esempi e paragoni se ne potrebbero fare tanti. Si potrebbe citare “The Dreamer”, di Caspar David Friedrich: se solo non fosse stato realizzato nel 1840, sembrerebbe una fanart di un Senzaluce che si riposa presso la Chiesa di Elleh, nel tardo pomeriggio. Ancora, “Guisborough Priory, Yorkshire”, di Thomas Girtin, anno domini 1801, pare una riproduzione plastica di uno splendido rudere qualunque a nord di Liurnia dei Laghi, prima dello Altus Plateau; per capirci, la zona dove avviene il secondo incontro con Ranni. Eppure quest’operazione di ricongiungimenti platonici, seppure all’apparenza interessante, risulterebbe a un certo punto istrionica. 

Questo aspetto va necessariamente chiarito. Che Elden Ring rappresenti visivamente il punto apicale del videogioco romantico, volendo con questo termine riferirsi proprio al Romanticismo inteso come movimento storicamente originatosi a fine Settecento, è fattuale. Ne mutua, d’altronde, molti capisaldi artistici, espressi puntualmente dall’immagine di un Cavaliere che galoppa sui rimasugli del mondo che fu, costantemente orientato alla scoperta delle forze che lo regolano e attraversato dal timore di non poterle comprendere. Da quest’angolo, la danza degli accostamenti non solo è automatica, ma pure francamente banale. 

A sinistra la “Chiesa di Elleh”, in Elden Ring. A destra, “The Dreamer”, di Caspar David Friedrich.

Vale la pena di evidenziare con forza che Elden Ring non solo saccheggia il paesaggio romantico ispirandosi alle produzioni del periodo, ma arriva a realizzare la potenza del Romanticismo nel suo medium, e cioè il videogioco. In altre parole, il lavoro di FromSoftware non impatta solo sulla dimensione artistica, ispirata al Romanticismo, ma restituisce tutte le sensazioni, e i correlati temi, tipici di quella corrente. Per farlo, Miyazaki, Martin e gli sviluppatori del team giapponese hanno utilizzato come perno il Sublime, quale concetto centrale dell’intera impalcatura romantica. Ed è per questo che Edmund Burke, autore de “Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello“ (1757), non avrebbe certo disdegnato il poterci giocare.

Ciò comporta, di conseguenza, non solo un passaggio verso una critica che si muova attraverso questa particolare categoria dell’Estetica, e che conduca a rimodulare da quel punto di vista l’intero impianto analitico, ma rappresenta, contemporaneamente, un’incredibile opportunità.
Come si vedrà in seguito, proprio in questi anni c’è stata un’interessante operazione di recupero del Sublime, declinato in termini videoludici: questo apre a nuove chiavi interpretative che vanno anche oltre il Romanticismo, superando di gran lunga persino lo stesso Elden Ring. Ma ci arriveremo con calma, partendo da quello che quest’ultimo dice quando mostra.

Dal Gotico a Goethe…

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER su Elden Ring]

Se è vero che “l’architettura è un riflesso della spiritualità dell’essere umano nel suo tempo” ed “è una pericolosa commistione di onnipotenza e impotenza”,1 questa disciplina non può che assurgere a un ruolo centrale nel passaggio discorsivo dal Sublime al Sublime Videoludico. Elden Ring, infatti, comunica costantemente attraverso i suoi castelli, forti, chiese, complessi monumentali: hanno il compito di schiacciare il videogiocatore, costringendolo a una dimensione infima e, in ultima istanza, lo terrorizzano (è importante tenere a mente questo concetto, sarà utile in seguito).

Non solo. Gli edifici si pongono in una relazione di sequitur con la Natura, un ciclo continuo di costruzione e distruzione dove l’artificiale non si presenta in opposizione a campi, colline, laghi, cieli infernali, distese innevate e autunni perenni ma, casomai, stabilisce se stesso come prolungamento di ciò che già è. Tutto diventa, allo stesso tempo, sia un prodotto dell’Uomo che un precipitato di una forza esterna, la cui sintesi non può che trovarsi nell’azione divina. Deus sive Natura,2 l’Albero che genera la Vita, le Rune che determinano il piano dell’esistenza e l’Anello come indice dell’armonia: queste sono le coordinate di Elden Ring, la cui grandezza e potenza si manifesta nei confronti del minuscolo fruitore. L’Ordine (Aureo) si realizza, perciò, con una manipolazione della Natura, un’operazione che appartiene solo a colui che è in grado di correggerne le disfunzionalità. E cioè, di nuovo, a Dio.

Due esempi di Gotico. Vittoriano a Raya Lucaria (a sinistra), Temperato a Villa Vulcano (a destra).

Due esempi di Gotico. Vittoriano a Raya Lucaria (in alto), Temperato a Villa Vulcano (in basso).

Lo stile scelto per simboleggiare questo ponte non poteva che essere il Gotico. FromSoftware ha disseminato la sua opera soprattutto di quello Fiammeggiante, presente a Sud, ma si ritrova agilmente il Germanico – nelle guglie impazzite e dorate di Leyndell – insieme a tracce vittoriane nell’Accademia di Raya Lucaria; ovvero il Gotico italiano, dalle forme meno esasperate e più solide, nella rossa Volcano Manor. Si sfruttano continuamente i cambi di stato, con ampi spazi artificiali rivelati da strettoie naturali e spettacolari orizzonti anticipati da corridoi. Senza contare i continui sussulti ricevuti dalla palette cromatica.

I due esempi di scuola sono certamente l’arrivo alla Capitale, che emerge nella sua grandiosità dopo un viaggio cunicolare dovuto alle caratteristiche fisiche del luogo, e l’apertura di Liurnia dei Laghi, posteriore all’attraversamento del cuore pulsante di Grantempesta.

A tal proposito, è fondamentale sottolineare il cambiamento che si presenta nel momento in cui il videogiocatore scende nelle profondità dell’Interregno, tra l’Acquedotto Siofra, Nokron e Nokstella, fino al Palazzo di Mohgwyn. Il Gotico cede il passo a uno stile Classico, il cielo diventa stellato e la composizione complessiva tende a rassomigliare più al mondo ellenistico – dov’è nato proprio il concetto di Sublime – che al medioevo europeo e romantico. Il fruitore si trova, dunque, a subire lo scarto che separa il “Sublime dinamico” dal “Sublime matematico”, di matrice kantiana.

È Gilles Deleuze a rimarcare, in una sua lezione del 1978, la differenza tra i due:

La risposta di Kant [è che] vi sono due categorie di sublime: il sublime “matematico” (definito matematico perché è estensivo), e quello che è chiamato sublime dinamico (un sublime intenso). Ad esempio, (…) la volta celeste ricca di stelle quando il cielo è limpido è il sublime matematico (…). Il sublime dinamico è il mare agitato, è la valanga. In questo caso, subentra il terrore.

