Skip to main content

Tag: 2022

The White Lotus: miti riattualizzati

Vi sarà capitato, nelle ultime settimane, di vedere contenuti su The White Lotus più o meno ovunque sul web. La serie antologica HBO, sceneggiata e diretta da Mike White, vede il nostro Bel Paese (e, in particolare, la terra sicula) a farle da sfondo per la sua seconda stagione.

Continua a leggere

F1 Manager 2022, un gestionale dalle due facce

l circus della Formula 1 sta crescendo di anno in anno, grazie a politiche che ne mettono in risalto la spettacolarità, sottolineando all’inverosimile l’entertainment che ogni weekend di gara può offrire all’appassionato e agli sponsor, pronti ad investire cifre da capogiro pur di comparire a fianco di brand blasonati e storici come Ferrari, McLaren, Williams.

Continua a leggere

Stranger Things: chi ha paura del mostro?

Se c'è una serie del cuore che tiene con il fiato sospeso da anni, quella è proprio Stranger Things: gioiello di punta di Netflix, arriva alla quarta, e penultima, stagione a tre anni di distanza dalla terza (complice il Covid). La serie ha riportato in auge gli anni '80, la musica soft pop e rock, con le prime sperimentazioni elettroniche tipiche di quella decade, e i giubbotti bomber di colori improbabili.

Continua a leggere

Cosa ci rimane di Horizon Forbidden West

Cosa ci rimane di Horizon Forbidden West

  • Alfredo Savy

  • 29 giugno 2022
  • noninteragire

Il seguente articolo su Horizon Forbidden West è da considerarsi come continuazione di un dialogo iniziato nel lontano 2017. Pur essendo autonomo, non possiamo che consigliare la lettura di questo precedente pezzo a chi voglia approfondire ulteriormente il collegamento tra il secondo e il primo capitolo della saga di Aloy, soprattutto in termini tematici.


Cinque anni: questo è il tempo trascorso tra i due Horizon, Forbidden West e Zero Dawn. Di acqua ne è passata sotto i ponti – compreso il lancio di una nuova generazione di console – e soprattutto è cambiato chi concorreva, nella finestra di uscita, proprio con il lavoro di Guerrilla. Al tempo che fu, c’è stato il colossale The Legend of Zelda: Breath of The Wild; adesso, l’attenzione è focalizzata – per non dire fagocitata – da Elden Ring, l’opera di From Software che ha ridefinito, una volta e per sempre, il rapporto tra i Souls e l’Open World.

Parlare di Horizon Forbidden West paragonandolo con i titoli a esso contemporanei è un po’, sadicamente, il tratto distintivo della produzione. “Non” è forse la prima cosa che salta in mente quando si discute di Horizon: “non è Zelda”, “non è Elden Ring”. Esiste in primis come negazione: ne sono stabiliti i confini per opposizione, ridimensionandolo di fronte ai capolavori. Questo atteggiamento, forse, ha creato le basi di una subalternità non solo intellettuale, ma addirittura afferente lo spirito con cui il videogioco viene approcciato; e ciò vale sia per i fruitori che per la critica.

Questa volta si va in California.

Non che in questa sede si voglia tirare la volata a Horizon perché è meglio dei due sopra citati, sia chiaro; lasciamo volentieri ad altri questo ingrato compito, e pure di cavarsi fuori dal correlato ginepraio. Epperò, una cosa va chiarita subito: la tempistica di rilascio di Forbidden West – e di Zero Dawn – ha sicuramente inciso nella valutazione complessiva del lascito, e del significato più intimo, dei due videogiochi dello studio olandese. Essere usciti assieme a una coppia di colossi, soprattutto in quanto avvertiti immediatamente come tali da parte del grande pubblico e da chi dovrebbe occuparsi di analisi critica, ha inevitabilmente impattato anche sulla percezione di Zero Dawn e Forbidden West. Ma questo è solo il primo dei due tasselli che compongono quel “non” di cui si scriveva poc’anzi.

A questa trappola, in verità, non è sfuggito nemmeno lo stesso Pop-Eye, che pure fa del rifiuto della hype culture uno dei suoi fondamentali. Abbiamo scritto per Elden Ring ben tre articoli: un provato e una riflessione sul world building a cura di quella penna evocativa che è Vincenzo Vecchio, e il cerebrale apporto di Vito Carluccio, che ha ragionato dell’open world realizzato da Miyazaki e co. Per Horizon Forbidden West, invece? Uno solo, firmato da Giacomo Temperini, in cui doveva pure smezzarsi il palcoscenico con l’altro Horizon, quello targato Playground Games. Dunque non ci sentiamo particolarmente esenti dal fenomeno descritto nel paragrafo precedente, e alla questione “allocazione delle risorse critiche” che abbiamo peraltro sollevato.

In realtà, l’articolo di Giacomo toccava un punto fondamentale. Nella sua disamina, suggeriva che una determinata struttura ludica – e il corrispondente ciclo del gameplay – fossero elementi ricorrenti in molte produzioni moderne, originate più o meno consapevolmente dal concept Ubisoft: Horizon Forbidden West sarebbe una di quelle. Il pattern che si presenta in questi videogiochi è più o meno costante, generando uno stimolo svuota-mappa e differendo le esperienze in base a fattori perlopiù estetici che, quindi, diventano identitari. 

L’estetica techno-cafonal crea un limite percettivo?

Ora, per non scadere in una miserabile autoreferenzialità, bisogna tirare le somme. Il fatto è che, banalmente, i temi a cui si accompagna Horizon Forbidden West sono così esplosivi da non giustificare la narcosi successiva delle varie comunità, anche quelle più impegnate politicamente. Qualcosa fa massa, non torna: e non è possibile risolvere questa perplessità con il solo “erano tutti a giocare a Elden Ring”. O meglio, funziona solo in parte. Ci dev’essere altro: e se i due colpevoli fossero proprio gli elementi distintivi di Horizon, e cioè il deja-vu ludico adottato da Guerrilla e l’estetica techno-cafonal?