Kant: Synthesis and Time, seminario del 28 marzo 1978. Citazione tradotta dal redattore.

Perciò il piccolo, pavido, minuscolo avatar è intrappolato tra la potenza della superficie, fatta di costruzioni che tendono a una Natura capace di affascinare nel suo orroredelightful horror, direbbe appunto Burke3e l’estensione illimitata del sottosuolo, con le sue, ossimoriche, costellazioni sotterranee. Inizia i suoi dungeon legacy – le città nella città – quasi sempre schiacciato dalla monumentalità dei luoghi e accecato dalla tensione verso l’alto degli archi, con una riverenza sacrale che deriva dalla percezione senza comprensione. I luoghi dei boss, dei semidei, diventano immagine degli stessi, della loro maestria combattiva e, più in generale, dello status che possiedono all’interno dell’universo, capacità di bloccare gli astri compresa. “L’infinito non è comprensibile come un tutto ma è pensabile come un tutto”, sostiene Lyotard;4 e in quell’ambivalenza si sviluppa il Sublime, tra paura ed esaltazione.

Leyndell, Capitale Reale. Particolare dei “cambi di stato”.

Non finisce qui. In un videogioco dove la spazialità, in generale, e l’architettura, in particolare, hanno il compito di generare costantemente il sentimento del Sublime, non sorprende che gli sviluppatori di Elden Ring abbiano affidato, in maniera primigenia, proprio al secondo aspetto la rivelazione cruciale del titolo, il suo punto di svolta narrativo. La riduzione effettuata sulla statua di Marika rivela l’intimo segreto di quest’ultima: e cioè che è, in realtà, Radagon. Pur rinviando ad altri luoghi l’analisi strettamente narratologica della cd. lore del lavoro di FromSoftware, è innegabile che il dualismo Marika-Radagon generi una certa risposta nel videogiocatore, e lo induca a provare terrore verso un fenomeno che non è in grado di capire. 

Il rapporto di unità tra il genere maschile e femminile della divinità – insieme alla capacità di generare figli con se stessa – viene dunque accettato come un dogma e, contemporaneamente, funge da catalizzatore per spingere il fruitore alla soglia più alta. A ciò si aggiungono, ovviamente, i rilievi successivi che individuano la distruzione dell’Anello Ancestrale da parte di Marika come vero e proprio atto di consapevole ribellione verso un’altra entità – la Greater Will – in un gioco di scatole cinesi e motori immobili che si è solamente in grado di sfiorare, rimanendo ammaliati e atterriti dalle poche briciole di cui è possibile godere. Si impatta in un limite della ragione, di cui si riesce a sentire istintivamente il margine superiore ma non a farlo realmente proprio. Senza che, dopotutto, l’insieme perda di fascino.

Classicità e vastità dei cieli stellati.

Proprio la circolarità del passaggio dalla donna Marika all’uomo Radagon, e viceversa, simbolicamente rappresentata dal famoso ed equivoco disegno della dea crocifissa, dove effettivamente si presenta una certa illogicità delle forme capace di generare una paura primordiale, ricorda la lettura di Margaret Fuller dell’eterno femminino di Goethe. 

Il maschile e il femminile rappresentano le due facce del dualismo più radicato. Ma, nella realtà delle cose, si muovono costantemente l’uno nell’altro. Ciò che è fluido si indurisce e diviene solido, il solido precipita nel fluido. Non esiste uomo mascolino per davvero e non vi è donna esclusivamente femminina.

Margaret Fuller, citata in The Woman Question: Society and Literature in Britain and America, 1837-1883, Volume 1: Defining Voices, Di Elizabeth K. Helsinger, Robin Lauterbach Sheets, William R. Veeder, 1989. Citazione tradotta dal redattore.

Il concetto espresso dal trascendentalismo femminista ha due grandi meriti oltre, s’intende, a realizzare il fondamento filosofico del twist proposto da FromSoftware. Il primo è nella riflessione, conseguente e necessaria, sul punto di equilibrio tra le spinte verso l’alto provenienti dalla donna e la funzione conservativa dell’uomo (Marika distrugge l’anello, mentre Radagon prova a ricomporlo), il che si associa all’idea dell’essere umano dilaniato da desideri contrapposti, riflessi da forme fisiche mutevoli. Il secondo, maggiormente consono al perimetro di questo contributo, è da ricercarsi nel più generale argomento del Sublime Videoludico. 

…e dal Sublime al Sublime Videoludico

Dopo aver analizzato la dimensione – si potrebbe dire, quasi ironicamente – statica del Sublime in Elden Ring, cioè le modalità con cui lo studio giapponese ha realizzato la componente visiva del Sublime, attraverso una notevole direzione artistica basata sul dualismo tra Uomo e Natura, per il tramite dell’architettura e rinforzando poi il tutto attraverso un modello narrativo criptico e per dogmi, è tempo di allargare l’obiettivo. Come suggerito in apertura, si tratta di utilizzare Elden Ring in vece di esemplare perfetto della teoria generale del Sublime Videoludico, aiutando a confermarne la validità ad ampio spettro, proprio in rapporto al mezzo attraverso cui si esprime.

Illogicità e paure ancestrali.

In realtà, va sottolineato che negli ultimi anni si sono intensificati gli sforzi per un’impostazione dottrinale di questo tipo, che va ovviamente utilizzata quale base della nostra indagine. L’ultimo intervento in materia è da ricercarsi nell’eccezionale libro di Matthew Spokes, “Gaming and the Virtual Sublime: Rhetoric, Awe, Fear, and Death in Contemporary Video Games”, pubblicato nel 2020 da Emerald Publishing e, purtroppo, totalmente inedito in Italia. Dopo una veloce panoramica sulla storia filosofica del Sublime, passando dal “Trattato del Sublime” attribuito a Longino al techno-sublime di Fedorova, l’autore scopre finalmente le sue carte.

Essenzialmente, il mio obiettivo è quello di portare alla luce la complessità insita nei videogiochi tanto quanto nell’utenza e di riflettere su come il coinvolgimento che si pone in essere tra noi e queste esperienze emotive possa essere compreso attraverso il concetto del Sublime.

M. Spokes, Gaming and the Virtual Sublime, p. 61, citazione tradotta da Luca Rungi.

In altre parole, l’approccio metodologico di Spokes tradisce la volontà di superare il conflitto tra ludologi e narratologi, ormai arrivato a un punto morto e diventato addirittura parossistico. È solo la Critica sviluppatasi attorno al Sublime a esaltare le qualità uniche del videogioco. Grazie a una riedizione delle dinamiche soggetto-oggetto, sarebbe infatti in grado di amplificare l’ergodicità5 di questo medium, afferrandone la complessità ed evitando certi pericolosi strutturalismi, insieme ai morbosi tentativi di stabilire un confine arbitrario tra gli stessi. Pertanto, attraverso il Sublime si coglierebbe la totalità del videogioco.