La risposta è probabilmente sì. Nel caso di Horizon, la forma ha assorbito il contenuto, decretando la stessa capacità del sequel di Aloy di essere avvertito come veicolo di messaggi importanti. D’altronde siamo spesso portati a prendere sul serio ciò che si prende a sua volta sul serio: un videogioco che si presenta con delle macchine robot all’interno di uno scenario tribale e coloratissimo, beh, da quel punto di vista non aiuta. Eppure, in Horizon Forbidden West viene ripresa e ampliata una prospettiva anticapitalista, già presente nel primo episodio, che qui raggiunge vette davvero importanti e su cui vale la pena di riflettere.

Insomma, ci siamo capiti: la contemporaneità con Elden Ring (e Zelda) ha spostato l’attenzione, mentre il presentarsi prima facie come un baraccone ha fatto il resto. Se il primo aspetto è ormai consegnato alla storia, il secondo può essere invece ancora indagato, allo scopo di prevenire che avvenga ugualmente in futuro. Perché, in Horizon Forbidden West, gli scrittori di Guerrilla hanno calcato così tanto la mano su certi topoi, palesando il proprio pensiero, da far derubricare la mancanza di attenzione collettiva più come a un misto di brutto tempismo e pregiudizio da parte di fruitori e critica che a una mancanza degli autori stessi. Horizon prova a farsi capire; siamo noi a non volerlo afferrare. Non è questione, va sottolineato con forza, di limiti culturali, bensì di atteggiamento.

Tutto questo sfarzo può ritorcersi contro.

L’intento di questo articolo è, quindi, quello di provare a ricostruire i punti di fascino di Horizon Forbidden West, emancipandolo dall’aura di mero giocattolone – che pure in parte è – evidenziando sia quello che dice che come lo dice, cioè l’espressione di quel messaggio attraverso l’impalcatura videoludica. 

Più che nell’Ovest proibito andremo nel Sud lecito. E sì, questo è un modo carino per chiedervi di continuare a leggere più in basso.

Un’oncia di azione vale quanto una tonnellata di teoria

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER su Horizon Forbidden West]

Verbena, un’ereditiera; Stanley Chen, imprenditore e visionario; Gerard, uno degli uomini più ricchi della Terra e alla guida di un conglomerato industriale; Erik, proprietario di un’agenzia militare privata. Questa lista di proscrizione non contiene altri nomi che quelli degli antagonisti di Horizon Forbidden West, i cosiddetti Zenith. Una banda di capitalisti senza controllo, a cui va ad aggiungersi Tilda van der Meer, mecenate e buco nero dell’egoismo mondiale, incarnatosi incredibilmente in una singola donna. Al videogiocatore, gli scrittori di Guerrilla propongono come nemici, avversari, pericolo per la vita biologica stessa, le persone più facoltose del pianeta. Che vengono dipinti, pur con qualche intermezzo democristiano – tra cui figura la quest di Alvaquali veri e propri mostri.

Dopo un primo capitolo che, nemmeno tanto timidamente, aveva già avanzato critiche profonde nei confronti delle figure messianiche à là Elon Musk – di cui Ted Faro costituisce una protesi videoludica, voluta o nata da una combinazione decisamente troppo fortunata per credere che non sia così- e diventate un po’ il simbolo di questa new wave del capitalismo mondiale contemporaneo, nel sequel Guerrilla ha alzato il tiro. E di parecchio. Horizon Forbidden West sembra quasi voler investigare nella dimensione antropologica del capitalista, disegnandolo come un soggetto lacerato all’interno e logorato dal suo immane istinto di appropriazione. Un’appropriazione che lo rende non solo tanto egoriferito da dubitare della sua salute mentale, ma anche profondamente disumano.

Gli Zenith, meglio morti che vivi.

Abbiamo di fronte, quindi, qualcosa di molto simile a quello che Helen Hindpere e compagni (nel senso più pieno del termine) avevano fatto dire a un certo personaggio, in un certo videogioco:

The mask of humanity fall from capital. It has to take it off to kill everyone — everything you love; all the hope and tenderness in the word. It has to take it off, just for one second. To do the deed.

da Disco Elysium, ZA/UM, 2019

La stessa violenza perpetrata da Aloy sembra quindi cambiare le coordinate di senso, e non esistere più solo in quanto potenza distruttiva legata alle esigenze del videogioco e del videogiocatore, ma come vero e proprio atto di autodifesa. Il che richiama altre parole, questa volta di un – purtroppo – non famosissimo pensatore italiano:

(…) perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a lavorare per lui ed a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati.

Errico Malatesta, Pensiero e Volontà, 1924

Il mondo di Horizon è profondamente tormentato dalle remote scelte sbagliate di un sistema fallato, che per inseguire il profitto aveva condannato il pianeta già in passato; e ora torna in tutta la sua ferocia, direttamente dalle stelle. Atterra su un nuovo-vecchio mondo per decidere, ancora una volta, le sorti di qualcosa che aveva già distrutto. E allora, davanti a un debito che non spetta pagare, di fronte alla subiezione intrinseca ai padroni, non rimane altro che reagire. In questo senso, Horizon appare come un videogioco marcatamente europeo.

Questo passaggio richiede un approfondimento ulteriore. Mentre Horizon Forbidden West da un lato si fa portatore di istanze progressiste, e cioè utilizza il mondo fittizio per veicolare messaggi riguardo l’identità di genere, sessuale e l’allargamento dovuto delle cosiddette libertà liberali, dall’altro opera una riflessione che impatta direttamente sul conflitto di classe; o, comunque, sulle difficoltà in cui incappa una comunità dove esiste una forbice molto larga tra chi possiede le risorse e chi, al contrario, le subisce

Aloy è in primo piano, ma esistono anche gli altri.

Lo sforzo di operare una sintesi tra le pulsioni individualistiche, tipiche della tradizione anglosassone, e la necessità di configurare l’attività umana anche in senso di collettività, proveniente dall’Est, ha rappresentato il tratto distintivo del Vecchio Continente durante tutto il secondo dopoguerra, se non proprio l’intero secolo breve. Le persone in Guerrilla pare ricordino che i diritti civili, senza diritti sociali, restano diritti individuali.1

Andando più nello specifico, si potrebbe rilevare come l’eccezionalità e la caparbietà di Aloy vengano costantemente riconosciute durante il corso dell’avventura, così com’è sottolineato che non sia tanto il corredo genetico di una persona ma l’insieme di valori e di esperienze, da cui gli stessi sono maturati, a renderla tale (e su questo torneremo poi). Contemporaneamente, Aloy è considerata una pedina necessaria ma non sufficiente, che solo attraverso l’aiuto degli altri, un’organizzazione formata da più persone, riesce a portare a termine il proprio incarico. 

L’essere umano esiste sia in quanto soggetto dotato di qualità uniche e non replicabili, da preservare e curare, sia in quanto corpo inserito all’interno delle formazioni sociali, le cui necessità devono essere tenute in conto e sono necessarie all’avanzamento della specie. Questo è il difficile equilibrio continentale, capace di rigettare un modello basato solo sull’esasperata soggettività, ma pure quello antiteticamente fondato sull’annullamento della stessa. Lezione, d’altronde, recepita dalle carte costituzionali europee che, accanto alle libertà individuali, accolgono la visione dell’uomo all’interno di organismi complessi (associazione, partiti politici, famiglia ecc.).

Aloy, Tilda e la funzione dell’arte.

Lo squilibrio – questa volta non delle macchine, ma tra queste due forze contrapposte – produce le Tilda van der Meer di questo mondo. E cioè delle persone davvero orribili, che si approcciano all’arte e all’alterità in maniera esecrabile: volendo, cioè, possedere tutto, senza differenze tra quadri e viventi. Eppure la sua bulimia culturale avrebbe dovuto mettere in guardia il videogiocatore; se già Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) aveva avvertito dei cambiamenti percettivi collegati alla modifica del luogo di esposizione dell’opera, trovare dei Vermeer e dei Rembrandt a casa di una ricca opulenta – per soddisfare un solitario godimento – li deforma definitivamente. Diventano, infatti, nient’altro che masturbazione intellettualoide, strumenti di auto-affermazione e non di condivisione; un gioco che si fa per costruire l’immagine di sé.

Non è un caso che, nella meravigliosa scena della galleria privata, ci siano solo dipinti del Secolo d’oro della pittura olandese: il Seicento è anche il periodo della nascita del capitalismo mercantile proprio nei Paesi Bassi, l’antesignano del sistema attuale. Un altro filo rosso, un’eredità che resiste a chi l’ha fisicamente creata; esattamente come Nemesis, lo spirito del capitalismo che si abbatte di nuovo sulla Terra e da cui gli stessi creatori volevano sfuggire. Utilizzando, ancora una volta, il pianeta come mezzo e non fine.

Che fare?

Stabilito quindi ciò di cui parla Horizon Forbidden West, è tempo di investigare come sono espressi questi temi: di sottoporre a critica la struttura ludica e il linguaggio adoperato per veicolare il messaggio.
Prima di farlo, però, è opportuna una digressione. I due piani analitici sono quello esistenziale, quantitativo, e il corrispettivo modale, qualitativo. 

Aloy e Beta; Vermeer e la sua copia.

Più chiaramente: bisogna capire se il lavoro di Guerrilla propone dei temi all’interno nel comparto narrativo tradizionale (cutscene delle quest principali, ad esempio) che sono assenti nel giocato, oppure se, semplicemente, quei temi sono sì presenti ma tendono ad affogare in un mare di contenuti, dispersivo e caciarone. Ci passa la differenza tra raccontare male o non farlo affatto: se un videogioco propone la centralità di alcuni argomenti e poi li ignora clamorosamente per la più gran parte del tempo, non sta curvando il game design in funzione degli obiettivi che si è autoimposto. E viene a mancare quella prospettiva teleologica di cui abbiamo parlato più volte.

Tornando alle considerazioni espresse in apertura di articolo, è fondamentale ribadire che l’accostamento di Horizon Forbidden West a un titolo spazialmente organizzato come Ubisoft insegna, è quantomai condivisibile. Guerrilla ha, però, inserito tracce del discorso che prova a portare avanti in quasi ogni attività, dai collezionabili alle secondarie: ha provato a stringere il cappio dell’offerta ludica attorno all’attività antropica capitalista. La stessa che ha agito sulla biosfera, distruggendola prima e rischiando di farlo nuovamente poi. Insomma, ha spremuto una formula rodatissima – e che dimostra ancora di saper vendere sul mercato – basata sul bigger is better, tentando di renderla compatibile con il comparto narrativo.

Per farlo, ha adottato delle soluzioni classiche basate sui raccordi ludonarrativi. Ad esempio, l’urgenza della missione di Aloy viene raffreddata da Gaia, che sposta la fine del mondo di lì a qualche mese, creando lo spazio per evitare contrasti tra obiettivi del personaggi e girovagare del videogiocatore. Ancora, inizialmente, nel Timore, viene bloccato il ciclo giorno-notte in virtù della presenza di un obiettivo urgente, così da far apparire ogni deviazione rispetto all’impellenza di trama comunque risolta durante una sola giornata. Dopotutto, la stessa rigidità dei sistemi di arrampicata, resi più smooth dai tempi di Zero Dawn ma comunque ben distanti dalla sensazione di totale libertà presente in Breath of the Wild, rinforza l’idea che in Guerrilla abbiano cercato una via mediana tra l’esplorazione fine a se stessa e un’esperienza più focalizzata, per quanto possibile; cosa che si riflette anche sul quest design, e non sempre brillantemente.

L’arrampicata, più croce che delizia.