Meraviglie e parallelismi. “Apertura di Liurnia”, a sinistra; “Viandante sul mare di nebbia” (Friedrich, 1818), a destra.

Meraviglie e parallelismi. “Apertura di Liurnia”, in alto; “Viandante sul mare di nebbia” (Friedrich, 1818), in basso.

Per portare avanti la sua trattazione, lo studioso anglosassone utilizza quattro parametri che identificano il Sublime Videoludico: Rhetoric (retorica), Awe (meraviglia), Fear (paura) e Death (morte), conditi da vari esempi pratici, come God of War (Santa Monica Studio, 2018), Sekiro: Shadows Die Twice (FromSoftware, 2019), Red Dead Redemption II (Rockstar Games, 2018) e Silent Hill 2 (Konami, 2001). Quello che Spokes non poteva sapere è che, solo due anni dopo l’uscita del libro, sarebbe arrivato sul mercato Elden Ring, capace di rispondere in maniera perfetta a ognuno di questi criteri, diventando a sua volta il metro di paragone futuro. 

In effetti, di Elden Ring si sono lette lodi sperticate in ogni dove. C’è chi ha speso litri di inchiostro virtuale magnificandone l’open world rivoluzionario, mentre altri si sono lasciati ingolosire dall’art direction o ne hanno celebrato alcuni aspetti relativi alle meccaniche-dinamiche di gioco. Eppure, l’unico frangente in cui emerge davvero come titolo di rottura, dato dal modo in cui tutte queste grandezze si mescolano tra loro per generare, nel fruitore, il sentimento del Sublime, è stato paradossalmente ignorato.6 

Andiamo con ordine. Per “meraviglia” Spokes si riferisce a quella derivante dalla spazialità del videogioco: in un certo senso, agli “interminati spazi al di là di quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete”7 così perfettamente espressi dalla poesia Leopardiana. Eppure, ciò a cui Spokes fa riferimento quando parla di “realistic environments” non è la mera grandezza e vastità degli ambienti, perfettamente espressa dalla prima menzionata apertura di Liurnia e dalle tecniche usate da FromSoftware per suscitare stupore descritte nel paragrafo precedente (lo stretto che sfocia nel largo e viceversa).

Schiacciati dal Sublime, in Farum Azula.

No: non è solo il semplice saccheggio delle tecniche costruttive del Colonnato del Bernini, che emergeva dalla Spina di Borgo, generando un contrasto tra ambienti. È qualcosa in più, che si lega alle peculiarità del quest design, all’assenza di quest marker, alla feralità degli NPC, alla difficoltà tipica di un Souls, al sovraccarico emotivo che va oltre ciò che si vede. È la molteplicità degli elementi di cui si compone il game design – e in maniera più impropria, il gioco – a investire il singolo individuo, generando il distacco tra soggetto e oggetto e quella sensazione di meravigliosa sopraffazione tipica del Sublime, appunto. Il quale spinge ad apprezzare e studiare il tutto, non la parte.

Retorica” e “paura”, invece, sono strettamente collegate.
Rifacendosi proprio al Sublime classico di Longino, Spokes scrive:

Longino descrive questa grandiosità cangiante come una portatrice di sentimenti singolari. La retorica del sublime produce estasi [ekstasis] piuttosto che persuasione nell’ascoltatore grazie a una combinazione di stupore [ekplêxis] e meraviglia [thaumasion], qualcosa di diverso da ciò che egli descrive come “semplice piacere”. (…)
La retorica procedurale può spingere i videogiocatori verso un’esperienza quasi trascendentale così come descritta da Longino stesso: la combinazione di una narrazione attraverso elementi architettonici e di tutto ciò che spinge il videogiocatore a procedere offre la possibilità di instillare meraviglia e sbigottimento nel caso gli sviluppatori intendano creare un videogioco proprio a questo scopo.

Ibidem, cap. 5. Citazione tradotta da Luca Rungi.

Se la retorica longiniana è perfettamente rappresentata dalla capacità dei pochi dialoghi di perturbare, a causa dell’utilizzo di un Old English decisamente evocativo – le “Marika’s own words”8 su tutti – il discorso si fa lievemente più complesso per quanto riguarda la cd. retorica procedurale, considerata in forza di retorica propria del videogioco. Nel caso della procedura che persuade, Spokes ne determina un complesso perimetro di elementi narrativi e ludici; incidentalmente, è perorata nuovamente la causa della “Critica del Sublime” come sintesi tra le due prima segnalate scuole di pensiero sul videogioco.

La Elden Beast contiene in sé stelle e galassie, unendo il Sublime matematico a quello dinamico.

Più precisamente, è la sensazione di terrore a ridurre la distanza tra controllante e controllato, avvicinando il primo, emotivamente, all’oggetto videogioco; si fonde, perciò, con la retorica “monodimensionale” di Longino, rendendola effettiva. Supera gli spazi meramente narrativi che sono incapaci ex se di colmare il naturale grado di separazione tra avatar e giocatore, riuscendo quindi a combinare la persuasione con la suggestione. In sostanza, Spokes rivede l’idea di Bogost-Frasca,9 arrivando a una concezione diversa e più ampia proprio attraverso il Sublime. La paura che deriva dalla precedentemente discussa transizione continua di genere tra Radagon e Marika, in quanto incomprensibile alla ragione, viene amplificata dal fatto che l’unico personaggio a poter fare altrettanto è proprio quello gestito dal videogiocatore. 

All’anonimo Senzaluce è concesso di potersi muovere a piacimento da un corpo femminile a uno maschile (e ritorno) durante la partita, sia all’hub di gioco che presso Rennala. Ecco che una semplice opzione di “modifica aspetto” acquisisce un nuovo significato, perché praticata da un’attrice la cui vita è stata devastata proprio dal dualismo Marika-Radagon. Chi è dall’altra parte dello schermo intuisce istintivamente il collegamento e, anche se non gli si presenta chiaramente agli occhi, lo conduce a sentirsi coinvolto dall’oggetto del suo terrore: è l’unico possibile destinatario di quella realtà, dopotutto. Colui che la svela e le si avvicina.

Ovviamente, a tutto questo vanno ad aggiungersi le immagini cristologiche di Radagon e l’apparente, successiva, anticlimaticità della battaglia con l’Elden Beast, l’araldo del vero Dio che sale in alto prima di attaccare in maniera incredibilmente aggraziata. Ogni componente di Elden Ring è (dis-)armonicamente collocata in modo da fondersi all’interno di un flusso ludonarrativo preciso, che arriva al giocatore e, parafrasando Longino, lo conduce all’estasi.

Eucaristie e crocifissioni.

L’ultimo parametro è “morte”. Spokes, a tal proposito, lo utilizza quasi come un equivalente di “Failure” (fallimento) e “Repetition” (Ripetizione), con delle lievi gradazioni.

A questo proposito, è possibile comprendere i concetti di fallimento e agency tenendo in considerazione il concetto virtuale del sublime, in quanto esperienza emotiva in grado di destabilizzare il soggetto (ovvero il videogiocatore) andando a minare la sua relazione con l’oggetto (il videogioco). In un’ottica Kantiana, la possibilità di avere una forma di controllo sulle conseguenze di ciò che si fa, di dirigere il cambiamento, viene sradicata.

Ibidem, cap.8, citazione tradotta da Luca Rungi.

Il rapporto tra il genere Souls e la morte è uno degli aspetti più investigati da parte della critica moderna. In questo frangente, però, non è inserita nella ricerca della perfezione del gesto tipicamente giapponese, l’arte quale techné, al cui culmine si arriva per approssimazioni successive e con il fallimento che ne delinea un passaggio fisiologico. È immaginata, per converso, quale perdita di controllo sul videogioco stesso, che dunque si rivela altro rispetto a chi, concretamente, lo sta giocando. Ma la morte non inferisce solo sul rapporto soggetto-oggetto: piuttosto,“symbolises or actualises the individual’s confrontation with their limit”; permette proprio al videogiocatore di spingersi oltre il limite. Questa struttura ludica indica “a subjective personal attempt at reconciling the absolute”,10 cioè un tentativo soggettivo di comunicare con quella potenza che potrebbe annientarlo, tornando a Schopenhauer.

Elden Ring fornisce, sul tema della morte, una risposta dotata di diversi layer, narrativi e ludici. Dal ruolo dell’Albero Madre nella rinascita alla quest di Fia, è a essa associata – con la morte di Dio e Fractured Marika come l’ultimo “Luogo di Grazia” visitabile durante il filone principale  – addirittura il finale del gioco. Ugualmente, è una componente fondamentale del core gameplay, al punto da essere estremamente caratterizzante, soprattutto nei confronti con i boss. Si potrebbe addirittura sostenere che Elden Ring sia il gioco della morte: ancora una volta rappresenta un limite verso cui tendere, seppur atterriti, prendendo in considerazione anche il livello di abilità personale.

La morte di Dio, in prima persona.

Metaforicamente, l’intera conclusione della storyline di Ranni esprime la potenza del Sublime attraverso le quattro grandezze di Spokes.
Profetizza così la strega, con il volto di Marika-Radagon appena riposto (simbolo della morte), lasciando pochi dubbi su quale fosse il vero e proprio cuore di Elden Ring e decretando proprio il passaggio tra le ere per il tramite del Sublime:

Oggi ha inizio la notte del gelo che tutto abbraccia, proteso verso il grande oltre. (Meraviglia)
Tra paura, dubbio e solitudine… (Paura)
Un sentiero che si inoltra nelle tenebre… (Retorica)
Ordunque, è tempo?

Elden Ring, monologo finale di Ranni. Aggiunte in parentesi del redattore.

Oltre Elden Ring c’è Disco Elysium

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER MINORI su Disco Elysium]

L’ultima parte del nostro lungo contributo è dedicata al superamento di Elden Ring. Stabiliti, dunque, gli aspetti più centrali del Sublime Videoludico, è tempo di portare questi affilati strumenti su campi di battaglia diversi. 

In tal senso, la scelta di Disco Elysium non è casuale: data la complessità del titolo di ZA/UM sia in termini narrativi-tematici che puramente ludici, anche in questo caso il filtro del Sublime risulterà appropriato per coglierne il discorso unitario. Quello che, insomma, viene recepito istintivamente dal videogiocatore, soggetto, in rapporto con il videogioco, oggetto.

Eppure, Disco Elysium non è un videogioco artisticamente ispirato al Romanticismo. Anzi, dalla sua si spende per una Revachol espressionista, fino a toccare perfino l’espressionismo astratto quando c’è da raffigurare distorsioni dello spazio-tempo dovute a differenze di reddito troppo pronunciate. Harrier Du Bois non si muove in uno spazio segnato dal Gotico che desidera toccare la Natura, ma attraverso i dolori della Rivoluzione fallita, in un mondo decadente e decaduto.

Eppure, allo stesso tempo, Disco Elysium è il videogioco del non misurabile e dell’indefinito, grandezze in cui si muove il sentimento del Sublime.
Scrive Deleuze a riguardo:

Non riesco più a riprodurre delle parti, non riesco più a riconoscere le cose […] è l’infinito che racchiude in sé tutto lo spazio, oppure lo ribalta; se la sintesi della mia percezione è inibita, lo è in quanto la mia stessa comprensione estetica è compromessa, ovvero: non mi trovo in un ritmo, ma nel caos.

Kant: Synthesis and Time, seminario del 28 marzo 1978, citazione tradotta da Luca Rungi.

Il ritmo, caratteristica più intima della musica, diventa il modo per ricondurre a coerenza ciò che ha inevitabilmente alterato la percezione, minando la comprensione. Per ridurre il caos. E se su quel filo sottile tra queste due grandezze – ritmo e caos – si muove il Sublime, diventa chiaro che la danza si esprime come anti-Sublime, un modo per riaffermare il soggetto e la sua centralità nel mondo. Disco Elysium è già dal nome un ossimoro, il quale trova la vetta espressiva nella sua versione “Hardcore to the Mega” della chiesa. 

La chiesa e la danza. Disco (più) Elysium.

Questa piccola costruzione umana è, dopotutto, edificata attorno al Sublime, e in particolar modo a The Pale, l’antimateria, il Nulla che assorbe il Tutto, la Natura selvaggia e cattiva, l’entropia, il mare bianco di Saramago11 e, di nuovo, forse il Dio spinoziano. Accanto a The Pale, al suo andare e tornare dal mondo così come si viene e si va dagli stati che comunemente chiamiamo vita e morte “after life, death; after death, life again” e“after the world, the pale; after the pale, the world again” – c’è il ballo di Harry. Un ballo che il fruitore può o meno sbloccare, così come può o meno inchinarsi davanti alla figura di Dolores Dei, di nuovo il femminino eterno di Goethe;12 e il videogioco diventa un unicum restituito solo dalla dimensione ambivalente del Sublime. 

Lo stesso giocatore si trova davanti l’Amore – a suo modo un Sublime anch’esso, per il desiderio di giungere a una dimensione troppo elevata da capire appieno, tra terrore ed estasi – raggiungendolo solo da lontano: un telefono, un sogno. Dora diventa Dolores, il sovrumano si perde in un sentimento e, di nuovo, si è molto piccoli. 