I due aspetti che però più colpiscono, sono esterni alla tradizione.
Il primo riguarda la potenza narrativa delle boss fight, che acquisiscono un significato importante grazie all’illuminazione fornita dai ruoli dei personaggi; in quella conclusiva, Aloy combatte per non essere ridotta a oggetto, usando violenza contro chi non la considera come una persona. Al contrario, con Erik, l’uso della forza diviene legittimo per sfuggire al braccio armato del capitale, quello che non accetta alcuna mediazione. 

Tornano, insomma, i concetti lacaniani del “discorso del capitalista” e del “discorso del padrone”, con la dialettica ottocentesca, tipica del servo-padrone, che cede il passo a quella della sfrenata corsa all’appropriazione, ben descritto dall’euforismo maniacale di Tilda van der Meer2. La quale, in effetti, vuole possedere la protagonista di Horizon Forbidden West; e così Aloy si ritrova, simbolicamente, a combattere con le due facce storiche del capitale.

L’altro aspetto riguarda le potenzialità delle periferiche per enfatizzare i temi del videogioco, una prospettiva interessante soprattutto per i prossimi anni. Il poter sentire il mondo attraverso le mani grazie al DualSense costruisce, nel videogiocatore, un legame emotivo con la natura, da proteggere e preservare a ogni costo. Far tuffare Aloy nell’acqua caraibica della Baia di San Francisco, ricevere un minuscolo feedback percettivo delle onde che confonde il cervello per un millisecondo, edificando un accostamento con il ricordo di una nuotata vera, crea dei sentieri non ancora battuti. Il dibattito attorno a queste nuove tecnologie si è davvero raramente incentrato sui riverberi narrativi delle stesse, e Horizon Forbidden West inizia a mostrare che possano essere qualcosa in più che mere gimmick.

Sì, dovevate fare di più.

Alla luce di ciò, risulta impossibile sostenere la mancanza esistenziale dei temi nel ventaglio di proposte ludiche, e davvero difficile ritenere la realizzazione così deficitaria da minare la comprensione del messaggio. Al contrario, si aprono scenari riflessivi importanti: Horizon rappresenta le multinazionali che inglobano e rivendono anche le critiche che sono a esse riferibili, come nel caso di Amazon e la serie The Boys, oppure è un cavallo di Troia che utilizza uno schema commerciale gradito alle corp per lanciare un missile? 

E se ci fossimo già detti tutto e, quindi, l’unico modo per ribadire ciò che è importante sia incastonarlo all’interno di un contenitore che, per regola d’esperienza, non sarebbe adatto? Se fosse importante sensibilizzare anche attraverso la locura, perché digeribile da un numero enorme di persone?
Ecco, sarebbe il caso di iniziare a parlarne.

Complesse eredità e differenti percezioni

Come Guerrilla, anche noi decidiamo, in chiusura, di osare un pochino. Com’è universalmente noto, con “Meme”, “Gene” e “Scene” si è soliti riferirsi alle fondamenta della trilogia di Metal Gear Solid, quella composta dai primi tre capitoli e conclusasi, idealmente, con Snake Eater nel lontano 2004. Nella visione di Hideo Kojima, la costruzione del sé passa attraverso il rapporto con tre grandezze in realtà indisponibili al soggetto: la sua genetica (Gene), le informazioni (Meme) e il contesto storico in cui vive (Scene). 

I ringraziamenti di Guerrilla a Kojima Production.

Dopo aver portato a termine le peripezie di Aloy, non è peregrino pensare che il rapporto tra Guerrilla e Kojima Production vada oltre la cessione del Decima Engine e che esista, invece, un’influenza e una stima capaci di estendersi anche ai contenuti. Horizon, tra tutti i Tripla A moderni, è quello che maggiormente riprende gli argomenti di Metal Gear Solid; e non è difficile identificare le tre grandezze appena descritte proprio in Forbidden West. 

La distanza che separa due soggetti geneticamente identici come Aloy e Beta è data dalle esperienze di vita cui sono state entrambe sottoposte, e l’assetto valoriale che è stato, conseguentemente, generato. Non esiste alcun destino manifesto; e nemmeno il possesso dei geni di un altro rende quella persona, dominanti o recessivi che siano. Se già nel primo capitolo Aloy – Snake voleva emanciparsi in tutti i modi dalla predestinazione, qui arriva infine a distaccarsi da Elisabet – Big Boss e dalla sua eredità, quella Outer Heaven creata dal progetto Zero Dawn. Non pianifica un nuovo mondo ma cerca di salvare il proprio, mantenendolo integro dalla minaccia finale.

Dai geni di Liquid e Solid…

Come invece sottovalutare l’apporto delle informazioni nella creazione di una cultura? L’intero corso della tribù dei Quen è segnato da una lettura completamente fuorviante del passato, da una mitizzazione degli avvenimenti e dalla mancanza di accesso a dei dati considerati proibiti. Questo comporta manipolazioni e fanatismi, con importanti ricadute nel presente: addirittura il titolo di Amministratore delegato (CEO) diventa sacrale. Crea una religione, in vece di una comprensione ragionevole dei fatti; e, di converso, modella la società in maniera deforme. La stessa vicenda del database Apollo, finalmente recuperato, assurgerà a un ruolo centrale nel capitolo conclusivo della saga.

Per ultimo, Scene. Ricavata stavolta dal presente – cui Guerrilla ha saputo dare una rinnovata dignità scuotendolo dall’encefalogramma piatto di Zero Dawn – è ben descritta dal ruolo di Regalla, dalla funzione di burattinaio destinata a Sylens e dal concetto di “grand scheme of things” in cui ogni persona ricade, volente o nolente. Le relazioni tra esseri umani sono indirizzate non solo dal corredo naturale e dalle informazioni che generano la percezione delle cose, ma anche e soprattutto dalla realtà dove si è calati; il conflitto tra Carja e Tenakth non è diverso. Una vera e propria Guerra Fredda che si muove tra intransigenza e distensione, e in cui ognuno recita una parte.