All’opposto, Disco Elysium potrebbe edificare un nuovo Sublime, il Sublime politico: quella sensazione che si prova rendendosi conto di aver mancato clamorosamente l’appuntamento con la Storia, che quando si faceva non c’eri e, anche se ci fossi stato, non sarebbe cambiato nulla. Eppure si rimane legati al cambiamento mai avvenuto, per l’attrazione terribile che porta con sé, così come un disertore su un’isola disabitata. La Natura non è più tale, perché l’immutabilità è ora creata dagli Uomini, un eterno ritorno dell’uguale a cui nessuno può sfuggire.

Un giorno.

Eppure eccolo lì, il Fasmide. La potenza che atterrisce, la vendetta delle forze oltre la comprensione – anche del videogiocatore. Il terrore, la meraviglia, la morte, la retorica (qui addirittura un elemento di gameplay) si fondono insieme, generando il Sublime. A Harry non rimane che una mano tesa in una foto, simbolicamente avente lo stesso significato del Gotico: tensione perenne, tensione per sempre.

L’arte rende l’infinito avvertibile”,13 sostiene Andreij Tarkovskij. La grande lezione di Elden Ring è di avercelo ricordato, così come a memorie lontane ci riporta una gomma da masticare. Magari al gusto albicocca.

AAS 


NOTE:

1 QUESTE LE DEFINIZIONI, RISPETTIVAMENTE, DI MATHIAS GOERITZ E REM KOOLHAAS. QUI PER LEGGERNE ALTRE.

2 SI TRATTA DI UN CONCETTO APPARTENENTE ALLA FILOSOFIA DI BARUCH SPINOZA, PRESENTE NELLA SUA ETHICA (1677).

3 NEL GIÀ CITATO “UN’INDAGINE FILOSOFICA SULL’ORIGINE DELLE NOSTRE IDEE DI SUBLIME E BELLO”.

4 PIÙ PRECISAMENTE, LO SOSTIENE NEL SUO SPLENDIDO “LEZIONI SULL’ANALITICA DEL SUBLIME” (1991), EDITO IN ITALIA DA MIMESIS (2015).

5 CFR. CON CYBERTEXT: PERSPECTIVES ON ERGODIC LITERATURE BY ESPEN J. AARSETH, JOHN HOPKINS UNIV. PRESS, 1997. 

6 TRANNE CHE DALL’UTENTE LOWERCASE DI YOUTUBE CHE, IN QUESTO VIDEO PURTROPPO CON POCHISSIME VISUALIZZAZIONI, HA COLTO PIENAMENTE LA FACCENDA.

7 IL RIFERIMENTO È, OVVIAMENTE, A “L’INFINITO” (1819).

8 UN ESEMPIO: “IN MARIKA’S OWN WORDS. O RADAGON, LEAL HOUND OF THE GOLDEN ORDER. THOU’RT YET TO BECOME ME. THOU’RT YET TO BECOME A GOD. LET US BE SHATTERED, BOTH. MINE OTHER SELF”.

9 PER APPROFONDIRE:
BOGOST, I. (2007). PERSUASIVE GAMES: THE EXPRESSIVE POWER OF VIDEOGAMES. BOSTON REVIEW.
SIMULATION VERSUS NARRATIVE: INTRODUCTION TO LUDOLOGY, GONZALO FRASCA, VIDEO/GAME/THEORY, EDITED BY MARK J.P. WOLF AND BERNARD PERRON, ROUTLEDGE, 2003.

10 QUESTO VIRGOLETTATO, COSÌ COME IL PRECEDENTE, È TRATTO DA “M. SPOKES, GAMING AND THE VIRTUAL SUBLIME”, PAG. 141.

11 COSÌ IN “ENSAIO SOBRE A CEGUEIRA”, TRADOTTO IN ITALIANO CON “CECITÀ” (1995).

12 STAVOLTA NELLA SUA VERSIONE PIÙ “PURA”, COME BEN ANALIZZATO IN QUESTO ARTICOLO.

13 IN “SCOLPIRE IL TEMPO. RIFLESSIONI SUL CINEMA”, ED. UBULIBRI, 1995, PAG.39.


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Birra e videogiochi, figli di un dio minore?

Quando, nel 1986, Teo Musso, a soli 22 anni, aprì nel suo paesino nel cuneese la birreria Le Baladin1, stava essenzialmente compiendo un gesto di estrema ribellione. Provenendo da una famiglia di viticoltori, come da tradizione delle Langhe, il suo darsi alla birra era l’ennesimo atto di un ragazzo inquieto e “difficile” che, prima di trovare questa strada così perfetta per abbinare sogno e rivolta, era addirittura fuggito con un circo francese itinerante.

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Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?

Elden Ring ha davvero rivoluzionato l’open world?

  • Vito Carluccio

  • 25 maggio 2022
  • noninteragire

Elden Ring è senza dubbio il fenomeno del momento, un titolo che è stato in grado di far avvicinare un gran numero di nuovi giocatori a questo genere considerato hardcore.
L’elevato numero di vendite raggiunte ha generato anche numerose discussioni riguardo alla sua struttura. Si sono susseguite analisi e lunghi wall of text relativi alla grossa novità introdotta da From Software rispetto ai vecchi capitoli: ovvero, l’open world.

Moltissimi si sono lanciati in lodi sperticate verso l’open world proposto in Elden Ring, arrivando anche a definirlo rivoluzionario e in grado di settare un nuovo standard. Ma è davvero così?

In questa sede analizzeremo le scelte di level e game design di From Software, per capire se effettivamente si può parlare di rivoluzione o meno.

Elden Ring ha senza dubbio convinto la critica, ma è davvero rivoluzionario?

Un Souls a mondo aperto

Possiamo essere d’accordo nel definire Elden Ring “un Dark Souls a mondo aperto”: ma questo non può certamente essere una frase sminuente. L’introduzione dell’open world in una formula consolidata come quella dei Soulslike, non è cosa da poco. Anzi, la scelta di inserire una struttura simile, in un genere così fortemente identitario, non poteva che comportare delle modifiche. Essere un Dark Souls a mondo aperto è un cosa seria e From Software ha accolto molto bene la sfida, introducendo diversi cambiamenti.

Sebbene la cara vecchia struttura del level design, tipica dei Souls, sia forte e pulsante nei cosiddetti “Legacy Dugeon”, il vero stravolgimento di Elden Ring risiede nella struttura del mondo aperto.
L’open world, infatti, si è tirato dietro una serie di modifiche al game design che rendono l’esperienza di gioco assai differente nel genere. Queste modifiche hanno il preciso compito di alleggerire la navigazione della mappa rendendo il gioco molto più accessibile e fluido rispetto al passato. Le numerose differenze sono capaci di fornire un vero e proprio parco giochi al giocatore più smaliziato che potrà sbizzarrirsi con l’incredibile varietà delle build, mai così ricche e personalizzabili.