…a quelli di Aloy e Beta.

Horizon Forbidden West è, dunque, un gioco interessante e che merita un palcoscenico importante all’interno del discorso videoludico, che sappia ritornare sui suoi pregi ed evidenziare i tanti difetti.

Rispondendo alla domanda (implicita) che dà il nome all’articolo, di questo sequel ci rimane intanto una certezza, che è quella di un importante indirizzo politico-riflessivo adottato da Guerrilla. Ma anche, e soprattutto, un’amarezza: l’abito fa ancora il monaco3. Spetta alla critica spezzare il pregiudizio, o almeno a riflettervi attorno; e ciò vale anche per i titoli colpevoli di aver venduto milioni di copie senza reinventare la ruota.

AAS


NOTE:

1 Questa volta non c’è nemmeno l’ipocrisia di un videogioco che parla di lotta al capitalismo mentre lo studio finisce a chiedere crunch ai propri dipendenti, cosa che Guerrilla non ha fatto.

2 La loro differenza dev’essere compresa entro un indice storico: il godimento, come si dà all’interno del discorso del capitalista, è il regime del desiderio completamente asservito alla logica del capitale, da cui le sue componenti mistiche, rivoluzionarie e utopiche vengono detournées, deviate ed estorte, oppure deformate in modo tale da poter essere messe a servizio della teologia del danaro. Alla mistica dell’amor cortese, «che mai non fina», si sostituisce la ricerca ansiosa dell’ultimo gadget.”
Trovate il resto qui.

3Ci sarebbe da aprire una lunga parentesi sull’accoglienza riservata a Citizen Sleeper (Jump Over The Age, 2022), percepito come una critica molto feroce al capitale mentre è, a conti fatti, assai più morbida di quella presente in Forbidden West. Ma la abbiamo, in parte, già formulata.


COMMENTA SU TELEGRAM

SUPPORTACI SU KO-FI

Continua a leggere

Dr. Strange nel Multiverso che non dice la definizione di Follia

Vi era un tempo in cui quella della citazione era un’arte. Si citava con metodo, cercando di prendere il significato del materiale originale ed adattarlo ad un nuovo canone. Ad un certo punto semplicemente s’è smesso di farlo, e dell’arte della citazione è rimasto il significante privato di significato, che per definizione è insignificante.

Continua a leggere

Tre buoni motivi per guardare Licorice Pizza

È da poco terminata l'annuale notte degli Oscar, con vinti e vincitori. Tra i titoli in concorso, ingiustamente battuto, figurava il nuovo film di Paul Thomas Anderson, Licorice Pizza. La pellicola è uscita nelle sale italiane lo scorso 17 marzo 2022, ottenendo buon riscontro da parte del pubblico.

Continua a leggere

Niente di vero: raccontarsi una vita

Niente di vero, edito da Einaudi, è un libro che, già dal titolo, gioca sull’ambiguità. Nonostante abbia tutto l’aspetto di essere un memoir, dichiara esplicitamente di non contenere niente di vero (se non quel tanto che basta a renderlo plausibile) e di non raccontarci niente di Vero(nica) Raimo, autrice di questo romanzo.

Continua a leggere

The Batman: un nuovo pipistrello, per una nuova epoca

The Batman: un nuovo pipistrello, per una nuova epoca

  • Alfredo Savy

  • 16 marzo 2022
  • nonguardare

Batman (senza The), quello del 1989 con Michael Keaton diretto da Tim Burton, inizia con una scena iconica, un inganno: allo spettatore viene mostrata una famigliola in pericolo che sta per essere derubata e uccisa. Ovviamente la mente va subito all’omicidio di Martha e Thomas Wayne, e tutti sono convinti che stiano venendo rivelate proprio le origini del supereroe. Eppure, pochi attimi dopo, Batman irrompe teatralmente, punendo i maldestri criminali e collocando l’episodio diversi decenni dopo il momento traumatico, quello che ha creato i presupposti per la missione punitiva di Bruce. 

Gli anglosassoni, che hanno un termine molto elegante per (quasi) qualsiasi cosa, parlerebbero di subverting expectations, ribaltare le aspettative: chi guarda crede che gli stiano mostrando (o per mostrare) qualcosa, e poi se ne trova davanti un’altra. The Batman (stavolta con il The) compie la stessa operazione e, voluto o meno che sia, è un atto fortemente simbolico. Lo spettatore guarda, da lontano, un bambino travestito da spadaccino in una stanza: delle figure gli si avvicinano, unendosi al gioco. Si compone, in questo modo, un quadretto familiare che tanto rassomiglia a quello del piccolo Wayne con i genitori, prima della loro morte: non staranno per farci vedere mica questo, di nuovo? La risposta è no.

Subverting expectations in Batman (1989)…

Stavolta il ribaltamento delle aspettative assume le sembianze dell’enigmista di Paul Dano, che emerge letteralmente dall’ombra per compiere un efferato omicidio ai danni del candidato sindaco di Gotham City. Dicevamo prima del parallelismo con l’incipit del film del 1989: ecco, The Batman di Matt Reeves è tutto qui, in questa sequenza di apertura, e nel confronto con ciò che fu. Si svela subito nelle intenzioni, al contrario della sua trama corpulenta e posata: una gigantesca, enorme, vorticosa operazione di subverting expectations. Dall’ombra non emerge l’eroe, ma il villain; ad accompagnare ci sono solo l’Ave Maria di Schubert, in una versione compressa e rivisitata che diventa un grido d’aiuto. Poi c’è Lei, la morte, onnipresente e centrale: tutto gira intorno a essa, evitata, cruenta o impetuosa che sia. E forse questo film la conduce addirittura a un livello superiore, descrivendo la necrosi di una comunità, se non di una società. 