Mai prima d’ora un Souls aveva avuto un così alta varietà di possibili build, è semplicemente impressionante.

Proprio questa è la chiave della filosofia di Elden Ring: la costruzione di un level design aperto, variegato, enorme e ricco di luoghi stracolmi di ricompense utili ad arricchire le nostre possibili build. Senza, ovviamente, dimenticare di enfatizzare l’anima archeologa dei più curiosi, i quali avranno una quantità smodata di elementi unici e narrativi che permettono di ricostruire la “storia” di quei luoghi affascinanti e antichi.

Le novità strutturali che rompono col passato

Elden Ring presenta una moltitudine di piccole aggiunte o modifiche alla vecchia formula di From Software, ma le basi di tutte queste micro-novità le possiamo riassumere in quattro macro-scelte di design che hanno, in qualche modo, creato una rottura più o meno forte con l’esperienza tipica dei Soulslike:

  • La presenza della mappa
    Per la prima volta in un Soulslike il giocatore potrà visualizzare una mappa del mondo di gioco. Nonostante non sia dettagliatissima, rimane comunque un elemento che permette al giocatore di non sentirsi quasi mai sperduto, isolato e senza una via di fuga. A questo si aggiunge anche la presenza di una bussola nella parte superiore dello schermo che fornisce sempre dei punti di riferimento personalizzabili ed extra diegetici, una grossa differenza nell’approccio all’esplorazione.
  • Il viaggio rapido attivo fin da subito
    Rispetto al capostipite della serie, in Elden Ring abbiamo accesso al viaggio rapido appena riusciamo a sbloccare uno dei numerosissimi checkpoint. Questa scelta precisa permette al giocatore di non dover ripercorrere più e più volte le stesse aree come invece accadeva in Dark Souls o Demon Souls. Il viaggio rapido cambia totalmente il nostro rapporto con il level design, ora non sarà più necessario imparare i vari anfratti ed i passaggi più veloci tra un falò e l’altro, basterà arrivarci solo una volta senza memorizzare i pattern dei nemici e le varie strade e shortcut.
  • Il cavallo
    In continuità con il viaggio rapido e con la presenza della mappa, il cavallo ci permette di vivere lo spazio del level design in maniera molto più rilassata: i nemici riusciranno molto raramente ad accerchiarci e il nostro destriero ci darà quasi sempre un via di fuga. Inoltre, la presenza di un mezzo di spostamento così veloce rende la morte molto meno punitiva: perdere le nostre preziose rune non è più un dramma, la bussola nella parte superiore dello schermo ci mostrerà addirittura il punto esatto in cui trovare le nostre rune cadute. Non sarà più necessario ricordare il level design per poter tornare nell’ultimo posto in cui siamo morti, basterà salire in groppa a Torrent, puntare le rune utilizzando la bussola e correre verso le nostre rune perdute.
  • Mancanza di massicce barriere architettoniche
    Nei vecchi capitoli era sempre molto difficile orientarsi e trovare i passaggi giusti per procedere nell’avventura (finestra rotta di Anor Londo parlo proprio di te), ora invece avremo molto spesso la strada spianata davanti a noi e sarà estremamente più semplice farsi un’idea della conformazione della mappa e della dislocazione dei punti di interesse. Inoltre, ci sarà segnalata anche la direzione vaga degli snodi principali dell’avventura grazie alla scia che fuori esce da alcuni luoghi di grazia.

Tutte queste nuove aggiunte collaborano tra loro per fornire un’esperienza di gioco più accessibile, fluida e non troppo punitiva.

La morte non fa più paura, Torrent ci porterà a recuperare le rune in batter d’occhio.

Il viaggio rapido non ci permetterà più di rimanere incastrati a Petit Londo, accerchiati da fantasmi invincibili per chi è appena arrivato al santuario del legame del fuoco, come poteva avvenire in Dark Souls. Il cavallo ci aiuterà a fare del platforming pericoloso in scioltezza e, in caso di morte, nessun problema: torno subito. La mappa, la bussola e la mancanza di barriere non ci faranno mai sentire sperduti e disorientati come in Old Yharnam. Ora siamo spinti ad esplorare, provare una strada nuova e, se incontriamo dei nemici troppo forti, potremo aggirarli o potremo aprire la mappa, selezionare un altro luogo di grazia e provare un’altra via o un’altra area dalla parte opposta del continente. Non ci sono vincoli stretti.

Niente di nuovo, tanto di tutto e grande maestria

Queste fondamentali modifiche strutturali sorreggono un fine ben preciso e ben pensato: dare al giocatore la libertà di sperimentare, sbagliare, riprovare ed esplorare l’immenso mondo di gioco.

Un game design costruito intorno a questo obiettivo diventa degno di nota grazie alla quantità e alla qualità degli elementi che lo compongono; proprio qui Elden Ring si fa capolavoro e diviene qualcosa in più che “un souls open world”.

Elden Ring ha centinaia di Boss Fight, a volte simili tra loro ma mai davvero identiche. La conformazione dell’arena può cambiare in modo sostanziale uno scontro e durante il corso dell’avventura non mancheranno sorprese in questo senso. La quantità del tutto è spaventosa e senza eguali: armamenti, armature, infusioni, ceneri di guerra, potenziamenti, bombe, oggetti per il crafting, talismani, oggetti unici con abilità attive e passive e chissà cos’altro stiamo dimenticando di citare.

Questa impressionante quantità ci spinge all’esplorazione del mondo di gioco, mai così veloce e accessibile, assumendo un connotato assuefacente proprio grazie alla varietà delle ricompense che possono cambiare totalmente la nostra build e quindi anche il nostro modo di giocare. Ma non solo: la quantità è anche nelle ambientazioni. Ci sono tantissimi luoghi, dungeon, rovine, villaggi, caverne e intere regioni variegate, dettagliate e visivamente impressionanti.

Il gioco presenta oltre 100 boss fight, alcune si ripetono ma ognuno di loro ha una particolarità che aiuta a non sentire il peso della ripetizione.

Questa quantità e questa qualità sono il carburante che rende le quattro macro-scelte di design descritte sopra una macchina perfetta. Un videogioco in grado di offrire un sense of wonder eccezionale che poi sfocia nella concretezza dei numeri delle statistiche della propria build, un lavoro pazzesco.

Arrivando al nocciolo della questione, possiamo dire che sono queste quattro macro-aggiunte, in relazione alla quantità e alla qualità dei vari elementi che rivoluzionano la struttura tipica dei souls like.
Ma davvero possiamo parlare, in Elden Ring, di rivoluzione dell’open world in toto o addirittura di un nuovo standard?