Ma ci arriveremo poi. Per ora, ci basti sapere che The Batman è una pellicola non solo importante perché dimostra come si possa ancora oggi proporre un cinema supereroistico diverso, accanto alla macchina industriale perfettamente sincronizzata della Marvel-Disney. Un modo di fare film più riflessivo, e autonomo da ramificazioni esterne; per quanto perfino pretenzioso possa apparire, a tratti, il risultato finale. Abbracciando questo punto di vista, la versione di Reeves risponde a una domanda fondamentale e che, forse, diamo spesso per scontato: perché oggi è ancora importante raccontare Batman?”. Perché, nei nostri ruggenti anni Venti tra pandemie, riarmi nucleari, conflitti regionali che rischiano di allargarsi a macchia d’olio, un personaggio vecchio quasi un secolo riesce ad attrarre così le persone? Cos’avrà mai da dire ancora, in un tempo così diverso da quello in cui è nato?

Certo, si potrebbe rispondere a questa domanda facendo leva sull’aspetto estetico, sull’incredibile carisma del personaggio, sulla potenza dell’ambientazione di Gotham, contemporaneamente gotica e moderna, accelerazionista e classica. Eppure c’è qualcosa di più: l’ingrediente segreto è la dualità. Il personaggio di Batman è non solo costantemente in bilico tra l’essere un vigilante e un eroe, ma simboleggia eternamente la tensione tra due forze che si contrappongono: quella più istintiva e bestiale, che discende direttamente dalla ferinità dell’essere umano, e il desiderio profondo di darsi delle regole – siano esse codici di autocondotta o estensibili alla maggioranza dei consociati – per controllare proprio quel sentimento primitivo. 

…e in The Batman (2022).

Batman, quindi, è da sempre in lotta sia con se stesso, e i suoi impulsi distruttivi, che con la società che l’ha (di riffa o di raffa) modellato; pertanto, rappresenta un fenomenale personaggio – ascensore tra la dimensione collettiva delle cose e quella individuale. Descrive l’uomo in quanto tale e l’uomo in quanto cittadino, muovendosi al limite in entrambi i casi. Non che l’immagine di un supereroe con superproblemi,tanto cara a Stan Lee, volesse giungere a un risultato diverso rispetto a quello di far comunicare il protagonista con il mondo che lo circonda, sia chiaro; eppure Batman, con la sua assenza di poteri sovrannaturali e la sua regressione quasi archetipica (a tratti sembra un concetto antropomorfo più che un personaggio), diventa l’alfiere perfetto per parlare di Umanità.
Più e meglio di altri.

Ecco: Matt Reeves questa cosa l’ha capita e ci ha costruito sopra un’intera pellicola. Utilizzando, come strumento per dialogare con lo spettatore, quel ribaltamento delle aspettative che abbiamo tratteggiato a inizio articolo.

Il primo livello: l’individuo

[DISCLAIMER: di qui in poi l’articolo contiene SPOILER su The Batman]

The Batman è un romanzo di formazione capovolto, dove la persona si sviluppa attraverso la maschera. Le varie opinioni che evidenziano negativamente la poca presenza di Bruce Wayne, o la scarsa appetibilità dello stesso quando è fisicamente in scena, vanno prese e rispedite al mittente: l’alter ego di Batman non c’è perché, semplicemente, non si è ancora formato. Esiste solo Batman e la sua crociata, nient’altro: tutto il resto è un ricordo sbiadito di un giovane fantasma, incapace anche di tenere lo sguardo in su. Questo stato d’animo è perfettamente descritto dalla prima parte della magnifica colonna sonora di Michael Giacchino: un motivetto tetro che si ripete ossessivamente, apparentemente per sempre.

Oltre a lasciargli in dono una psiche devastata e una notevole incomunicabilità con gli altri, con i quali Bruce interagisce solo a suon di pugni quando indossa il costume e con vari gradi di distacco in abiti civili, il trauma a cui il rampollo di casa Wayne è stato esposto in giovane età ha portato a una totale idealizzazione dei suoi genitori. Questi gli appaiono come nulla più che santi, e si approccia alle loro figure con l’emotività di un bambino, incapace di cogliere gli aspetti equivoci del loro omicidio; per uno che si presume sia il più grande detective del mondo è un bel guaio. 

Rivivere il trauma.

La faccenda è così imbarazzante da far sembrare l’incapacità analitica di Bruce – e la distorsione dei suoi ricordi – tanto innaturale da apparire quasi come una repressione autoinflitta, più che una mancanza di comprensione a causa della giovane età. La giustizia è cieca perché ha scelto di essere tale. Dopotutto, più che all’ormai abusato concetto di giornata storta attribuibile a The Killing Joke (Moore, Bolland, 1988), The Batman sembra raccontare una giornata interpretata male e che, automaticamente, crea una crociata deformata perché basata su delle fondamenta non certo solide. In parole semplici: se l’Uomo Pipistrello nasce per vendicare quello che, di fatto, ai suoi occhi è stato un martirio e che tale non era, qual è l’elemento ultimo che fonda la missione di Batman?

Più precisamente, saccheggiando un termine tanto caro a Jacques Lacan, Bruce Wayne deve evaporizzare la figura paterna, sostituendola con dei valori propri. È costretto a smettere di essere figlio e diventare, pienamente, autonomo; e, in questo, sarà fondamentale anche il legame con Catwoman, che segna il momento (per quanto distorto, incompleto e sui generis) dell’allontanamento dal nucleo familiare originario per raggiungere una maturità piena, tramite il rapporto di coppia. Tutto questo mentre lotta con chi – l’Enigmista – vuole che le colpe dei padri ricadano sui figli: e quindi evoca il diritto di vendicarsi. 

Dal punto di vista visivo, la regia di Reeves realizza questo concetto con la tripla scena dell’Iceberg Lounge: prima si presenta Batman, poi Bruce e infine un misto tra i due, che entra in maniera furtiva e solo dopo indossa il costume. Rappresenta la ricerca affannosa di un’identità e di un equilibrio, il quale arriverà solo alla fine e prendendo il meglio di entrambi. A cadere dalla torre, nel processo di rinnovamento personale, è proprio il costrutto della vendetta come unico motore del Cavaliere Oscuro. 