Rivoluzione si o no?

Senza nessun dubbio la struttura open world di Elden Ring ha portato delle sostanziali differenze dalla classica formula dei Soulslike. L’esperienza di gioco ricorda tanto il passato ma le novità nel game design sono talmente profonde da stravolgere l’approccio che il giocatore ha sempre avuto con questo genere. La morte fa meno paura, il level design è più aperto, gli spostamenti molto più veloci e la navigazione delle aree molto meno punitiva.  L’introduzione dell’open world è stata gestita in maniera egregia da From Software la quale è riuscita, anche grazie ad un massiccio riutilizzo di asset e di animazioni, a inserire una quantità impressionate di ogni singola componente che costituisce il core gameplay. Questa stupenda fusione degli elementi è in grado di creare un costante senso di scoperta e di progressione, sia dal punto di vista della lore che dal punto di vista dell’evoluzione del personaggio.

La mappa di gioco è enorme e densa di luoghi, boss, tesori e segreti di ogni sorta, non ci sarà certamente da annoiarsi.

È bene, però, precisare che tutti questi elementi non hanno un valore rivoluzionario nell’approccio all’open world. La quantità del tutto, la bellezza degli scenari, la cura riposta nella progressione e nel senso di scoperta non possono essere parametri capaci creare nuovi standard o di stravolgere la struttura dei mondi aperti. Sono elementi unici, pensati bene e legati ancora meglio in modo magistrale, ma di certo niente di “nuovo” o “mai visto prima”.

The Elder Scrolls: Oblivion introdusse il Radiant IA: un sistema innovativo di routine e intelligenza artificiale per tutti gli NPC che popolavano un RPG open world 3D, ormai sedici anni fa. Assassin’s Creed nel 2007 cambiò per sempre l’approccio spaziale che il giocatore aveva sempre avuto con il level design, grazie ad un sistema di movimento completamente libero e senza nessun ostacolo. L’anno prima Gears Of War rivoluzionava gli shooter in terza persona con un game design costruito intorno ad un sistema di coperture innovativo e sorretto da un enemy design ad hoc. Zelda Breath Of The Wild nel 2017 immise un approccio all’open world stravolgente, basato sui sistemi, con elementi di gameplay emergente, sistema chimico e di progressione totalmente aperto.

Una rissa scatenatasi in completa autonomia grazie al Radiant IA di Oblivion.

Ecco, sono i sistemi che rivoluzionano il videogioco e settano nuovi standard: non è la quantità, la varietà e il bilanciamento di quegli elementi che abbiamo già visto e rivisto.

Elden Ring fa proprio questo: prende alcuni elementi tipici di altri giochi con struttura open world, li utilizza in modo equilibrato, pensato e preciso, e riesce a costruire un vero e proprio capolavoro, che però non rivoluziona nulla.

C’è un valore in tutto questo, c’è maestria nel fondere così bene questi elementi, nel costruire un videogioco così grande e così dettagliato con un piglio autoriale e uno story telling atipico e riconoscibile. C’è tanto di in Elden Ring, ma non c’è la rivoluzione. E va bene così.

VC


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Elden Ring e l’universo difettoso di Hidetaka Miyazaki

Elden Ring e l’universo difettoso di Hidetaka Miyazaki

  • Vincenzo Vecchio

  • 4 marzo 2022
  • noninteragire

In questi ultimi giorni, in campo videoludico, non si fa che parlare di Elden Ring. Era di certo prevedibile, non fosse altro se non per alimentare la bolla mediatica, tipicamente internettiana, che contiene al suo interno le sorprendenti lodi delle recensioni delle riviste specializzate, l’hype smisurato delle community dei fan di vecchia data e addirittura la sete di esistenza dei nuovi adepti alla religione di punizione e redenzione che sacralizza l’esperienza soulsiana.

Era di certo prevedibile anche per il fenomeno fast food che ci spinge tutti a consumare la cultura pop un morso alla volta. Una stortura ormai comune che ha come naturale deriva quella di focalizzare a rango di capolavoro ogni opera nella finestra di uscita della stessa, leccata e subito espulsa senza per forza dover passare per un accettabile periodo di tempo che ne possa gestire la giusta digestione.

Elden Ring è, nel momento in cui scriviamo, nella lista dei migliori videogiochi mai recensiti sulla piattaforma metacritic. Un successo certamente meritato, per le tante qualità del nuovo titolo giapponese, ma che ci spinge paradossalmente a ragionare su un aspetto molto preciso del media videoludico e del processo di sviluppo in generale. Elden Ring è infatti problematico dal punto di vista tecnico.

Tralasciando i problemi di performance come il frame rate ballerino o il vistoso pop-in nell’open world – che possono essere certo parecchio fastidiosi in un videogioco in cui una schivata ti può evitare la morte – vogliamo concentrarci qui sui treni persi da FromSoftware sul piano tecnologico. Quegli aspetti che si considerano ormai scontati pensando alla maggior parte delle software house che gestiscono budget medio-alti, che sono diventati degli standard in parecchi studi di sviluppo. Stiamo parlando di IA, fisica, routine degli NPC (Personaggi Non Giocanti).

Insomma, parliamo degli aspetti che regolano i sistemi del videogioco piuttosto che elementi che rendono perfette le prestazioni. Non vogliamo discutere di grafica insomma, men che meno del sonoro, ma di tutti quegli elementi che contribuiscono normalmente alla buona riuscita della coerenza ambientale di un videogioco. A maggior ragione in un open-world, caratteristica e aggiunta maggiore del nuovo ARPG di FromSoftware.

Controcorrente e controintuitivo

Per addentrarci meglio del discorso prendiamo l’esempio degli NPC: i personaggi non giocanti, in Elden Ring come in tutti i precedenti souls, sono tecnologicamente arretrati rispetto ad altri videogiochi dello stesso genere di appartenenza. Non hanno una routine di vita credibile, non hanno interazioni particolari. Sono gestiti oggettivamente, in maniera rigida e assoluta. Non compiono un’attività diurna o notturna, non lavorano di giorno e riposano di notte come i fabbri di casa Bethesda. Sono in fin dei conti, i più semplici dei pulsanti attivabili che non fanno altro che esistere in attesa del videogiocatore.

Stabilito questo, la giusta prospettiva da cui interrogarsi, secondo noi, è chiedersi in quale contesto si può considerare un difetto. È lecito definirlo come tale anche in un videogioco dove questo tipo di sforzo tecnico non è necessario alla coerenza interna del titolo? Si potrebbe facilmente rispondere di no a mente fredda. Se, per l’appunto, non fagocitati immediatamente da quella bolla mediatica che tutto banalizza in favore di una massimizzazione estemporanea della fruizione del videogioco, a scapito dell’analisi dello stesso.

FromSoftware ha una visione precisa della narrazione, del modo di intendere il world building, delle ere cicliche che si susseguono, della concezione del tempo. Hanno sviluppato negli anni il loro modus pensandi et operandi riguardo l’ARPG, basato sulla visione generalmente austera di Hidetaka Miyazaki. Una concezione che, a scopi narrativi, rende tutto l’ambiente di gioco cristallizzato in una stasi ciclica ed eterna.

Mettiamo da subito una cosa in chiaro: probabilmente la maggior parte delle scelte nei videogiochi sono influenzate dai limiti tecnici. È naturale: creare una qualsiasi opera prevede, presto o tardi, di scendere a compromessi.
Che siano tecnici, di budget, di competenze, poco importa; ogni progetto subisce degli aggiustamenti più o meno importanti rispetto all’idea su carta. 

Miyazaki ha fatto di quel miscuglio di cose – limiti tecnici, limiti della propria software house, le paranoie riguardo la propria concezione del videogioco e le sue idee ovviamente – una sorta di linguaggio che si ripete costantemente in un universo che a sua volta si ripete costantemente.

È come se il mondo immaginato dall’autore giapponese, ogni volta si riciclasse rendendo tutto il processo incontestabilmente coerente con se stesso. Insomma, l’elemento condizionante imposto dal limite tecnico che SquareEnix in una serie come quella di Final Fantasy ha, ad ogni iterazione, superato spesso magnificamente con l’evoluzione tecnologica degli asset, FromSoftware l’ha fatto diventare qualcos’altro incorporandolo nella propria concezione di videogioco.

Teatrale o artificiale

L’incoerenza oggettiva degli NPC, immobili ed eternamente piantati con un chiodo sulla mappa fino a nuovo input, diventa coerente con uno qualsiasi dei mondi di Hidetaka Miyazaki, perché risultano simili, affini allo spirito narrativo dell’ambiente circostante. Tutti quei personaggi si qualificano come assurdi, ciclici – anche e soprattutto da un titolo all’altro, da un’iterazione all’altra – diventando spettri che ritornano ed esistono esclusivamente per il videogiocatore che sa di trovarli in quel preciso posto, di quella precisa mappa, di quel preciso mondo immobile e decadente.

È una differenza di approccio specularmente opposta a quella della maggioranza di software house che invece puntano generalmente alla ricostruzione di un ambiente simulativo il più vicino possibile ad una comune e più generica riproduzione della realtà.

La vita di un NPC può essere davvero molto triste, soprattutto se ha una parte da recitare in un mondo ciclico e infinito.

È come se lo studio di sviluppo giapponese imponesse (in primis al videogiocatore, poi al prescelto ciclico di ogni souls) un teatro con delle quinte (il mondo in rovina), degli attori esitanti e poco convinti (NPC), una via, o viaggio che dir si voglia, di sofferenza da seguire (la punitiva difficoltà e la poco velata depressione cronica che sovrasta ogni aspetto simulato nel mondo di gioco), fino a fare di tutto questo una commedia per lo più muta da riciclare all’infinito.

Miyazaki gioca allo stesso tempo con la disillusione narrativa e diegetica dei suoi personaggi, e infine anche con la sospensione dell’incredulità del videogiocatore stesso. Una sorta di archetipo dunque, uno stampo da riempire ogni volta con una mitologia diversa ma affine a quel mondo. È per questo che FromSoftware fa sempre lo stesso videogioco, con limitate evoluzioni tecnologiche nei suoi titoli.

Ed è, altresì, per questo che certe mancanze tecniche hanno contribuito a modellare parte del linguaggio di FromSoftware. Probabilmente oggi non sarebbe più considerabile un’evoluzione coerente inserire le routine credibili agli NPC in un videogioco come Elden Ring, ma vorrebbe dire quasi cambiare lingua. Il paragone – già suggerito in precedenza – con la serie Final Fantasy, che ha invece sempre puntato all’evoluzione tecnologica costante come sovrastruttura della serie, è più calzante che mai per descrivere il percorso inverso attuato da FromSoftware.

Non si capisce come in effetti, per considerare migliore o più coerente Elden Ring si debba cercare a tutti i costi la cosiddetta evoluzione, che significherebbe in effetti la normalizzazione del world building, la standardizzazione sui canoni occidentali dell’open world. Miyazaki ha imposto nel tempo un linguaggio con cui raccontare il videogioco, il suo. E questa imposizione è passata.

Tutto questo non toglie certamente il diritto di critica al lato tecnico dei titoli FromSoftware, una critica che rimane del tutto legittima e condivisibile. Si vuole solo mettere in luce il fatto che a causa del discorso sul linguaggio derivato di Miyazaki, se anche le flebile evoluzione tecnica dei souls si dovesse per sempre arrestare a quella di Elden Ring, queste stesse mancanze rimarrebbero elementi di linguaggio e non più solo arretratezza tecnica.

Cioè sarebbero da considerarsi alla stregua di mere caratteristiche, cosa che per qualsiasi altra serie diventerebbe una situazione molto più problematica se non un vero e proprio disastro. È davvero molto difficile capire quanto ci sia di voluto in questo processo, probabilmente poco, pochissimo, quantomeno all’inizio della produzione di FromSoftware. Ma tra la necessità di mascherare delle carenze nel campo delle competenze si può comunque notare l’intelligenza nello sfruttare i punti deboli di uno sviluppo.

A dire il vero delle evoluzioni ci sono state nello sviluppo di Elden Ring, o meglio delle involuzioni. Come scrivevamo nell’articolo sulla prova del network test, pubblicato qualche mese fa, FromSoftware aveva a suo tempo fatto opera di sottrazione dal concetto classico di ARPG, estraendo la narrazione, rimuovendo la mappa e così via. Farla tornare in Elden Ring, dove, trattandosi di un open-world, diventa indispensabile, ha significato un rinnegamento mica da poco del concept iniziale di souls.

Una scelta senza dubbio sofferta che ci conferma la volontà ormai chiara, da parte di FromSoftware, di andare da soli per la propria strada anche a costo di contraddirsi.

VV


N.B. La copertina dell’articolo è di u/TheRoverComics mentre le fanart sono di @nikiichi_tobita.


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Elden Ring, ovvero morte e rinascita dei Souls

Con Elden Ring, Hidetaka Miyazaki ha ucciso Dark Souls. E lo ha fatto anche con una certa dose di cattiveria. Nel nuovo mondo disegnato da From Software viene implementato un elemento, l’open-world, che poteva potenzialmente distruggere uno dei due pilastri fondamentali dell’economia di gioco assieme al gameplay: il curatissimo level design delle mappe.

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