Speranza. La fotografia di Greig Fraser fa il resto.

Dopotutto, The Batman degrada l’omicidio dei Wayne (pur rimanendo un certo grado di incertezza) a un probabile regolamento di conti interno ai potenti di Gotham; lo sveste della sacralità, dove l’agire del Pipistrello non è correlato una visione messianica, a un’illuminazione al sapore di perle strappate e colpi di pistola, ma a un’illusione fanciullesca durata anche troppo a lungo. 

Eliminato il velo di Maya, rimane solo uno psicopatico vestito da topo volante. Dunque bisogna ricostruirsi, edificando un nuovo simbolo; affidandosi, questa volta, alla speranza. Un sentimento che porta a un’emulazione positiva, a un cerchio virtuoso e non a una spirale di violenza insensata (come, del resto, ci hanno spiegato molte produzioni contemporanee, da The Last of Us Parte II a Red Dead Redemption II).

Alla fine del film, Bruce sembra addirittura quasi pronto a diventare padre: chissà che il ragazzo visto all’inizio non sia proprio l’ex delinquente Jason Todd, e un potenziale sequel non ci mostri finalmente Robin?

Il secondo livello: la società

L’aspetto che più risulta convincente – sebbene non fornisca una prospettiva certo originale – è il rapporto tra Batman e la società che lo circonda. Il nostro viene dipinto quasi come un idiot savant, tanto concentrato sulla sua crociata da non rendersi conto nemmeno di cosa gli sta accadendo intorno. A rifletterci attentamente, non è il Cavaliere Oscuro a svelare l’intrigo che avvolge la classe dirigente di Gotham, ma l’Enigmista; e allora non ci si può chiedere quale tipo di persone siano quelle a cui Batman dà la caccia, che posizione ricoprano i soggetti verso cui rivolge la sua collera e di chi, senz’ombra di dubbio incidentalmente, stia difendendo il privilegio. È una condizione che non sfuggirà all’occhio felino di Selina Kyle che, a un certo punto, gli domanderà appunto cosa freghi a Batman di difendere le prerogative di certa gente.

Per comprendere meglio l’operazione effettuata sul personaggio, bisogna partire da questa splendida e famosa vignetta di Batman: Anno Uno (Miller, Mazzucchelli, 1988) che rappresenta una delle maggiori influenze fumettistiche di The Batman.

Da Anno Uno, di Frank Miller.

Come si può osservare, è Batman a intervenire direttamente nei confronti dell’élite, e non a scontrarvisi per caso dopo che il problema è stato sollevato dal villain di turno. Sebbene sia innegabile che alla stesura della sceneggiatura abbiano contribuito altre storie di un certo peso – Terra Uno (Johns, Frank, 2012) e parte del ciclo di Scott Snyder e Greg Capullo su tutte – è pacifico che un ribaltamento del genere, al cinema, non si era mai visto. Che, quindi, assume proprio i crismi della presa di coscienza.

Dicevamo idiot savant non a caso: Bruce Wayne sembra un uomo dalle straordinarie capacità (fisiche e mentali), ma con dei grossi problemi cognitivi che lo portano a non capire le istanze che attraversano la città di cui si propone come guardiano. Senz’altro parte del problema deriva dal trauma di cui si discuteva nel paragrafo precedente; ma è altrettanto chiaro come, per concentrarsi unicamente su un’ossessione, bisogna essere nella posizione di farlo. Bruce Wayne è, insomma, anch’egli un privilegiato – come gli farà notare proprio l’Enigmista. Un privilegiato illuminato, certo; ma pur sempre un privilegiato. Ed è proprio quello status ad aver creato lo spazio vitale per la creazione della maschera, di Batman.

Seguendo questo ragionamento, è chiaro che un eroe non possa limitarsi solo a menare le mani su chi si è trovato a delinquere, ma debba anche essere proattivo e costruire un ambiente che riduca la possibilità di farlo per bisogno. La diseguaglianza dei redditi, le diverse possibilità legate al livello economico del singolo, il silenzio delle istituzioni e il ruolo della filantropia – non elemosina, ma redistribuzione – sono temi chiave del film. Il quale mostra, di concerto, come a Batman serva Bruce Wayne per raggiungere una certa rotondità, in termini di capacità di plasmare la società in cui vive (e non solo quella).

Sei orfano? Meglio essere un orfano ricco. Avrebbe dovuto scriverci questo.

In un periodo economico segnato da un allargamento costante e sfacciato della forbice sociale, The Batman sembra quindi essere una pellicola affine al tempo che l’ha prodotta. Su queste pagine ci interrogavamo – già nel 2019 – su una riscoperta del conflitto di classe da parte del cinema mainstream, con proprio Joker (Phillips, 2019) come esponente più rumoroso di questa new wave di responsabilità. Sebbene sia concreto il rischio di ricadere nel “we live in a society”, foriero di una certa de-responsabilizzazione individuale se accompagnato a una narrazione superficiale di tensioni irrisolte e quesiti complessi, è inevitabile che anche il cinema più squisitamente fantastico tenti di approcciarsi alla modernità.

Pur non volendo entrare nelle idiote classifiche di gradimento oggettivo (?) e nell’onanismo derivante dalle comparazioni tra film con scopi diversi, il modo in cui viene trattato il tema della Rivoluzione in The Dark Knight Rises (Nolan, 2012) e in The Batman è praticamente antitetico. Questo è vero non solo nella maturità con cui viene discusso un argomento così pesante (basti vedere la descrizione di Nolan e Goyer riguardo Occupy Wall Street, sebbene rifiutata dagli stessi autori), ma anche nel rapporto tra autorità e popolo. 

In The Batman, la delusione e la disperazione creano terreno fertile per la rivolta, con la vendetta che diventa il motore di un intero segmento sociale: l’unico modo per evitarla, ed evitare che venga strumentalizzata da folli in maschera, è l’impegno concreto, attraverso un simbolo di speranza. In Rises, qualsiasi sistema politico che si opponga a quello vigente diventa una parodia, in attesa dell’inevitabile reazione (e della repressione) capace di liberare un popolo minorenne e malato. Nel film di Reeves la gente si vede, e si percepisce il disagio nei vicoli che puzzano di piscio, sangue e abbandono: lo stesso giudizio morale (vd. paragrafo successivo), come già in Joker, sfuma. Le azioni dell’Enigmista non sono accettabili ma – a tratti – almeno comprensibili nella genesi, mentre si leva la coltre di fumo sulla città-cloaca; quelle di Bane e soci, praticamente mai. 

Le riprese della battaglia di Gotham in The Dark Knight Rises (Nolan, 2012). Uno dei momenti più controversi della pellicola.

Anche il rapporto con i villain diventa, di conseguenza, ambiguo: l’Enigmista, come il personaggio interpretato da Joaquin Phoenix, potrebbe esistere anche in un mondo dove non c’è alcun Uomo-Pipistrello, modificando parzialmente il canone (presente in Batman: Il Lungo Halloween di Loeb e Sale, ma non solo) di Batman che crea i suoi nemici e non viceversa.
Il che ci conduce all’ultimo punto della nostra analisi.

Il terzo livello: lo spettatore

NO MORE LIES

La catchphrase dell’Enigmista in The Batman

Volendo spingerci un po’ oltre (in chiusura possiamo farlo), si potrebbe osservare come il discorso di The Batman voglia impattare direttamente sullo spettatore. In effetti, quest’ultimo è da sempre stato educato a credere, come Bruce, alla santità dei coniugi Wayne e alla favola del mecenatismo; la scoperta della verità conduce non solo il protagonista a ripensare al suo ruolo nella società, ma anche il fruitore a indagare sui meccanismi che la governano. Ad esempio, che in certi ambienti nessuno è davvero pulito: e che credere diversamente, pensare in maniera polarizzata, significa solo raccontarsi delle bugie.

I temi squisitamente politici che Reeves cerca di rivolgere all’attenzione dello spettatore sono, inoltre, molteplici. Non solo c’è un richiamo esplicito alle tensioni etniche che muovono l’America contemporanea  white privilege, afferma esplicitamente Catwoman – che si riflette in Jim Gordon e la nuova sindaca di Gotham quali simboli di speranza istituzionale anche perché neri, ma lascia al fruitore il compito di esprimere un giudizio sulle azioni dell’Enigmista stesso. The Batman è anche un film sul concetto di limite: non solo sulla liceità dell’omicidio, tema caro al personaggio, ma anche e soprattutto sulla distanza che esiste tra rivoluzione e terrorismo, tra follia e voglia di modificare le ingiustizie, tra voler tutelare l’ordinamento e assumere delle posizioni ciecamente reazionarie.

D’altronde, se pensiamo che,

La verità è sempre rivoluzionaria.

Antonio Gramsci

è proprio la rivoluzione a essere collegata allo svelamento della verità. Come nell’abbondantemente citato Joker, qualcuno potrà pensare che la sanzione morale non sia netta; The Batman, però, è una di quelle pellicole in cui la domanda irrisolta è più centrale del giudizio di valore che le si accompagna. Certo è che l’Enigmista assume contorni più netti rispetto a Mr. J: uno stragista, più che un (sedicente) rivoluzionario. Eppure, la sua rabbia – come dicevamo poc’anzi – ha un’origine ancorata alla disparità, capace di colpire chi è dall’altra parte dello schermo.

La domanda. Ciò che conta è la domanda.

Per quanto riguarda la componente individuale, va rimarcato che sono proprio i film precedenti, in cui papà Thomas subiva un certo processo di evangelizzazione,

Sai perché cadiamo, Bruce? Per imparare a rimetterci in piedi.

Batman Begins, regia di C. Nolan, 2005

a creare quelle aspettative che poi il regista si diverte a ribaltare, e di cui – come abbiamo precedentemente suggerito – la sequenza iniziale ne costituisce un certo testamento. Non è solo Bruce Wayne a essere spiazzato, ma anche chi vede il film; e il messaggio arriva dritto e forte.

Dal punto di vista del contenitore, Reeves sceglie di girare un film noir e con un pizzico di hard-boiled, sacrificando un linguaggio ormai metabolizzato dallo spettatore di cinecomics. Le scene d’azione si contano sulle dita di una mano, pur essendo ottimamente, e a volte addirittura magistralmente, orchestrate. Gli stessi trailer mostrano la più gran parte dei combattimenti, diventando addirittura un pizzico ingannevoli; The Batman è una pellicola molto più dialogica e posata rispetto al montaggio frenetico del materiale promozionale.

Anche questa è una decisione forte, in controtendenza: ma sicuramente amalgamata a un film che vuole dire, e in effetti dice, qualcosa di speciale. Tutto questo è in linea con l’idea, da sempre presente nel fumetto seriale, che il personaggio subisca pesantemente l’influsso dell’autore al comando; il quale, a sua volta, si interfaccia con il suo presente. Il nostro presente, quello disperato e apocalittico di cui The Batman è, volutamente, impregnato.

AAS


COMMENTA SU TELEGRAM

SUPPORTACI SU KO-FI

Continua a leggere

The House, analisi e significato

Vi è mai capitato di sognare di muovervi in una casa dalle dimensioni indefinibili, labirintica? Se sì, magari vi sarete sentiti estasiati dal girare per enormi sale addobbate, o divertiti dallo spiare, invisibili agli occhi di tutti, ciò che accade nelle stanze dall’intercapedine delle pareti; o, forse, vi sarete sentiti spaesati, un filo terrorizzati, dall’essere intrappolati in una grossa magione dalla quale non è possibile evadere.

Continua a leggere